Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Patrizia Paiola
(Padova), Psicoanalista Membro Ordinario con funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.
Ancora alcune precisazioni sulle parole di questo testo, ed il loro uso.
Della illusione e della disillusione è già stato detto e scritto da più parti che non sono termini propriamente psicoanalitici e che attengono piuttosto al senso comune. Seppure, come vedremo, interessino in modo assolutamente “proprio” la complessa processualità dello sviluppo umano e della cura stessa.
Per quanto riguarda la parola avvenire, vorrei mutuarla dal testo freudiano per trasferirla dal termine illusione[1] al termine disillusione, tipicamente winnicottiano (“disillusioning process”)[2], cercando di allargare il campo al fine di osservare meglio l’aspetto processuale, insieme legame reciproco che unisce illusione e disillusione, e per riconoscere la possibilità, data dall’oscillazione[3], di invertire il percorso dall’una all’altra, come nei corpi in movimento. Per cui il punto di massima illusione sarà quello in cui la necessità (o la forza) della disillusione sarà maggiormente evidente, e viceversa.
Viene così a costituirsi, a mio modo di vedere, una doppia bipolarità psichica: una bipolarità tra illusione e disillusione, e una bipolarità della proiezione temporale loro propria. Non si può infatti parlare dell’una senza parlare dell’altra, nelle diverse temporalità che le coinvolgono.
Intendo qui parlare di bipolarità in senso ampio, seguendo Sacerdoti (1984, 185) che le definisce una sorta di “ambiguità intorno a cui ruota il processo analitico”, potendo rappresentare una qualità, una specie di “attitudine antitetica richiesta alla mente di analista e analizzando”, che ne svilupperanno insieme le potenzialità. Egli ne ha segnalato l’importanza, diversi anni or sono, rispetto al tema “del continuo e discontinuo in analisi” riguardo al setting, evidenziando l’oscillazione tra i due poli.
In questo senso, la bipolarità illusione-disillusione può intendersi anche come perno del lavoro psichico, non solipsistico, che caratterizza il diventare soggetti.
Occorre però notare che, dei due poli, la “disillusione” è più spesso trascurata. Possiamo pensare che piaccia poco, o di meno, forse perché ha a che vedere con il dispiacere e la frustrazione, collegati alla realtà che, pur inaccessibile, andrà almeno “avvicinata”. Ma proprio “con l’introduzione del principio di realtà – scrive Freud (1911, 456) – si è differenziata una specie di attività del pensiero che, serbatasi libera dall’esame di realtà, è rimasta soggetta soltanto al principio di piacere”.
Il riferimento è all’attività del fantasticare, che collega al gioco dei bambini e al sogno, approdando a quella nuova specie di “cose vere” che è la produzione artistica. Per Freud, dunque, la disillusione lascia – o forse fonda – una riserva psichica attiva con caratteristiche “ancora” illusorie (abbozzo di una terza area?), che può consentirci di focalizzare difficoltà e ombre di un momento cruciale dello sviluppo umano che si ripresenterà nell’après-coup della “seconda scena” analitica, segnandone criticità e opportunità, ma soprattutto designandone l’avvenire. E, seppure tutto questo sembri indicare un momento di preziosa discontinuità rispetto all’oggetto, per i processi di riconoscimento e differenziazione che ne sono alla base, non dobbiamo scordare che inconsciamente la disillusione opera in forma continua, dal momento in cui siamo costantemente impegnati ad accettare la realtà senza rinunciare mai del tutto all’area illusoria che la fonda e la precede e, come vedremo, la rifonda. Come movimento che non si richiude in sé, ma si apre al futuro e al cambiamento.
Creare e colmare questo iato è un processo continuo che riguarda l’esperienza di esistere e sentirsi vivi, del going on being.
