Testimonianze

IL RICORDO E LA TESTIMONIANZA

Intervista realizzata all’interno dell’iniziativa “PER LA GIORNATA DEL RICORDO. INCONTRO CON GIORGIO GORLATO”.
Evento organizzato dall’Università della Terza Età del Portogruarese in occasione del 10 Febbraio 2022, 18a Giornata del Ricordo.

di Patrizia Montagner e Alessio Alessandrini

Foiba della Grotta di Plutone
Il Ricordo e la Testimonianza di Patrizia Montagner e Alessio Alessandrini

Introduzione

Il racconto del nostro ospite ci mostra come un evento traumatico così enorme come quello da lui subito eserciti una attrazione enorme per la psiche, che è impegnata a non farsi travolgere da esso. C’è un bambino che fa i conti per anni con un qualcosa di terribile ma sconosciuto e questo inizialmente supporta il suo tentativo mantenere l’illusione del ritorno del padre. Il riconoscimento della realtà avviene lentamente ed è un’operazione difficile, dolorosa. Ma è il primo passo, necessario, per poter avvicinare emotivamente il fatto avvenuto. Il bambino si sente colpevole, forse doveva fare di più per fermare il padre. Quando una perdita è così fondamentale e improvvisa, il ricorso alla fantasia che si sarebbe potuto, dovuto, evitare, si fa strada. Per la psiche pare più tollerabile sopportare un enorme senso di colpa piuttosto che riconoscere l’esistenza di qualcosa di così impensabile al di fuori del suo potere.

Nella famiglia si diffonde un dolore costante, che il tentativo della madre di coprire “chiudendo la saracinesca” non aiuta ad affrontare. Dopo 9 anni finalmente lo Stato riconosce il padre come deceduto: il contesto sociale inizia a condividere una responsabilità ed offre finalmente almeno il dovuto supporto economico. Forse un primo piccolo passo verso la riparazione?

La nuova condizione di profughi è un’ulteriore trauma, stavolta lento e continuo: non sono riconosciuti come persone che hanno bisogno di una esperienza umana di accoglienza e sostegno, che hanno patito perdite incommensurabili, ma soltanto cittadini di serie B.

Così non è possibile dimenticare. L’istituzione del Giorno del Ricordo diventa un primo spazio in cui si può pensare di raccontare e di aver diritto ad un ascolto. Da allora Gorlato parla, agli studenti, ai cittadini che lo vogliono conoscere, all’UTE, a noi. IL bisogno di mantenere la memoria è vitale, è una missione: c’è poco tempo. Finché non si parla, e ci si sente creduti, capiti e riconosciuti, non solo nel privato, ma nella società che deve divenire essa stessa testimone dell’orrore, non è possibile davvero iniziare un processo di costruzione di una pensabilità del trauma. Perciò non si può nemmeno dimenticare.

Che senso ha tutto questo per noi collettività oggi? In quale fase di avvicinamento al trauma ci troviamo noi?

Il luogo per parlarne è stato riconosciuto, ma quanto è realmente possibile farne uso? Forse indugiamo ancora nella fase del diniego in cui si fatica a riconoscere la realtà di ciò che è avvenuto, oppure ammettiamo ma allontaniamo, come se la cosa, pur avvenuta, stesse altrove e non ci riguardasse?

L’ Intervista

La famiglia Gorlato, a partire dall’antenato Andreuccio Giovanni, viveva a Dignano d’Istria dal 1458, quando ancora quella terra apparteneva alla Serenissima Repubblica di Venezia. Giovanni Gorlato, nato nel 1900, figlio di contadini, per interessamento del parroco che ne aveva ravvisato le capacità intellettuali, era stato fatto studiare prima al liceo di Pola e poi all’Università di Bologna. Divenne notaio, e dopo alcuni anni passati tra San Daniele, Pontebba e Pirano, finalmente nel 1937 aprì lo studio nella natia Dignano (in Istria) e si sposò con Jolanda Brisinello, una ragazza di 13 anni più giovane che aveva conosciuto a Pontebba. Ebbero due figli: Giorgio nel 1939 e Daria nel 1942. Dopo l’8 settembre del 1943 si adoperò per nascondere alcuni partigiani proteggendoli dai rastrellamenti nazifascisti. Spaventato dalle prime violenze anti-italiane e dal clima intimidatorio che si cominciava a respirare in Istria, ritenne prudente mandare la moglie e i figli ad Artegna, (in Friuli) in una casa della suocera, per andare poi a trovarli circa ogni 15 giorni. Nella notte tra il 4 e 5 maggio del 1945 un gruppo di partigiani di Tito fece irruzione nella sua casa di Dignano, dove viveva con la sorella Maria. Venne preso con la forza e portato via. Non se ne seppe più nulla. La sorella cercò di protestare ma venne colpita col calcio del fucile e perse i sensi.

