Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Patrizio Campanile
*Per citare questo articolo:
Campanile P. (2025). Ilse Grubrich-Simitis. Rifare il punto sulla teoria freudiana del trauma. Centro Veneto di Psicoanalisi, Sito wwww.centrovenetodipsicoanlisi.it, sezione “Storia della Psicoanalisi”, 1-23.
Desidero ricordare Ilse Grubrich-Simitis, psicoanalista e studiosa tedesca e stimolare l’interesse sul suo fecondo e prezioso lavoro di ricerca. Ha dedicato buona parte della sua vita allo studio dell’opera di Freud; ciò l’ha portata a delle vere e proprie scoperte e ad un grado di conoscenza della sua storia, dei suoi legami, del suo stato d’animo e del modo di elaborare i suoi scritti che le hanno permesso di fare utili ipotesi su come nel corso degli anni si sia sviluppato il suo pensiero e su ciò che, verosimilmente, lo abbia condizionato. Studiare i suoi lavori per me è stato di grande interesse e molto utile.
Come analista, fin dagli anni settanta, si è dedicata alla cura di pazienti appartenenti alla seconda generazione dei sopravvissuti alla Shoah e l’interesse che ha coltivato per la cura dei “traumi estremi” è stato il retroterra del suo studio. Ciò, come vedremo e come lei stessa dichiara, ne ha sicuramente influenzato l’attenzione ed il modo di leggere il testo freudiano.
Dal punto di vista teorico ha approfondito la riflessione sull’evoluzione, complessa e tutt’altro che lineare, dei punti di vista di Freud sul trauma: ha inteso, infatti, mostrare come egli pur avendo ufficialmente valorizzato le fonti interne (pulsionali) all’origine dei traumi, arrivando a rinnegare le ipotesi che pure aveva formulato precedentemente in cui sottolineava il peso dei fattori reali (la seduzione), non abbia, in realtà, mai messo da parte il riconoscimento del peso che essi hanno nel determinare le sorti della vita degli individui.
Ha, altresì, messo in evidenza come le esperienze traumatiche (tali per la loro entità o per il loro ripetersi) siano diventate (o ritornate ad essere) oggetto privilegiato della riflessione di Freud, man mano che la sua attenzione si è orientata consapevolmente verso la psicosi approfondendo lo studio dei meccanismi e delle cause che la caratterizzano e la determinano.
Un allargamento di orizzonte che Grubrich-Simitis descrive passando in rassegna i lavori di Freud e che ascrive da una parte ad una ripresa dell’autoanalisi (che lo avrebbe messo in contatto con aspetti di sé e della propria storia che lei mette in evidenza e sotto osservazione, facendo conseguentemente delle ipotesi) e, dall’altra, al pericolo per la sua vita e quella dei suoi cari dovuto all’ascesa del nazismo, all’impoverimento progressivo, allo stato di bisogno ed allo sconvolgimento cui veniva ad essere esposto il movimento psicoanalitico da lui creato.
Questi, in sintesi, i frutti del suo studio che si è sviluppato nel corso di molti decenni e che si è basato, come ho detto, anche su delle scoperte che ora vedremo (ne ricorderò tre) e sull’attenta osservazione del modo in cui è avvenuta da parte di Freud la scrittura di alcuni testi.
La prima scoperta: il XII Saggio di Metapsicologia
La prima ‘scoperta’ risale al 1983: stava lavorando, per la sua pubblicazione, alla preparazione del carteggio tra Freud e Ferenczi. Recatasi a Londra, “lì, mentre rovistava in un baule pieno di documenti lasciati da Ferenczi al suo amico Michael Balint”[1], s’imbatté inaspettatamente in uno scritto inedito di Freud. Era il Dodicesimo saggio della raccolta di Scritti di Metapsicologia risalenti al 1915. Uno dei saggi non pubblicati e che si era sempre ritenuto fossero stati distrutti dal loro autore perché da lui considerati insoddisfacenti. Fu una scoperta di grande rilievo.
Freud aveva programmato di scrivere questi saggi per illustrare dove era pervenuta la sua ricerca nei quindici anni che avevano fatto seguito all’Interpretazione dei sogni. Solo cinque, dei dodici previsti, furono pubblicati[2]. Questo venuto inaspettatamente alla luce mostra, secondo Grubrich-Simitis, verso quali direzioni Freud si stesse spingendo con le sue speculazioni e le perplessità che evidentemente aveva avuto al proposito e che lo avevano spinto a fermarne la pubblicazione.
La lettera che Freud indirizza a Ferenczi il 28 luglio 1915 è scritta sul retro dell’ultima pagina dell’inedito:
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[1] Mahoni, 1989, IJPA, 70:165-167.
[2] Freud S. (1915). Metapsicologia: Pulsioni e loro destini; La rimozione; L’inconscio; Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno; Lutto e melanconia. O.S.F., 8.
Caro amico,
Le mando con la presente la bozza del XII [saggio], che sicuramente La interesserà. Può buttarlo via o conservarlo. La stesura definitiva lo seguirà frase per frase e se ne differenzierà ben poco. Le pagine 21-23 sono state aggiunte dopo la Sua lettera, di cui ero in attesa. La Sua eccellente obiezione era stata fortunatamente prevista[1].
Accompagnato da una sua introduzione il testo rinvenuto venne pubblicato in tedesco nel 1985 con titolo Übersicht der Übertragungsneurosen: Ein bisher ubekanntes Manuskript. Dell’anno successivo è l’edizione italiana: Sintesi delle nevrosi di traslazione : un manoscritto inedito / Sigmund Freud. A cura e con un saggio di Ilse Grubrich-Simitis (Boringhieri).
Va notato che quando, l’anno dopo (1987) esce l’edizione inglese i traduttori (A. Hoffer e P.T. Hoffer), in accordo con la curatrice, scelgono di assegnarle come titolo A Phylogenetic Fantasy. Overview of the Transference Neuroses spiegando di aver optato per ‘Una fantasia filogenetica’ in quanto in ciò si riconosceva l’originalità del testo e si faceva riferimento a come Freud stesso si era espresso in una lettera indirizzata a Ferenczi qualificando la sua costruzione come fantasia, una fantasia filogenetica. Osservavano altresì che il riferimento alle nevrosi di transfert trascurava l’attenzione che nel saggio veniva assegnata, già allora, alle nevrosi narcisistiche, cioè alle psicosi.
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[1] V. edizione italiana pp. 8-9. Segnalo la particolarità di questa pubblicazione che riunisce le copie delle pagine manoscritte, la trascrizione riga per riga del testo manoscritto e la relativa traduzione.