L’illusione come esperienza reale
Winnicott ha descritto la disillusione, collegandola strettamente all’illusione, nei termini di un passaggio evolutivo fondamentale e doloroso[4] dipendente sia dalla spinta maturativa insita nell’individuo che va differenziandosi dall’oggetto, sia dalla capacità di quest’ultimo di farsi progressivamente da parte rendendo possibili nuovi investimenti, ma soprattutto creando in questo movimento la potenzialità di abitare uno spazio “terzo”, come primo passo verso una realtà che si fa sempre più condivisibile e condivisa. Uno spazio “tra me e non me”, tra dentro e fuori, che da potenziale, si fa transizionale. Winnicott inscrive questo processo nell’ambito di un traumatismo normale o “benigno”, parlando di una disillusione che agisce nell’ambito dell’adattamento (1965, 156), considerato da questo autore tutt’altro che passivo, riserva di aspetti sorprendenti e fonte di creatività. Va da sé che il processo della disillusione non sia coincidente con lo svezzamento dal seno, pur comprendendo questa fase, che ne rappresenta la prima tappa fondamentale. Proprio da questo momento/movimento, l’illusione totalizzante e onnipotente del seno “trovato-creato” (prima illusione fondamentale) cambierà forma e sostanza, si appoggerà a nuovi oggetti “non me” vissuti come “me”: essi sono e rappresentano lo spazio, “concreto e metaforico” insieme, di una nuova dimensione psichica. Un “tra”, appunto, che crea un’area di sovrapposizione e consente un’iniziale differenziazione. Da questo momento, anche il tempo comincerà ad essere percepito come un “infinito” che mette in attesa il “tempo finito”, senza negarlo. Anzi, per poterlo accettare. I bisogni primari (fame e sonno) diventano secondari nel playing del bambino, e quindi sono procrastinati: ora per il bambino è primario creare il mondo giocando e appoggiandosi ad oggetti appartenenti alla realtà, ma anche alla fantasia. Ora illusione e disillusione prendono la forma dell’entrare nel gioco e prenderne parte (in-ludere) e dell’uscita dal gioco (de-ludere), transitoriamente senza perdere la potenzialità di giocare, come l’etimologia lascia intendere.[5] Ma, a questo proposito dobbiamo tollerare diversi paradossi, dice ancora Winnicott.
La cosa importante sarà non chiedersi mai se ciò che si sta vivendo sia vero o falso, o a chi appartenga il gioco. Ciò che risulta fondamentale è la disponibilità a rimanere nell’area illusoria di questa esperienza che è un’esperienza reale. Nel senso che essa appartiene pienamente sia alla realtà esterna che alla realtà interna, creando uno spazio condiviso tra le due. Su questa scia, J.-B. Pontalis in un suo articolo intitolato L’illusione mantenuta (1971) afferma che nella sua funzione “positiva” l’illusione appartiene al “campo costitutivo dell’esperienza” (3). Ma, perché il bambino torni più e più volte a giocare non dovrà rimanere troppo precocemente o troppo bruscamente deluso nei passaggi tra dentro e fuori; dovrà invece essere progressivamente accompagnato a viverli. Potrà così essere “disilluso” rinunciando all’onnipotenza iniziale, ma non alla capacità illusoria o al playing, che può ritornare dopo essere rimasto in sospeso, ma sempre “disponibile”, nello spazio potenziale.
La matrice passionale dell’illusione
Per meglio intendere questa delicata questione è necessario soffermarci ancora un momento sul significato di illusione, che per Winnicott è illusione creatrice, nel senso che essa è in stretto rapporto con la realtà trovata-creata dal bambino: nel primo periodo di vita, infatti, la madre fa sì che il seno “si trovi” proprio dove l’immaginazione del bambino “lo crea”.
“M’illumino d’immenso” (“Mattina”, Ungaretti, 1917)
L’esigenza di un’illusione possibile
Ancora guerra. Prima guerra mondiale, la trincea, i morti del Carso, il buio… E, come non essere sbalorditi, catturati, rivitalizzati da questa “illusione luminosa”, dal momento infinito ed estatico di questa “Mattina” vissuta al fronte (un fronte tra vita e morte), tramandataci dal poeta?
La bellezza nella poesia e nell’arte, dice il filosofo Severino (2011), è la potenza da cui si guarda all’impotenza delle cose. Per poterla sostenere, aggiungo. Essa è la potente illusione che ci tiene in vita, ed è dunque necessaria: come per il bebè il primo holding, dato dallo sguardo della madre e dalle sue braccia che sostengono, dove hanno luogo sintonizzazioni sinestesiche (e “transmodali”) delle diverse sensorialità rispecchianti il bambino stesso e il suo sentire che, in questo modo, diviene per un momento unificato/integrato da una forza/azione esterna (quella del Nebenmensch, o della madre normalmente devota), non percepita come tale, ma rispondente al suo bisogno. Voglio richiamare qui i concetti affini di “oggetto estetico” di Meltzer (1985), di “condivisione estetica” di Bradley (2009); ma anche, sul versante negativo, quello di “avvilimento estetico” di Bollas (2009), tipico di alcune depressioni, dove si verifica “una sorta di irrimediabile discrasia tra il Sé e l’oggetto” (117) che può determinare in taluni casi una specie di “avvilimento à deux”.
