Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Anna Trevisan
Titolo: “Il signore delle formiche”
Dati sul film: regia di Gianni Amelio, Italia, 2022, 134′
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=T3cHUdaCCo0&ab_channel=01Distribution
Genere: drammatico, storico
Per chi, come me, ha vissuto da studentessa universitaria gli anni del ’68, il film di Gianni Amelio “Il signore delle formiche”, presentato con successo di critica e pubblico
alla 79 Mostra d’Arte Cinematografica, è anche un ritorno al passato e alle esperienze sociali, con toni rivoluzionari, che si vissero allora. La storia è infatti ambientata in un lasso di tempo che va dal 1965 al 1970; sullo sfondo si coglie il desiderio e la forte spinta dei giovani adulti di allora di vivere in modo nuovo, sia l’esperienza dell’amicizia e della solidarietà che quella del rapporto con i cosiddetti Maestri.
La figura del professor Aldo Braibanti, splendidamente interpretato da Luigi Lo Cascio, è quella di un uomo di grande cultura ed estese conoscenze in vari campi del sapere che offriva ai suoi ragazzi, che si incontravano con lui nella campagna della provincia piacentina, nella cosiddetta “Torre”, un pensiero alternativo, un pensiero altro dalle nozioni codificate che normalmente si apprendono durante le scuole secondarie, nel percorso curricolare stabilito dai programmi ministeriali.
Braibanti insegnava a pensare attraverso il dubbio, offriva alternative rispetto a sicurezze conoscitive imposte e mi ha ricordato Galileo Galilei, che osò mettere in dubbio le certezze conoscitive aristoteliche.
Braibanti era un Maestro, con una personalità magnetica e affascinante, per chi era alla ricerca di sé stesso e del suo futuro, un uomo che catturava e seduceva, perché offriva all’altro la sua capacità di mostrare e agire la libertà di pensiero. Appariva come una persona che era riuscita a fare ed essere ciò che voleva della sua vita: un intellettuale a tutto tondo che faceva del sapere la sua ragione di vita.
Apparteneva a una famiglia libertaria e uscita dalla rigidità delle regole ecclesiastiche che, allora, potevano essere molto rigide. In effetti, nella trama filmica è in mostra la pochezza di un’Italia omofoba e bigotta; dietro il “reato di plagio” di cui viene accusato Braibanti, vi è stato chiaramente un attacco alla sua omosessualità, ritenuta da “processare” e da “condannare”.
Guardando il film si può pensare che in cinquant’anni, fortunatamente, è cambiato totalmente il mondo relazionale e sociale anche di fronte all’espressione dell’affettività e della sessualità.
Il professore si è difeso, in sede processuale, con il silenzio, come se esprimersi a parole per discolparsi dall’aver irretito e deviato un giovane allievo — questa è l’accusa — peraltro maggiorenne, e sempre dichiaratosi consenziente, non avesse alcun senso: ha assistito al dibattimento dal suo posto di imputato come se fosse inutile discutere con chi non ha orecchie per sentire; qualunque tipo di difesa sarebbe stata vuota e vana.
Mi è venuto in mente il verso di Dante: “Non ti curar di lor ma guarda e passa”. Non bisogna preoccuparsi delle calunnie e della malignità altrui; la dignità si difende anche, a volte soprattutto, con il silenzio e la distanza da un certo eloquio pruriginoso e velato di sadismo dei giudicanti.
La tragedia di Aldo Braibanti è una verità storica che, fortunatamente, negli anni seguenti è stata riconosciuta come tale e depennata dal Codice Penale: il suo è stato l’unico caso di processo penale per “reato di plagio”.
Se questo è il tema più forte evidenziato dal regista, credo che vada colto, in tutta la sua interezza, anche il sentimento di amore omosessuale tra i due protagonisti dell’opera.
Un amore vero, fatto di affetto profondo, rispetto reciproco, bisogni complementari, orizzonti comuni di vita, una dedizione forte e delicata insieme: troppo per i benpensanti di quegli anni!
E dispiace sapere dell’uso dell’elettroshock cui ripetutamente fu sottoposto il giovane amante del professore, interpretato con finezza da Leonardo Maltese, per “guarirlo e correggerlo” e costringerlo a rientrare nella vita dei cosiddetti “normali”.
Si prova un senso di dolore profondo e ribellione vera ad assistere a quelle scene di tortura! Nessun rispetto per il malato o presunto tale, per la sua giovane età, per le conseguenze devastanti di queste cure tremende. Il dominio di una cura aggressiva e inutile: perché non si possono né si devono distruggere gli affetti con l’induzione di convulsioni nel paziente, o la somministrazione di farmaci.
Ma potrebbero essere tanti altri gli spunti di riflessione offerti dalla potenza e dalla pienezza artistica di questo film.
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