In cosa consisterebbe la fantasia?
Nel testo Freud indaga le origini delle nevrosi e quando deve affrontare la tematica della “predisposizione” e delle cosiddette nevrosi narcisistiche riconosce che in questo caso “la rimozione[1] presenta una diversa collocazione topografica e va estesa alla nozione di scissione”. Ciò avrebbe a che fare con un qualcosa che precederebbe l’individuo; traccia ed efficacia proverrebbero da un passato lontano: questa è la fantasia filogenetica. Freud, cioè, secondo Grubrich-Simitis, volendo valorizzare e preservare centralità alla teoria pulsionale del trauma, ascrive non alle vicende individuali, ma ad eventi lontani relativi alla storia dell’umanità (glaciazione, parricidio) e quindi non riferibili alla storia dell’individuo, un’influenza che sarebbe rimasta determinante. Nel testo si trova inoltre che, mentre le nevrosi di transfert ruoterebbero attorno ad ansia e sessualità, quelle narcisistiche riguarderebbero la perdita dell’oggetto (da ricondurre comunque non necessariamente all’infanzia dell’individuo, ma, diciamo, dell’umanità).
Per Grubrich-Simitis, che si interrogava sul <<[2]perché Freud abbia reagito sempre prontamente con ambivalenza alla presentazione di nuove teorie sul trauma>>[3], egli stava cercando (e non sarebbe l’unico caso) di tener assieme, senza giungere ad una sintesi soddisfacente, la teoria pulsionale e, parallelamente, il riconoscimento dell’importanza dei traumi ‘reali’.
Ripensando (2006) a quanto aveva allora affermato, successivamente scrive: <<Il fatto che io abbia interpretato allora il testo principalmente come un recupero della teoria traumatica dell’eziologia delle nevrosi, che apparentemente Freud aveva abbandonato totalmente, era senza dubbio legato alla mia attenzione di quegli anni al problema dei traumi estremi. Questo interesse si era sviluppato nell’ambito del mio lavoro clinico, iniziato verso la metà degli anni ’70, con pazienti appartenenti alla seconda generazione dei sopravvissuti della Shoah[4]. Diversamente dalla situazione odierna, in cui il trauma sembra andare per la maggiore in psicoanalisi, allora esso rappresentava ancora un argomento tabù nella nostra professione >> (2006, p. 10).
Come vedremo, la tematica ‘trauma’ è rimasta comunque al centro degli interessi dell’autrice (per questo ho messo il sottotitolo che vi fa riferimento) indirizzando le sue ricerche e forse condizionando alcune sue letture dei testi.
La teoria del trauma
Val la pena di entrare un po’ di più nelle argomentazioni di Freud sintetizzate da Grubrich-Simitis e nel suo modo di commentarle.
<<Alla fine del dodicesimo studio metapsicologico, egli integra le basi somatiche ed ereditarie del modello pulsionale con una riflessione in termini di biologia evolutiva sulla costituzione filogenetica che soggiace alla disposizione ontogenetica. […] Nella sua fantasia filogenetica, Freud immagina davvero questi atti e questi eventi ambientali come traumatici: il cambiamento climatico radicale, il grave rischio di sopravvivenza a causa di fame e freddo, l’espulsione e la castrazione ad opera del padre primigenio e, in ultimo, l’assassinio di questi>> (2006, p. 12).
Il tentativo le sembra di rilievo (ed indicativo di una prova in corso, seppur malriuscita, <<tendente a incorporare i fattori traumatici della patogenesi nel tessuto della teoria delle pulsioni>> – ibid., p. 13), nonostante le critiche che pure lei stessa esprime: <<Sono tante, naturalmente, le obiezioni che possono essere addotte per respingere la ricostruzione di Freud come scientificamente inattendibile e perfino astrusa. Permettetemi di menzionarne solo due. Primo, non esiste prova incontrovertibile di un sistema di trasmissione lamarkiano[5]: le esperienze ambientali dell’organismo non possono essere incorporate direttamente nel suo genoma, per cui la castrazione e il parricidio nelle nebbie della preistoria non possono aver lasciato un precipitato diretto sotto forma di predisposizione ereditaria alla psicosi. Secondo, le forme di comportamento non si pietrificano e non possono essere riscoperte come fossili: è tempo sprecato, pertanto, lambiccarsi il cervello e chiedersi se la castrazione e il parricidio della preistoria, dei quali nulla è giunto fino a noi a livello di simboli, fossero modelli di comportamento realmente diffusi per un prolungato periodo di tempo. È lecito supporre che Freud fosse perfettamente consapevole di queste obiezioni. Dopo tutto, con l’uso del termine ‘fantasia filogenetica’ è lui il primo ad attirare l’attenzione sul carattere fantastico della propria ricostruzione>> (ibid., p. 11).
Si tratterebbe, comunque, di uno dei molteplici tentativi di Freud di tener assieme i due lati della questione: <<i due modelli non sono, in realtà, antagonisti; essi rappresentano piuttosto due versioni successive e complementari della teoria eziologica di Freud, una delle quali, quella traumatica, accentua gli stimoli del mondo esterno, mentre l’altra, quella pulsionale, sposta l’attenzione sui fattori invisibili del mondo interiore>> (ibid., p. 15). Infatti, <<anche dopo il rifiuto della fantasia filogenetica, Freud si sforza per tutta la vita di integrare nei propri scritti il modello traumatico e quello pulsionale>> (ibid.). L’autrice riporta a questo punto una serie di esempi a testimonianza di questa sua tesi (ibid., pp. 16-17).