Approfondendo il nostro argomento, troviamo che il valore della bellezza, e l’illusione di farne parte per un momento che essa genera in noi (per ciò che noi stessi rispecchiamo sentendoci rispecchiati), non è diminuito ma al contrario è accresciuto dalla sua caducità e dalla perdita. Così Freud sente il bisogno di scrivere nel 1915 al “giovane poeta” con cui fece una passeggiata l’anno precedente in una “rigogliosa contrada estiva”, insieme a “un amico taciturno”[6].
Siamo all’inizio della Prima guerra mondiale. Ciò nonostante, la lezione di Freud, dopo un momento di esitazione (un’oscillazione, attraverso cui comprende la posizione negativa), si fa quantomai pregnante e “positiva”, portando la disillusione all’interno del necessario rinnovamento e della indispensabile ricostruzione che sappiamo connotare anche il lavoro del lutto, misteriosamente doloroso. Mi pare tuttavia rilevante notare come, in questo scritto, il “polo oggettuale” di tale processo emerga prepotentemente e con intensa vitalità, in contrapposizione con quello “narcisistico” della ferita irreparabile – data dalla delusione – per la pretesa immutabilità dell’(Io) ideale, che svilisce ogni cosa caduca, lasciando anche il soggetto nell’avvilimento più totale. Per Freud, invece, “Se vi è un fiore che fiorisca soltanto in un’unica notte, non per questo la sua fioritura ci apparirà meno splendida…”. Non così, aggiunge, quando sussiste un “forte motivo affettivo” che “turba il giudizio” (come forse sta avvenendo per il suo interlocutore), “una sorta di ribellione d’animo contro il lutto” che va a sminuire “il godimento del bello”. Sembra aprirsi, a questo punto, un importante capitolo – tutto da esplorare – riguardante i meccanismi psichici di collegamento tra disillusione (riuscita, o non) e lutto (riuscito, o non), ed il loro itersecarsi.
Sarà proprio grazie alla “trasformazione del nostro rapporto con la realtà”, la cui rappresentazione a causa di questi processi (disillusione/lutto) è mutata, che possiamo riconoscere alla disillusione il valore di “prova di realtà” (D. Bourdin, 2023, 84)
Il grande compito della disillusione può essere allora rappresentato dal riconoscimento della caducità, e dal potenziale rinnovamento che ne deriva. Come quando si diviene parte della potenza luminosa della Mattina (di Ungaretti) per affrontare, rimanendo vivi, l’impotenza mortale e buia di un giorno di guerra, o di dolore, mantenendo al contempo vivi gli ideali di una civiltà, di una vita e dell’Io, che sembravano definitivamente frantumarsi.
Ancora illusione e disillusione collegate sia nel presente, sia nel divenire, e l’oscillazione tra queste polarità fondamentali, per poter avvicinare, riconoscere, sostenere la realtà. E trasformarla. Ma, seppure il processo di disillusione possa essere apparentato al lavoro del lutto, come questi richiami lasciano evidentemente intendere, non dobbiamo sovrapporlo totalmente ad esso. Infatti, la disillusione rappresenta piuttosto un “compito”: Winnicott parla di “task” o di “process” (che nella sua visione evolutiva coinvolge entrambi i genitori). Un processo di separazione/riconoscimento che si effettua dunque in presenza e con l’aiuto dell’oggetto, e non in sua assenza o per la sua perdita.
In questo caso il compito è propriamente quello di accettare che l’oggetto “appartenga alla realtà” (e dunque sia diverso dall’oggetto-soggettivo precedente), uno dei compiti della crescita che necessitano di sostegno, dove l’holding[7] cambia forma, divenendo parte di una spinta a creare che tiene insieme principio di piacere e principio di realtà. Per questo alcuni autori come M. Girard (2023), sottolineando questi aspetti, e sulla scia di Winnicott, hanno ricondotto la disillusione alle radici stesse del lavoro della cultura.