E siamo col figlio Giorgio. Signor Gorlato, come è venuto a sapere della scomparsa del padre?
Noi eravamo ad Artegna. Un giorno sono arrivati dei vicini di casa di Dignano che erano riusciti a scappare, si sono chiusi in una stanza con mia madre. E dopo poco sono usciti con lei che piangeva disperata. Ma non ha voluto dire niente a me e a mia sorella. Ci ha solo invitati a pregare per il nostro papà. Anche dopo che la zia Maria ci ha raccontato come sono andate le cose, mia madre ha sempre avuto la speranza che fosse ancora vivo e che prima o poi potesse ritornare da noi. Eravamo piccoli e non riuscivamo a misurare realisticamente la gravità della situazione.
Lei come si è sentito? Cosa ha fatto?
Come le ho detto ero un bambino di neanche sei anni. Mia mamma mi faceva vivere nella speranza che però si andava sempre più affievolendo. Lentamente ho capito e mi sono convinto che il papà non lo avrei più visto. Avevo avuto però come una premonizione l’ultima volta che era venuto a trovarci. Mi ero abbarbicato alle sue gambe e lo supplicavo piangendo di non tornare in Istria, di restare lì con noi. E’ stata l’ultima volta che l’ho visto e mi è rimasto come il rammarico di non essere riuscito a convincerlo. Quasi che avessi avuto il potere di evitare quello che sarebbe accaduto. E dire che mio padre aveva già avviato la chiusura del suo studio di Dignano ed era in procinto di aprirne un altro in Friuli. Capiva che il clima là era molto pericoloso.
Come è cambiata la sua vita dopo questo episodio?
Beh la mia famiglia è passata da una vita serena a una dimensione di dolore costante, con mia madre sempre triste. Improvvisamente scoppiava a piangere. Ed anche dal punto di vista economico sono stati giorni duri. Solo con la certificazione di morte presunta nel 1954 abbiamo potuto usufruire della pensione notarile di mio padre. Devo dire però che anche la condizione di profughi a Udine, dove ci siamo trasferiti nel 1947 per poter frequentare le scuole superiori, ci è pesata molto. Negli ambienti scolastici nei nostri confronti c’era una distanza fatta sia di distinzione di classe che di preclusione ideologica. Essere profughi ci relegava a un livello percepito come basso rispetto al resto della popolazione, e in più l’essere venuti via dal “paradiso socialista” della Jugoslavia faceva pensare ad alcuni politicamente schierati a sinistra che fossimo dei para-fascisti.
Come e quando si è sentito di parlare?
Sia ben chiaro: io sono stato sempre dentro di me orgoglioso di essere un Istriano e un Dignanese in particolare. Però c’era poca gente disposta ad ascoltare ed anzi non era agevole raccontare in pubblico la mia storia. E’ forse da quando mi sono sposato che, anche con l’aiuto di mia moglie e proprio parlando con lei, ho cominciato più liberamente a rielaborare il ricordo in forma narrativa. Anche se le parole che lo componevano erano come altrettante stilettate nel cuore. Mi sono fatto forza ed ho chiesto alla preside del liceo che avevo frequentato, ben prima che fosse istituzionalizzata la Giornata del Ricordo, se avessi potuto venire a parlare agli studenti della mia vicenda che consideravo una esperienza emblematica di una tragedia ben più ampia. Ma mi fu risposto che “i tempi non erano ancora maturi”. Temetti che il nostro dolore saremmo stati condannati a tenercelo dentro per sempre perché forse i tempi “maturi” non sarebbero mai arrivati.
Cosa l’ha aiutata ad affrontare la tragedia e cosa invece tendeva ad impedirle di farlo?