A sostegno della sua ricostruzione, fa appello in modo speciale a L’uomo Mosè e la religione monoteistica che, come vedremo, è stato uno degli oggetti centrali dei suoi studi. Val a pena di leggere per esteso alcune sue argomentazioni:
<<In età avanzata […] è con Mosè e il Monoteismo (1934-38), che Freud ritorna davvero alla sua ‘fantasia filogenetica’. In quest’opera, iniziata a Vienna sotto l’influsso dell’ascesa al potere di Hitler e degli impensabili eccessi dell’anti-semitismo e completata in esilio a Londra con il presentimento della Seconda Guerra Mondiale e di una traumatizzazione collettiva estrema, Freud sembra avvertire l’urgenza di riflettere un’ultima volta sul trauma e i suoi effetti. E anche qui stabilisce un’analogia tra la genesi della religione e l’eziologia della nevrosi, indagando di nuovo sugli eventi traumatici reali del mondo esterno – la “verità storica” (Freud, 1934-38, p. 383)[6] – che può essere considerata in ultima analisi la responsabile dell’intensità della convinzione e del carattere ossessivo della fede religiosa nonché delle fantasie patogene. E ancora una volta Freud ci racconta la storia di quei fatti preistorici violenti, l’assassinio, la castrazione, l’espulsione dei figli, il parricidio e così via, che vengono tramandati mediante l’ereditarietà sotto forma di fantasie originarie indipendentemente dalle esperienze di vita individuali. Con sorprendente ostinazione, Freud ribadisce per un’ultima volta le sue convinzioni neo-lamarkiane contrarie alle concezioni della biologia a lui contemporanea, che ben conosceva. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che Freud accenna anche a un altro possibile metodo di trasmissione transgenerazionale: il simbolismo arcaico e ubiquo del linguaggio (Freud, 1934-38, p. 420). Al livello dell’ontogenesi Freud considera traumi non solo le trasgressioni sessuali e aggressive ma anche, per la prima volta, le “offese remote che l’Io ha subito (umiliazioni narcisistiche)” (Freud, 1934-38, p. 397). Il concetto di trauma si amplia con l’aggiunta delle possibili ferite inflitte al narcisismo del soggetto durante i processi di formazione della struttura primaria, aventi effetti concomitanti come alterazioni patologiche permanenti dell’Io. Quindi è solo nella fase finale della sua opera che Freud arriva ad intuire il fatto che “l’Io può essere scisso” e che con la genesi di una parte psichica scissa e inaccessibile, di “uno Stato nello Stato, […] è aperta la via alla psicosi”. Così è in questa sua ultima riflessione sul trauma e sulla pulsione che Freud fa compiere alla sua indagine sul meccanismo di difesa della scissione un ulteriore passo avanti, tracciando una nuova via per il futuro della nostra disciplina. Come sappiamo, Freud esita a lungo prima di pubblicare i tre saggi che costituiscono il libro su Mosè. Non solo per ragioni politiche, ma senza dubbio anche perché sta portando avanti lo sforzo di riconciliare per l’ultima volta la teoria traumatica con quella delle pulsioni. Nel caso dell’Uomo dei lupi, la cui pubblicazione è stata ugualmente rinviata, nel contesto del significato eziologico da attribuire alle fantasie infantili da un lato e alle reali esperienze traumatiche dell’infanzia dall’altro, Freud inequivocabilmente scrive: “Ammetto che questo è il problema più spinoso di tutta la dottrina analitica […]. Nulla mi ha mai turbato di più di questo dubbio, e nessuna incertezza mi ha mai trattenuto di più di questa dal pubblicare le mie conclusioni” (Freud 1914, p. 575, nota). Manifestatamente Freud resta fedele per tutta la vita all’attitudine formatasi nel periodo Fliess; conserva, cioè, il timore che il modello traumatico, relativamente inoffensivo con il suo diretto richiamo al senso comune, possa mettere a rischio il modello pulsionale, radicalmente più nuovo, più sgradevole, “più difficile e meno verosimile” (Ibid.). Quando Otto Rank pubblica la sua teoria sul trauma della nascita nel 1924, Freud si allarma all’idea che: “la nostra ingegnosa costruzione eziologica possa essere soppiantata dal crudo trauma della nascita” (Lettera a Ferenczi del 26 marzo 1924). Anche il tragico allontanamento da Sàndor Ferenczi, all’inizio degli anni ‘30, è attribuibile, in ultima analisi, al lavoro altamente originale di questi sulle esperienze traumatiche dei bambini molto piccoli con i loro oggetti primari: la prima descrizione e spiegazione concettuale effettiva di ciò che oggi noi chiamiamo disturbi narcisistici della personalità e patologia borderline>> (Grubrich-Simitis, 2006, pp. 17-18).
<<Freud – conclude Grubrich-Simitis – ha sempre dato per scontato l’elemento traumatico, anche se ne ha parlato in maniera esplicita solo di rado nei suoi scritti. Lo stesso – aggiunge – vale per gli aspetti del rapporto reale tra analista e paziente>> (ibid., p. 22), questione che certamente con quella del trauma s’intreccia (ed è stata intrecciata nella psicoanalisi del dopo Freud, a partire proprio da Ferenczi). E ricorda: <<Eitingon […] racconta come Freud fosse solito dire alla sua cerchia più intima: “Il segreto della nostra attività è che la cura è una cura attraverso l’amore” Secondo Eitingon, Freud ripeteva spesso questa affermazione oralmente. È lecito supporre, tuttavia, che in un testo scritto, e di sicuro in uno pensato per la pubblicazione, egli avrebbe probabilmente usato il termine “amore inibito nella meta”. Eppure Eitingon aggiunge nelle sue note che Freud, specialmente nel caso di pazienti particolarmente difficili – inclusi forse quelli traumatizzati? – era anche convinto che attraverso un “sforzo personale supremo” fosse ancora possibile entrare in contatto con loro, “ma a costo della propria pelle”. Questo concetto veniva espresso in maniera ancora più eloquente con queste parole: “Nel trattamento si può ottenere di più, ma a costo di strapparsi via strati di pelle”>> (ibid., p. 22).
Il carteggio Freud-Eitingon[7] ed il carteggio Freud-Martha Bernays[8]
Su questi due carteggi Grubrich-Simitis ha a lungo lavorato; prendere qui in considerazione quanto ha scritto al riguardo ci consente di comprendere più approfonditamente qual è stato il retroterra di indagini che l’ha portata a sviluppare i suoi punti di vista.
Sul primo dei due scrive nel 2008 un saggio pubblicato nella Revue française de psychanalyse[9]. È un testo che ci permette di conoscere alcuni aspetti della storia di Freud in quanto l’autrice, osservando lo sviluppo della relazione tra i due, integra il racconto con innumerevoli elementi da cui ricava ipotesi su cui invita a riflettere.
Eitingon, mecenate della psicoanalisi e a lungo sostegno non solo economico per Freud, è stato il fondatore del Policlinico Psicoanalitico di Berlino ed ideatore del sistema di training che porta il suo nome (quello cui, seppur con delle varianti, aderisce tuttora la SPI); sua è l’introduzione nel training della prassi delle supervisioni. Di lui non si conservano scritti significativi; Freud lo sollecitava costantemente; di lui si fidava rispetto alla conduzione del Movimento Psicoanalitico anche se diffidava del suo cercar di mediare sull’analisi cosiddetta laica[10]. Di Eitingon, come persona, la nostra autrice mette in evidenza questo elemento: <<Egli si è rivelato come un conoscitore del genere umano molto più perspicace di Freud quando si trattò di valutare la mancanza di resistenza dei suoi colleghi tedeschi non ebrei e mostrò lungimiranza politica, percependo gli effetti controproducenti di un tentativo di adattamento, che implicava un inevitabile degrado dell’Istituto berlinese>> (2008, p. 840)[11].