Avvicinandomi alla conclusione, vorrei ricollegarmi alla poesia citata, per lasciare aperta l’esplorazione di questa bipolarità alla luce del concetto di poetico, così come è stato affrontato in letteratura psicoanalitica a partire da Winnicott, Green, Balsamo e altri, come “recupero della disponibilità intrinseca della psiche umana alla trasformazione di vicende traumatiche bloccanti in investimenti mobili e fluidi, immaginativi” (Balsamo, 2014, corsivo mio). Come sappiamo, Green (1991) ha parlato di “funzione poetica” e “poietica” del linguaggio in psicoanalisi che va naturalmente oltre la poesia in sé, e ha la funzione di “legare il senso ai sensi”; Balsamo di “campo del poetico”, come disponibilità associativa della psiche (attraverso l’attività di slegame/legame), che in taluni casi – borderline e psicosi – si trova in stato di sofferenza (2014); Winnicott ne ha fatto un concetto consustanziale al suo corpus teorico e al suo linguaggio. Egli si è servito della poesia e dei poeti per descrivere alcuni suoi concetti importanti, ben sapendo che in campo scientifico si deve conquistare con fatica ciò che i poeti “hanno già detto” prima e meglio di noi. Ricordo che, alla fine della sua vita (come riportato da A. Phillips nella sua biografia, 1988), Winnicott ha sentito il bisogno di scrivere egli stesso un componimento, L’Albero, che indirizzò al cognato, per elaborare la sua “spina” dolorosa più antica: la depressione materna. Una sorta di “ultimo tempo” della sua autoanalisi, mediata dal linguaggio poetico.
La parola, in analisi così come nella poesia, sappiamo infatti che andrà intesa anche diversamente da quello che il suo campo semantico abitualmente suggerisce, per potersi aprire a ciò che ancora non è pensato. Una parola varco, indirizzata al futuro, e al contempo primigenia, ecolalica, balbettante, in contatto con tracce sensoriali/affettive profonde in cerca di rappresentazione[8]. Epifanica, in quanto portatrice di un senso che si rivela[9]. Il ricorso alla celebre poesia di Ungaretti può diventare allora un esempio perspicuo. Ma possiamo anche ricorrere ai numerosi casi clinici in cui constatiamo come in mancanza di adeguata illusione e adeguata disillusione, non c’è realtà accettabile, non c’è parola pronunciabile. La realtà in queste situazioni diviene traumatica, indicibile, paralizzante[10]. Si ricorrerà allora al diniego come difesa (estrema, e talvolta patologica) da una realtà macigno, o si rimarrà intrappolati nella “lucidità del melanconico” che non può permettersi illusioni se non quelle sempre identiche e negative riguardanti il suo Io, sovrastato dall’ombra dell’oggetto.
In fondo, dobbiamo riconoscere come tutto l’edificio teorico, clinico e di cura della psicoanalisi dia continuamente valore ai delicati processi di illusione e disillusione, a partire dal “costituirsi” e dal “risolversi” dell’illusione del transfert (che sappiamo non essere mai totali). La cura ci appare allora come un continuo dispiegarsi e affrontarsi delle questioni che riguardano le illusioni e disillusioni che da un passato, che non riesce a divenire tale, necessariamente si ripresentano nell’hic et nunc della seduta, riproponendosi in après-coup, come trauma attuale.
E se la psicoanalisi può sembrare in sé stessa un’illusione, perché non considerarla a maggior ragione un percorso che, dalla seduzione e dipendenza illusoria (e reciproca?), conduce alla disillusione e alla sua necessità attraverso quanto di inelaborato la storia del paziente porta con sé? Questo “avvenire” non è forse il compito a cui si deve tendere, favorendo infine quell’atto di passaggio (Flournoy) fondamentale, la conclusione della cura, che prevede la “rinuncia” agli aspetti illusori onnipotenti e permette nuovi investimenti, nuovi legami nella “realtà”, ritrovando così “lo spirito del gioco” (Kristeva[11])?
Green (2011) in uno dei suoi ultimi testi, soffermandosi sulle disillusioni più gravi che a volte incontriamo trattando pazienti difficili, che ripetono le stesse sterili configurazioni, in modo continuo e apparentemente senza scampo, si chiede cosa ci impedisca in tali situazioni di rassegnarci e gettare la spugna, se non il “ritrovare [nonostante tutto] alcuni segni discreti [nel senso del discontinuo] che ci permettono di conservare ancora la speranza” (107). E così – direi io – di riaprire il campo a illusioni non più impossibili, ma finalmente possibili che riguardano l’analizzando, ma anche l’analista.