Sicuramente la fede religiosa di mia madre e di mia zia che mi inducevano a collocare quello che era accaduto all’interno della volontà di Dio. A farmene una ragione insomma. Ma contemporaneamente mia madre in particolare, forse per non farci soffrire, invitava me e mia sorella a dimenticare. Ci diceva: inutile pensare al passato. “Sul passato abbiamo tirato giù la saracinesca” ci ripeteva. Quello che è successo non si può cambiare. Bisogna guardare avanti. Questo discorso ha fatto presa soprattutto su mia sorella che davvero si è chiusa al ricordo, forse troppo doloroso per lei. Nonostante avesse sposato un neuropsichiatra infantile che certo avrà cercato di aiutarla ad elaborare il lutto.  Poi le circostanze in cui è morto mio padre, il non sapere se sia stato infoibato, annegato, fucilato o fatto morire di stenti in un campo di concentramento, se e quanto abbia sofferto, è un altro elemento che ci impedisce di considerare neppure oggi le nostre vicende con serenità. Mia madre ha cercato, dai vescovi di Trieste, di Pola, di Fiume, qualche notizia ma tutto si è perduto in una indistinta confusione storica. E ci manca anche una tomba su cui pregare, altro elemento da non trascurare.
In questo contesto come ha influito l’istituzione della Giornata del Ricordo nel 2004?
E’ stato un passaggio assolutamente decisivo. Si può dire che siamo usciti da una certa qual clandestinità. Non eravamo più noi a chiedere di essere ascoltati, ma lo Stato (ricordo che la legge istitutiva è stata approvata in Parlamento con il 98% dei voti favorevoli) ad invitarci a parlare, a frequentare le manifestazioni, gli incontri soprattutto scolastici. Io e tanti altri esuli ed orfani come me abbiamo cominciato a farlo con continuità, come una missione. Uscivamo da un lungo e colpevole silenzio che per ragioni geopolitiche avevano ghettizzato la nostra vicenda in un campo che era inopportuno rimestare. Ci rimane un unico rimpianto, che questa decisione del Parlamento sia giunta troppo tardi, anche se certo non è mai troppo tardi, ma tardi comunque, perché noi che siamo i testimoni diretti di questa tragedia ormai siamo tutti vecchi. Per quanto ancora potremo svolgere il nostro compito? Noi non chiediamo pietà. Ci siamo rifatti una vita con fatica ed impegno. Ma rispetto sì. Siamo stati, noi e i nostri cari, vittime assolutamente innocenti. E ci fa male che ancora oggi illustri e meno illustri storici sostengano che questa ricorrenza è inutile e che sarebbe stata istituita quasi per fare da contraltare alla Giornata della Memoria. Nulla di più falso. Talora si va anche al di là del negazionismo: ho sentito gente approdare ad una sorta di giustificazionismo. Nel senso che le milizie titine sostanzialmente avrebbero fatto bene a gettare nelle foibe migliaia di italiani, colpevoli solo di esserlo e di volerlo restare, per vendicare le violenze che le popolazioni slave avevano dovuto subire dal Fascismo. Per “fare giustizia”. Come ci dispiace che la storiografia ufficiale, quella cioè dei libri di testo scolastici, dedichi ancora poca attenzione alle vicende che hanno caratterizzato la vita e la morte sui confini orientali alla fine della seconda Guerra mondiale.  Non sono “fatti nostri” ma storie che devono coinvolgere l’intera coscienza nazionale.

Bibliografia:
Freud S. (1921) Psicologia delle Masse e analisi dell’Io. Introduzione OSF Vol.IX Boringhieri
Kaes R. e altri (1993) La trasmissione della vita psichica tra generazioni. Borla Roma 2005
VV. La testimonianza. Notes per la Psicoanalisi n.10, 2017 Alpes Roma

Autori:
Patrizia Montagner, Portogruaro ( VE)
Centro Veneto di Psicoanalisi
patmontagner28@gmail.com  

Alessio Alessandrini, Portogruaro (VE)
Università della Terza Età del Portogruarese
alessioalessandrini2@gmail.com

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