Confidando nell’aiuto del suo Caro Max (così si rivolge a lui da un certo momento in poi nella corrispondenza) e qualche volta reclamandolo, Freud non faceva mistero dello stato d’animo che viveva in conseguenza della precarietà della sua situazione: “Ho dovuto sperimentare – dice – una povertà senza speranza e ne ho costantemente paura” (ibid., p. 843). Una condizione che in taluni momenti lo portò anche ad essere insofferente nei confronti di Eitingon quando questi dovette sperimentare grosse difficoltà sul piano economico: <<Il crollo improvviso delle fortune di Eitingon – ricostruisce ed ipotizza Grubrich-Simitis – potrebbe aver risvegliato bruscamente tracce del ricordo traumatico di questa povertà senza speranza e dell’abbandono paterno, provocando a livello preconscio sentimenti di panico arcaico che potrebbero a loro volta spiegare la reazione difensiva di Freud, mostrandosi nei suoi confronti stranamente distante>> (ibid., p. 844).
Notizie del padre e della madre, Freud le dà alla fidanzata nelle 1.500 lettere che si scambiano tra il 1882 e il 1886, scrivendosi quotidianamente, talvolta, più volte al giorno, e che sono raccolte in cinque volumi[12] di cui Grubrich-Simitis è stata co-curatrice. Ne parla in un articolo pubblicato in Psicoanalisi nel 2013 dal titolo: Germi dei concetti psicoanalitici fondamentali. Intorno al carteggio tra i due fidanzati Sigmund Freud e Martha Bernays (2013, 17,1, pp. 11-29)[13].
Senza mezzi termini Freud descrive il padre come un “incapace di guadagnarsi da vivere, che sta scivolando in uno “stato di beatitudine in cui non sente più bisogni ed è diventato insignificante” (lettera del 5 giugno 1884); la “madre […], perennemente malaticcia, “vede tutto nero e […] per di più, purtroppo, sbraita” (nella prima di due lettere di Freud datate 30 novembre 1883). I fratelli sono descritti come emaciati e deperiti.
Questo epistolario, dice Grubrich-Simitis, è <<il documento più completo giunto fino a noi sulla preistoria della psicoanalisi, antecedente persino alle lettere a Wilhelm Fliess>>. Se ne ricavano importanti informazioni su Freud e su Martha.
Di <<Freud giovane, [scopriamo] un’immagine nient’affatto ideale>> (ibid., p. 21): <<ci imbattiamo in un uomo abbattuto e oppresso dalla sfortuna, travagliato da violenti sbalzi d’umore, un uomo dal temperamento iracondo e brusco, sensibile e vulnerabile al massimo grado>> (ibid., p. 23), soggetto ad attacchi di melanconia (ibid., p. 24), di gelosia e sfiducia (ibid., p. 12). Per lui, come dichiara a Martha “avere sempre così tanto da fare è […] una sorta di anestetico” (ibid., p. 25).
Nella fidanzata, persona acuta, intelligente e colta (<<leggeva moltissimo>> – ibid., p. 19) Freud <<cerca e trova quella che lui chiama “una collaboratrice nelle cose più serie” (lettera del 2 agosto 1882), intendendo con ciò il suo lavoro scientifico>> (ibid., p. 13).
Per lei, come riporta Grubrich-Simitis, ha un’evidente ammirazione: “Scrivi in maniera così appropriata e intelligente che ho un po’ paura di te. Mi sembra che questa sia un’ennesima prova della velocità con la quale le donne stanno sorpassando gli uomini’ (lettera del 6 ottobre 1883)” (ibid., p. 22). Un esempio del valore dei loro scambi: <<Il termine [inconscio] compare […] nella sua forma di aggettivo o avverbio, inconscio, inconsciamente (unbewußt), indubbiamente usato, in questo caso, in senso prepsicoanalitico […], cosa alquanto sorprendente, nelle lettere di Martha Bernays. Martha usa il vocabolo per la prima volta il 2 luglio 1883: ‘Tu dici che anch’io ti faccio soffrire, ma se è così, questo succede inconsciamente e involontariamente. Tu scrivi parole che sai perfettamente che mi feriranno” >> (ibid., p. 18).
Lo studio degli originali dei manoscritti freudiani
Nel 1993 Grubrich-Simitis pubblica Zurück Zu Freuds Texten. Stumme Dokumente Sprechen Machen[14].
Si tratta degli esiti di un lavoro di ricerca iniziato alla metà degli anni settanta, quando si era recata a Londra e, scovandoli in grandi scatole di pelle, aveva avuto i primi contatti con i testi manoscritti di alcune opere di Freud; ricerca proseguita successivamente a Washington presso la Biblioteca del Congresso che li raccoglie (ora digitalizzati e quindi accessibili per tutti).
Nel 1997 (1997a) il libro viene tradotto in francese[15].
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[1] È da tener presente che nei testi di Freud il termine rimozione può essere riferito in modo specifico al meccanismo in senso stretto, ma può anche essere inteso in riferimento all’attività difensiva in generale.
[2] Per comodità di lettura e per renderle più facilmente identificabili, le citazioni tratte dai testi di Grubrich-Simitis sono racchiuse in virgolette basse; le altre sono riportate tra virgolette alte.
[3] Grubrich-Simitis (2006), Trauma o pulsione – Pulsione e trauma: una rivisitazione. Psicoanalisi, vol. 10, n. 1, p. 9.
[4] Grubrich-Simitis 1981, pp. 415-450; 1984, pp. 301-319.
[5] Sul ‘lamarkismo’ di Freud segnalo, ed è anche un modo per ricordare un caro amico, l’articolo di Pier Luigi Rossi pubblicato sulla Rivista di Psicoanalisi: L’interesse di Freud per Lamarck, 1984, 30(2):249-263.
[6] Non condivido l’intendere, come qui sembra, ‘verità storica’ come equivalente di realtà/verità materiale. Ritengo che Freud abbia elaborato, in modo complesso, ‘verità storica’ come concetto psicoanalitico e che, per altro, questo sia uno dei modi in cui ha cercato, proprio verso la fine della sua vita, di mettere assieme diversi tipi di ‘verità’ (materiale, soggettiva, psichica) e tempi diversi che comunque hanno efficacia nella vita degli individui (ciò che lo precede e che risale anche a generazioni lontane, ciò che sta nella sua prima infanzia e ciò che accade successivamente, le sue trasformazioni e le relazioni che ha con gli oggetti) e lo risignifica. V. Campanile, Freud dopo l’ultimo Freud, per una psicoanalisi sempre nuova. Milano, Franco Angeli, 2021.