Si tratta di illusioni cicatrici, che “dicono” la disillusione a volte troppo bruscamente subita (come avviene nel “crollo”), conservando il segno di ciò che non è andato come sarebbe dovuto andare e del conseguente tentativo di riparazione/costruzione, spesso solo parziale, ma sempre prezioso o addirittura più prezioso dell’originaria (illusoria) integrità iniziale. Così come avviene nell’antica arte giapponese del Kintsugi (negli ultimi tempi spesso rivisitata) in cui le fratture degli oggetti sono ricomposte con una mistura di lacca e polvere d’oro. Oro prezioso e umile lacca che, nel loro insieme, ben rappresentano il lavoro della disillusione che rende realizzabile e perciò anche “reale” la (ri-)costruzione, e di conseguenza una nuova illusione, questa volta “possibile”. E chissà che la speranza non abbia (anche) il senso di un “avvenire realizzabile” per quelle illusioni possibili di cui ciascuno di noi è portatore.
Si tratta, dunque, ancora una volta di illusioni creatrici che, riparando le ferite, assumono il compito di mediare e di (ri-)generare il Sé insieme alla realtà, trasformandola. Così come la spinta ad esistere (Ambrosiano, Gaburri) e a sentirci vivi (Winnicott) continuamente da noi esige.
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[1] S. Freud ha usato questo termine nel suo saggio del 1927, L’avvenire di un’illusione, parlando di illusione come figura del desiderio che comporterà la ferita (narcisistica) del riconoscimento di ciò che è illusorio e ingannevole.
[2] Da notare che il termine disillusione non è specifico della lingua inglese, ma esiste disillusionment (dal verbo).
[3] Il termine oscillazione deriva dal greco e significa “essere incerti”, “dibattersi tra qualcosa e qualcos’altro” (tale concetto si trova utilizzato nel V libro della Repubblica di Platone e individua una caratteristica dell’essere).
[4] Nel 1947 Winnicott, citando il poeta William Wordsworth, dice: “The shade of the prison house seems to me to be the poet’s description of the disinllusioning process, and its essential painfulness”, (cit. in M. Girard, 2023).
[5] Desidero richiamare a questo riguardo il lavoro presentato da P. Fabozzi (2022) alla Giornata di Inaugurazione del Training SPI dal titolo “Saremmo davvero poveri se fossimo solo sani. Abitare l’isola che non c’è”.
[6] L’identità dei due compagni non è precisata, ma – come si sa – potrebbe verosimilmente trattarsi di Rainer Maria Rilke e Lou Andreas-Salomé.
[7] Possiamo pensare ad esempio all’holding-supporto fornito da ciò che è “materico”, tanto nel gioco del bambino che nella produzione artistica, ma anche da ciò che materico non è, come l’ispirazione: una forma estesa di quella che Marion Milner ha definito dipendenza creativa dall’attività di risposta che ha origine nei primi anni di vita (1990, 126), e poi ci accompagna nella solitudine, evocando una “nuova presenza antica” (tra il dentro e il fuori), che sostiene il nostro incedere nella “realtà”.
[8] Valery a proposito della sua scrittura parla di “avanzi di futuro, esseri furtivi, che innescano percorsi imprevisti” (cit. in Balsamo, 2014).
[9] Si tratta forse di quel senso “in giacenza” di cui parla Green: “la cui riscoperta è più del segno della scoperta… Un senso potenziale al quale manca soltanto l’esperienza analitica – o poetica? – per diventare un senso veridico.” (1980, 303)
[10] Laddove questa dimensione poetica/poietica sia in stato di sofferenza, come nei casi limite o nelle psicosi, la parola perderà la sua “vitale eterogeneità, insieme alla potenzialità illusoria, ed allo stesso tempo necessaria, di legare il senso ai sensi” (Green, 1991. Corsivo mio).
[11] “L’analista mette in gioco, nel transfert, la dissoluzione del sapere che il paziente ha presupposto in lui … L’analisi conduce alla detronizzazione della funzione dell’analista … Taluni tragicamente si fermano qui, ma la fine vera e propria, supposto che il processo abbia fine, e quella in cui, dopo un certo disinganno, torna lo spirito del gioco … La gravità si fa leggerezza che conserva il ricordo della propria sofferenza e prosegue la ricerca della propria verità, nella gioia di riprendere sempre il lavoro da capo” (Kristeva, 1987, 63, corsivo mio).
Bibliografia
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Brandley B.S. (2009). “Early trios: patterns of sound and movement in the genesis of meaning between infants”, in Malloch S. e Trevarthen C. (a cura di), Communicative musicality. Oxford, Oxford University Press.
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