[7] Freud S., Eitingon M. (2009). Correspondance 1906-1939. Paris, Hachette.
[8] Freud S., Bernays M. (2011). Sei mein, wie ich’s denke. Juni 1882-Juli 1883. Die Brautbriefe, vol. 1. Gerhard Fichtner, Ilse Grubrich-Simitis, Albrecht Hirschmüller (a cura di). Frankfurt am Main: Fischer Verlag.
[9] « Qu’en est-il du chauffage et de la lumière chez vous, professeur? » À propos de la parution de la correspondance entre Freud et Eitingon, (2008). Revue française de psychanalyse,72(3):827-853.
[10] A questo proposito, nel libro prima citato del 1993 è riportata un’altra delle scoperte fatte da Grubrich-Simitis: consultando i manoscritti di Freud ha rinvenuto alcuni passi che erano stati da lui espunti dalla Postfazione al saggio sull’analisi laica per consiglio proprio di Eitingon e Jones perché giudicati troppo segnati da antiamericanismo. V. Freud 1926 e Sulla storia della psicoanalisi a cura di Martin Dehli, p. 273.
[11] Purtroppo alcuni, diversamente da lui, credettero di ‘fare il bene della psicoanalisi’ andando a patti con il nazismo.
[12] Freud S., Bernays M. (2011). Sei mein, wie ich’s denke. Juni 1882-Juli 1883. Die Brautbriefe, vol. 1. Gerhard Fichtner, Ilse Grubrich-Simitis, Albrecht Hirschmüller (a cura di). Frankfurt am Main: Fischer Verlag.
[13] In Italiano abbiamo solo un volumetto edito da Boringhieri (1990) che raccoglie una piccola parte di questo epistolario riportando per altro solo le lettere di Freud e non quelle di lei.
[14] Zurück Zu Freuds Texten. Stumme Dokumente Sprechen Machen. Frankfurt am Main: S. Fischer Verlag. 1993. Pp. 399.
[15] Freud (1997a). Retour aux manuscrits: Faire parler des documents muets. Paris, PUF.
È una delle sue opere principali; ci guida non solo all’interno degli scritti, ma al modo in cui sono stati pensati, indagando le varie tappe della scrittura, l’evolvere dello stile e del modo di scrivere un dato testo o dello scrivere in generale.
Dati alla mano, sfata alcune idee, agiografiche, su come sono in realtà cresciuti i testi, non certo prodotti in modo immediato: lo studio dei fogli su cui Freud scriveva, di come aggiungeva annotazioni, segnalava l’essere arrivato alla conclusione, il passaggio a stadi successivi della scrittura (messi in evidenza da segni in blu ed in rosso), come chiudeva una versione di un lavoro e passava a quella successiva …
Lo spiega dettagliatamente in un articolo del 1999[1]: << L’opera di scrittura di Freud si svolgeva generalmente in tre fasi. Negli appunti di lavoro, nelle sue osservazioni spontanee, nelle sue idee, in qualsiasi cosa gli venisse in mente, trovava una prima fissazione informale. Le bozze costituivano la seconda fase di questa particolare dinamica creativa. Si tratta di dettagliati manoscritti preparatori, scritti con l’aiuto di parole chiave, che, come i raggi X, riproducono già fedelmente lo scheletro dei pensieri. Nella terza e ultima fase, Freud completava il corpus linguistico e con la stesura della bella copia procedeva con cura alla sua elaborazione letteraria>> (1999, p. 669).
Riferisco questo perché è il retroterra del lavoro di ricerca, di indagine in alcuni casi, condotto da Grubrich-Simitis. Se solo di questo si trattasse sarebbe semplicemente, il suo, un lavoro filologico, come disse Barale nel recensire il volume per la Rivista di Psicoanalisi subito dopo la pubblicazione in tedesco (1993)[2]. “Per chi ama l’acribìa filologica (e conosce il tedesco) ecco questa ultima fatica di Ilse Grubrich-Simitis. È noto come la filologia non susciti di solito molto entusiasmo tra i colleghi, associata com’è, in genere, a mediocri analità, biblioteche polverose, piccoli sadismi e puntigliosi piaceri accademici… Eppure questo è un libro che speriamo veder presto tradotto in italiano […] la Grubrich-Simitis, che lavora direttamente sui manoscritti freudiani (di cui dà ampia illustrazione) ci richiama, in maniera un po’ teutonica, ai limiti dell’interpretazione e ai diritti del testo originale. Lasciando ovviamente impregiudicati tutti i problemi teorici del dopo Freud e dell’uso di Freud che ciascuno, per conto suo, decide di fare, a partire oppure no dai molti fili e dalle diverse possibilità del suo discorso” (1993, p. 356).
Questo è il suo intento: mettersi al servizio del testo, con pazienza, studiando <<le condizioni e le abitudini di scrittura, il gioco delle varianti, gli stadi del processo creativo allo scopo di far parlare i documenti stessi e il pensiero di Freud possa manifestarsi con nuovo vigore nel concreto, nella miriade di dettagli dei manoscritti>> (1997a, p. 7). Un intento che, come vedremo successivamente affrontando un’ulteriore sua importante opera su primo e ultimo Freud, nasce dalla consapevolezza di una necessità: riportare l’attenzione degli psicoanalisti sul testo freudiano ormai troppo poco studiato.
Il piano dell’opera sul ‘ritorno ai manoscritti’ è complesso e riunisce la storia delle edizioni, una rassegna dei manoscritti nelle loro fasi e varianti ed una traccia per una possibile futura edizione critica delle opere freudiane.
Riferire qui dell’insieme di questo lavoro risulta impossibile prendendo esso spessore nello studio dei dettagli, ma desidero mettere in evidenza una ulteriore scoperta di Grubrich-Simitis che ritengo di rilievo per la conoscenza dell’opera di Freud intrecciandola con la consapevolezza del travaglio affrontato dall’autore.
Nel corso delle sue ricerche Grubrich-Simitis scopre che, sempre alla Biblioteca del Congresso, sono conservate due versioni di Al di là del principio di piacere. Una delle due è rilegata con, sulla copertina, nome dell’autore e titolo scritti in caratteri dorati: <<Si tratta chiaramente del manoscritto che Freud aveva regalato ad Eitingon e che quest’ultimo aveva fatto rilegare>> (1997a, p. 229). La scoperta riguarda le differenze tra le due versioni con la comparsa di un capitolo che Freud, ultimata l’opera, aggiunge rispetto alla versione anticipata ad Eitingon. Si tratta dell’attuale sesto capitolo che trasforma il precedente sesto in settimo, l’attuale capitolo conclusivo. Cioè: Freud scrive all’inizio sei capitoli, terminata l’opera ne aggiunge un ulteriore (l’attuale sesto) e, per preparare il lettore a ciò che troverà nel capitolo che si accinge a leggere, aggiunge al quinto un’ampia parte finale. Le aggiunte si susseguono poi ulteriormente nel corso del tempo, come documentano le edizioni che seguono alla prima fino al 1925.
Sono, quelle aggiunte, le parti di Al di là che affrontano in modo conclusivo la formulazione del nuovo dualismo pulsionale. La lettura ‘bifasica’ del testo (prima senza e poi con le aggiunte) è molto istruttiva per addentrarsi nel processo di elaborazione che ha portato Freud a formulare quelle novità che, anni dopo ne Il disagio della civiltà (1929), arriverà a definire “nel campo teorico incomparabilmente più utili di qualsiasi altra possibile concezione” (Freud, 1929, 606).
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[1] Freud et ses notes de travail, Revue française de psychanalyse, 1999, 63(2):667-677.
[2] Zurück zu Freuds Texten. Stumme Dokumente sprechen machen S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main, 399 pagine. Rivista di Psicoanalisi, 39(2):356-356.
Certo, dice Grubrich-Simitis, <<la descrizione di un nuovo dualismo pulsionale o piuttosto l’indicazione di tendenze pulsionali miranti ad un ritorno allo stato inorganico di assenza di vita, come pure l’inclusione della dimensione biologica sono già abbozzate nelle parti precedenti dell’opera, nel quarto e soprattutto nel quinto capitolo, nelle parti di testo quindi che già si trovano nella prima versione scritta a mano che risale a prima della morte di Sofia>> (1997, 236); la figlia deceduta agli inizi del 1920 e la cui morte insieme a quella dell’amico Anton von Freund per molti hanno spinto Freud ad una visione ‘pessimistica’. In ogni caso – aggiunge Grubrich-Simitis – <<la precisione apportata al concetto di pulsione di morte non può essere considerata indipendente rispetto alle perdite subite” (ibid.). La prima bozza va quindi considerata come una prima versione giudicata insufficiente dall’autore (ibid., p. 238). <<E’ lecito supporre che la redazione di questa parte centrale del testo vada collocata tra il mese di maggio e la fine dell’estate 1920 […] In ogni caso, furono certamente queste ventisette importanti pagine che Freud nella lettera che inviò a Ferenczi il 17 giugno 1920 definì ‘prolungamenti rimarcabili’ che avevano visto la luce>> (ibid.).
Sappiamo che per Freud le novità introdotte in Al di là hanno comportato l’aver dovuto affrontare un cammino interiore faticoso. Ne Il disagio ne dà conto: “Da principio avevo sostenuto solo a titolo sperimentale le concezioni testé illustrate, ma col passare del tempo esse hanno acquistato sopra di me un tale potere che non posso pensare più diversamente […] Ammesso che nel sadismo e nel masochismo abbiamo sempre avuto sott’occhio manifestazioni della pulsione distruttiva rivolta verso l’esterno e verso l’interno, strettamente frammischiate all’erotismo, non riesco proprio a capire come abbiamo potuto trascurare la presenza ubiquitaria dell’impulso aggressivo e distruttivo non erotico, omettendo di assegnargli il posto che gli spetta nell’interpretazione della vita” (1929, p. 606); giacché, aggiunge, “la smania distruttiva diretta verso l’interno, quando non è tinta d’erotismo, generalmente elude la nostra percezione” (1929, pp. 606-7), ed ammette: “ricordo come io stesso rifuggii all’idea di una pulsione distruttiva quando emerse per la prima volta nella letteratura psicoanalitica e quanto tempo mi ci volle prima che fossi disposto ad ammetterla” (1929, p. 607).
Un travaglio che l’autrice ritiene che Freud abbia espresso ad Eitingon[1] una volta conclusa la stesura del saggio: Freud, dice Grubrich-Simitis riferendo quanto ricavato dall’epistolario Freud-Eitingon, <<credeva che Al di là del principio di piacere potesse rappresentare un attacco distruttivo e autodistruttivo al suo stesso lavoro>>[2]. Per parte sua, aggiunge, <<Eitingon lo rassicurò dicendogli che riconosceva nella “tensione risolutamente tragica” di questo testo piuttosto una nuova dinamizzazione di concetti fondamentali divenuti troppo statici>> (2008, p. 831)[3].
Condivido in generale l’impressione dell’autrice rispetto ai possibili vissuti di Freud che, come sappiamo, ha sempre temuto che qualcosa o qualcuno (in questo caso questo qualcuno sarebbe lui stesso!) potesse mettere a rischio il futuro della sua creatura: la psicoanalisi custodita dal movimento psicoanalitico.
L’autrice fa questa sintesi, anche se la lettura del testo dell’epistolario richiede di mettere assieme qualche altro elemento che, seppur non contraddicendo il suo punto di vista, da una parte aggiunge elementi di riflessione ma, soprattutto, indica dall’altra la necessità di approfondire le conoscenze di un momento complicato, fondativo o rifondativo della psicoanalisi.
La lettera in questione, quella del 13 dicembre 1920, si apre con un’ampia parte di notizie e di convenevoli; poi Freud arriva al punto: “Sono pronto a ricevere vostre comunicazioni su Al di là e su Psicologia delle masse. Forse Merano creerà le condizioni di calma perché il lavoro diventi riposo. Per il resto germogliano in me cose di ogni genere, ma portano il sigillo del tempo, sono critiche e distruttive nei confronti del mio lavoro personale, restano solo i primi approcci. Non dimentichiamo nemmeno il ruolo dell’età nell’eziologia. Quindi, per favore, non se la prenda se non tiro su il morale con questa lettera. Rinunciare a un po’ di buon umore è affare del fratello minore. Ma come è possibile che la libido dell’uomo anziano sia stata consumata al punto che forze distruttive possano agire incontrollate contro il compimento della missione di una vita? Oppure semplicemente non viene più rifornito, è un problema di produzione?” (Freud-Eitingon, 2009, p. 239). Come Freud vivesse gli avanzamenti dell’età e della sua opera, vedendone da un lato la fine imminente, dall’altro dubitando di ciò che avrebbe potuto ancora produrre, ci è noto soprattutto dall’insieme dei suoi epistolari. Questi sono gli anni della svolta degli anni venti. Ai due saggi nominati da Freud – il primo del 1920 ed il secondo del 1921 – sta per seguire – nel 1922 – l’Io e l’Es. E’ probabile, ed è questo che mi pare utile non perdere di vista, che l’intero movimento in corso che lo stava portando agli sviluppi a noi noti, ma per lui in costruzione, del suo pensiero costituisse fonte di grande inquietudine. In questo contesto si collocano, dal mio punto di vista, i dubbi su Al di là. Eitingon ben coglie che questo testo costituisce il problema principale e gli risponde forse anche tenendo conto di altre comunicazioni avvenute tra loro in occasione dei loro incontri[4]: “Riguardo ad Al di là, son costretto a pensarci in permanenza, assieme a qualche frase della vostra ultima lettera. C’è senza dubbio qualcosa che voi distruggete e questo sempre di più, nei vostri ultimi lavori, ve l’ho probabilmente già detto. Più di uno dei vostri sostenitori si mostra tranquillo. Il sistema che definiva le dinamiche della psiche e che sembrava così saldo di per sé, ora diventa dinamico, più fluido nei concetti che ne costituiscono i pilastri e la base. Ma veniamo ad Al di là: la nuova prospettiva delle pulsioni di vita e di morte è certamente giusta ed utile per le conoscenze che desideriamo acquisire” (Freud-Eitingon, 2009, p. 244)[5].
Tempo dopo Freud aggiungeva, nel contesto dei commenti sul recente Congresso: “Il sentimento d’essere colpevole per Al di là del principio di piacere mi ha perseguitato in modo spiacevole a causa di più di un contributo”[6].
Non è questo il contesto, ma va ricordato come egli abbia fatto affidamento sui commenti di Ferenczi e di Lou Salomé per, direi, fare il punto e, potremmo addirittura dire, chiarire meglio a se stesso la portata e il valore dell’innovazione che, come stiamo vedendo, temeva fosse ‘pericolosa’. È un ‘pezzo di storia’ che merita un approfondimento.
Primo ed ultimo Freud: Early Freud and Late Freud. Reading anew Studies on Hysteria and Moses and Monotheism
In un saggio,[7] in cui, integrandoli con un’ampia introduzione, riunisce due precedenti lavori scritti in anni successivi[8], Grubrich-Simitis torna sugli argomenti che abbiamo visto averla appassionata da sempre, ma in questo caso troviamo anche l’esplicitazione del suo ‘progetto’ di studio e la sollecitazione che indirizza a tutti noi. Così scrive: <<Gli ultimi anni hanno visto attacchi sempre più virulenti alla psicoanalisi, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in alcuni paesi europei. L’obiettivo principale di questi assalti è la figura di Sigmund Freud. Questo stato di cose richiede una spiegazione. Da un lato, sembra esserci un bisogno diffuso e incontrollabilmente potente di sbarazzarsi una volta per tutte degli insight sgradevoli e inquietanti su noi stessi che Freud e la psicoanalisi ci hanno imposto. D’altra parte, l’ubiquità e l’ostinata persistenza degli attacchi devono sicuramente essere considerate come un segno della vitalità ancora ininterrotta del pensiero freudiano>> (1997c)[9].
Troviamo di seguito, tra le spiegazioni che ci sottopone, una considerazione che ci riporta ad uno dei temi che, come abbiamo visto, l’hanno sempre appassionata: <<Una ragione per cui gli anti-freudiani hanno un facile seguito è sicuramente che i testi di Freud stanno diventando sempre più sconosciuti. […] Ad esempio, dando una lettura dei testi del fondatore della psicoanalisi, nessuno potrebbe prendere sul serio l’affermazione che, dopo aver corretto la sua teoria iniziale della seduzione, egli abbia completamente ignorato i fattori traumatici nella sua concezione della genesi della nevrosi e si sia concentrato esclusivamente sul ruolo eziologico delle fantasie inconsce o degli aspetti legati alla pulsione>> (1997c). Quindi l’invito: <<Ciò che qui si propone è una rilettura radicale dei suoi scritti, in vista di riscoprirli o addirittura di scoprirli per la prima volta, perché, come tutti i grandi testi, sono inesauribili. A tal fine, si raccomanda un particolare atteggiamento di lettura, fatto di discrezione, di massima attenzione e di rispetto anche per il dettaglio apparentemente più insignificante, un’oscillazione tra prossimità e distanza che assicuri ai testi uno spazio libero sufficiente per rivelarsi in tutta la loro indipendenza>> (1997c). Quale sia stata la strada che lei ha percorso per sviluppare i suoi studi ed il metodo che ha usato, e che qui ci propone di seguire, è quanto abbiamo visto precedentemente.
Nel corso del libro ci spiega che l’essersi dedicata approfonditamente allo studio del Mosè le ha permesso in particolare di comprendere come il lavoro autoanalitico sia stato per Freud centrale ogni volta che si è trovato ad affrontare l’apertura di nuovi orizzonti.
Il testo del 1997 (1997c) di cui sto riferendo nasce nello stesso periodo dei precedenti e si fonda, ancora una volta, sugli stimoli che l’autrice ricava dallo studio dei manoscritti: <<Avevo notato che i manoscritti del Mosè mi portavano a leggere di nuovo il testo Mosè e il monoteismo. Tuttavia, è stato solo nel corso di questa lettura che mi sono resa pienamente conto di quanto questo lavoro sia atipico. Si distingue dagli altri scritti di Freud, compresi quelli più tardivi, per una struttura stranamente imperfetta. I miei sforzi per comprendere questa conformazione, così come quelle evidenti peculiarità dei manoscritti sopravvissuti, rivelarono inaspettatamente necessario un tentativo di interpretazione psicoanalitica, vale a dire l’applicazione del metodo psicoanalitico a una delle opere di Freud. Ho scoperto con mia sorpresa che, nonostante il diluvio di letteratura biografica sul fondatore della psicoanalisi, il vecchio Freud era sconosciuto quasi quanto il primissimo Freud giovanile, e che Mosè e il monoteismo possono fungere da prisma rifrangente che diffonde il raggio in arrivo in uno spettro oscuro e luminoso che illumina e collega l’inizio e la fine della vita interiore di Freud. […] E’ diventato per me sempre più chiaro fino a che punto la sua autoanalisi fosse rimasta in realtà una delle principali fonti del suo lavoro per tutta la vita>> (1997c).
Come lei stessa segnala, il suo approccio a quest’opera è decisamente diverso da quello adottato da autori come Emanuel Rice[10] o Yosef Hayim Yerushalmi[11]: <<Le loro interpretazioni del Mosè differiscono – dice – dal mio tentativo in quanto entrambi gli autori adottano il punto di vista più tradizionale di concentrarsi sul rapporto di Freud con suo padre, mentre io ho trovato più illuminante riflettere, anche se provvisoriamente, sul primo rapporto con la madre allo scopo di comprendere alcuni aspetti dei manoscritti e del testo stampato di Mosè e il monoteismo>> (1997c).
<<Avevo già sottolineato nel mio contributo su Mosè che una delle preoccupazioni di Freud era stata quella di guardare indietro esplicitamente alla sua opera, e in particolare di tornare alle sue prime riflessioni sulla genesi traumatica della malattia psichica e di intrecciarle nel contesto della sua attuale ricerca. Nel considerare i legami tra i due saggi dovremmo menzionare prima il concetto di trauma. Naturalmente, gli studi sull’isteria e su Mosè e il monoteismo rappresentano due stadi completamente diversi nello sviluppo del concetto psicoanalitico di trauma. Nel “libro primordiale della psicoanalisi”, questo concetto non ha ancora completamente abbandonato le sue origini nella medicina organica: […] Breuer e Freud attribuivano l’insorgenza della malattia nevrotica all’analoga irruzione di un evento esterno nella vita del soggetto, superando la capacità dell’apparato psichico di assimilare o abreagire in modo appropriato la quantità di stimoli in entrata e gli affetti così scatenati; i residui, a loro avviso, avevano un effetto patogeno permanente sull’intera personalità del soggetto traumatizzato sotto forma di ‘corpo estraneo’ o ‘infiltrato’. Certo, negli Studi Freud sta già lavorando verso l’idea che non è l’evento traumatico in quanto tale che, per così dire indiscriminatamente, ha conseguenze dannose, ma che la capacità del soggetto di assimilarlo è correlata al suo precedente conflitto psichico, cioè difensivo. Seguirono quarant’anni di crescita e di elaborazione della psicoanalisi […] Non stupisce quindi che il concetto di trauma che il lettore incontra in Mosè e il monoteismo sia molto più complesso. Una delle idee che Freud aveva abbandonato era quella della limitazione alle esperienze sessuali travolgenti, che aveva dominato il quadro per alcuni anni dopo la pubblicazione degli Studi. In Mosè e il monoteismo, il centro della sua attenzione si è spostato sull’ampia gamma di sottili lesioni narcisistiche – cioè quelle che hanno effetto solo per somma o cumulo – che il bambino subisce durante la fase pregenitale dello sviluppo nei suoi rapporti con i suoi oggetti primari e che hanno la conseguenza di alterazioni permanenti dell’Io per mezzo di identificazioni>> (1997c).
Per Grubrich-Simitis Freud, all’epoca della scrittura del Mosè che per altro si è protratta per quattro anni, viveva in condizioni di pericolo e di precarietà che, oltre ad essere di per sé drammatiche, riattivavano antiche angosce. Quelle di cui ho riferito nella parte iniziale di questo mio testo; ad esse andrebbero aggiunte le perdite e le carenze che hanno caratterizzato la sua prima infanzia. Freud, quando scrive e riscrive il Mosè, era alle prese con un serio pericolo di non sopravvivenza cui erano esposti lui, i suoi cari e la psicoanalisi e <<ora che la sua vita è oscurata da tali eventi, sembra che si sia preoccupato di riassegnare più peso al trauma nell’equazione eziologica, correggendo così il radicale orientamento verso l’interno della sua attenzione>> (1997c).
L’autrice propone allora di considerare il saggio su Mosè come un sogno ad occhi aperti cui Freud, identificato con Mosè, si sarebbe dedicato per far fronte alle angosce cui era esposto: la sopravvivenza della religione mosaica, il suo non soccombere alle persecuzioni, l’aver conquistato, in un tempo successivo agli eventi tragici che pure aveva dovuto affrontare, una nuova stagione … Freud, col suo sogno ad occhi aperti, trova la strada per venire a capo di una storia che lo aveva a lungo tormentato come un fantasma che non gli dava pace e che gli permetteva/imponeva di ripensare alle proprie vicende attuali ed a quelle lontane. Giunto in salvo in Inghilterra può quindi rielaborare l’intera materia, dopo due tentativi non andati a buon fine e che oggi leggiamo nelle OSF come primo e secondo saggio, può finalmente portare a compimento la stesura finale del Mosè e la religione monoteistica.
<<Lo studio di Mosè [apparirebbe quindi agli occhi dell’autrice] come un tentativo di autocura che alla fine riesce, documentando una nuova, estrema ripresa dell’autoanalisi>> (1997c).
Alcuni punti di vista espressi da Grubrich-Simitis possono apparire discutibili ed è bene siano discussi, ma per farlo, da lei ci viene chiesto di andare oltre una conoscenza sommaria, di stabilire una relazione approfondita (son tentato di dire intima) con i testi di Freud perché su questa base avremo modo di sviluppare opinioni e curiosità che sicuramente apriranno per ciascuno nuove prospettive di studio e di pensiero anche se non coincidenti con quelli che lei ha elaborato e che qui ho cercato di sintetizzare.
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[1] Lettera 191F del 13/12/20, p. 239.
[2] V. Lettera 191F del 13/12/20; Freud-Eitingon, 2009, p. 239.
[3] V. Lettera 193E del 14/1/21; Freud-Eitingon, 2009, pp. 244-5..
[4] Lettera 195E del 14 gennaio 1921.
[5] In nota il curatore dell’edizione francese dell’epistolario segnala che, come avvenne nel caso della pubblicazione de Il Mosè di Michelangelo, Freud forse aveva pensato di pubblicare Al di là in forma anonima. Aggiunge successivamente che nel 1942 M. Klein si ricordava che Eitingon aveva riferito che Freud “stava mettendo la dinamite nella casa” ed aveva aggiunto “sa quello che fa” (King e Steiner, 1991, 90 citato in Freud-Eitingon, 2009, pp. 245-6).
[6] Lettera 257 F del 6 novembre 1922, p. 308.
[7] Early Freud and Late Freud. Reading anew Studies on Hysteria and Moses and Monotheism, New Library of Psychoanalysis, Routledge, 1997.
[8] 1995, The primal book of psychoanalysis, 1997, Moses and Monotheism.
[9] Le citazioni di questo testo risentono del mio averlo letto in edizione informatica, mancano quindi i riferimenti di pagina.
[10] E. Rice, 1990.
[11] Yerushalmi Y.H., 1991.
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