APPROFONDIMENTO AL TESTO

“Il re selvaggio. Georg Groddeck ai congressi psicoanalitici”

Testi di Georg W. Groddeck - Ernst Simmel - Michele M. Lualdi

Intervista di Anna Cordioli

“Il re selvaggio. Georg Groddeck ai congressi psicoanalitici”
“Il re selvaggio. Georg Groddeck ai congressi psicoanalitici”

Titolo:“Il re selvaggio. Georg Groddeck ai congressi psicoanalitici”

Curatore: Michele M. Lualdi

Testi di:Georg W. Groddeck – Ernst Simmel – Michele M. Lualdi

Anno pubblicazione: 2022

Editore: EBS Print

Numero Pagine: 306

Sul finire del 2022 è uscito in Italia un libro molto interessante dal titolo “Il re selvaggio. Georg Groddeck ai congressi psicoanalitici” a cura di Michele Lualdi.
Il testo nasce da un fitto lavoro di ricerca e contestualizzazione storica in cui il curatore ha tradotto, per la prima volta in italiano, alcuni lavori di Groddeck e alcune lettere che il grande pioniere della psicoanalisi si scambiò con Freud e non solo.

Per chi non legge il tedesco queste traduzioni sono un grande regalo e l’occasione per approfondire la conoscenza di autori che in Italia sono meno noti ma non per questo sono meno importanti.
Il pregio di questo libro sta proprio nell’impegno che Lualdi mette nell’approfondire la figura di Groddeck e nell’offrire al lettore una ricchezza di elementi per comprenderne la figura ed il pensiero. Per chi ama la storia della psicoanalisi, ma anche per chi approfondisce la genesi dei concetti, questo testo risulta essere una chicca da non lasciarsi scivolare via.
Lualdi, che è psicoterapeuta, traduttore e saggista, non è nuovo a questo lavoro di recupero della memoria e negli anni ha approfondito altre figure importanti per comprendere la prima generazione della psicoanalisi: Stekel, Adler, Jung, Abraham, Ferenczi, oltre ad un enorme lavoro sugli epistolari italiani di Freud.
Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo per parlare di questa sua ultima fatica dedicata a Groddeck e di porgli qualche domanda a proposito del suo ultimo libro.

AC: Ci separano ormai 100 anni dagli scritti di Groddeck. Al di là di cosa hanno ancora da insegnarci, trovo molto interessante la metodologia di lavoro che ha adottato. Da un lato c’è una cura storiografica, dall’altro si sente il piacere di avere a che fare con una riscoperta. Come ha strutturato il suo lavoro sulle fonti?

 

ML: Groddeck è in genere ricordato come l’analista selvaggio, con idee estreme (e ingenue) sulla psicosomatica, profuse nel suo “Libro dell’Es”, divertente sì, ma superato. Un primo passo per restituire profondità a questo schizzo privo di sfumature e di spessore, è la lettura del materiale biografico a disposizione, materiale sorprendentemente ricco di contraddizioni e imprecisioni. Per esempio, considerato che Groddeck viene ricordato come l’analista selvaggio, si comprenderà la centralità del tema dell’analisi selvaggia (ossia quella condotta da persone prive di training psicoanalitico) nel narrare le sue vicenda. Eppure si scopre che in una delle biografie un tema tanto centrale è confuso con un secondo, quello dell’analisi laica (l’analisi condotta da non medici – a prescindere dalla loro formazione analitica).

Si aggiungono i rischi connessi con la consultazione di alcune opere in traduzione. Giusto per rimanere in tema di “analisi selvaggia”, ecco cosa troviamo nella versione italiana di una biografia inglese: “Cominciò con il definirsi un ‘analista selvaggio’ perché asseriva di ignorare (o forse soltanto intendeva sfidare) la consuetudine invalsa tra i benpensanti di definire ‘selvaggi’ gli psicoanalisti che sostenevano la tesi del libero amore, e che già da tempo contribuivano a dar cattiva fama alla causa della psicoanalisi”.

Dunque analista selvaggio sarebbe quello che promuove il “libero amore”? Siamo sicuri? Proviamo a ritradurre il passaggio in questione: “Cominciò presentandosi con le parole: ‘Sono un analista selvaggio’, non sapendo, o volendo ignorare il fatto, che ‘analista selvaggio’ era il nome dato a quegli psicoanalisti completamente privi di qualifiche, spesso sostenitori del libero amore, che già allora arrecavano alla causa una cattiva reputazione”. Suona già un po’ meglio, non trova?

È chiaro che per la ricerca storica questi testi non sono affatto sufficienti. Occorre risalire alle fonti stesse su cui i loro autori hanno costruito le proprie narrazioni: serve un secondo tipo fonte, quella documentaria, ossia scritti dell’epoca, documenti e lettere tra i protagonisti delle vicende. E, carte alla mano, ci si stupisce di quanto spesso i biografi abbiano o tralasciato di indicare le loro fonti dirette oppure abbiano semplicemente sopperito (senza dichiararlo!) alla loro assenza romanzando la narrazione (ad esempio del contenuto della conferenza di Groddeck del 1920) per colmare le lacune.

Il punto è che se vogliamo che la ricerca storica sia priva di approssimazioni, la ricetta prevede: 1) consultare e raffrontare ciò che già è stato scritto (almeno una selezione), possibilmente in originale; 2) mai fidarsi ciecamente (lo diceva già Ellenberger introducendo il magistrale testo “La scoperta dell’inconscio”) e risalire ogni volta che sia possibile ai documenti dell’epoca, possibilmente anch’essi in originale; 3) tenere ben distinto ciò che possiamo documentare dalle nostre personali ipotesi e ricostruzioni. Purtroppo le biografie su Groddeck non sempre su ciò sono trasparenti. Per parte mia ho cercato di fornire al lettore un volume a più livelli: ci si può limitare alla lettura dei testi qui proposti in traduzione italiana per la prima volta e alla narrazione degli eventi storici, oppure si può curiosare anche tra gli eventi storiografici (la storia della storia, potremmo dire) e prendere atto delle varie versioni che nel corso del tempo sono state date dei fatti originari. Ma si può scendere oltre per farsi un’idea personale tanto delle traduzioni quanto delle ricostruzioni storiche da me proposte, poiché in tutti i casi ho segnalato le necessarie fonti bibliografiche. In fondo, infatti, non si tratta di fornire risposte, ma di sollevare domande che facciano progredire la ricerca.

Durante il lavoro ho potuto avvalermi di uno scambio molto proficuo con Beate Schuh, della Società Georg Groddeck di Francoforte e con lo psicoanalista e storico della psicoanalisi Michael Giefer, che in collaborazione con la Società ha pubblicato nel 2008 una versione estesa del carteggio Freud-Groddeck partendo proprio dagli olografi, studiati con attenzione filologica.

AC: Nel testo sottolinea l’importanza di superare alcune imprecisioni su ciò che sappiamo su Groddeck.

 

ML: Si tratta in sostanza di tendere alla verità, pur sapendo che resterà sempre oltre il nostro sguardo e dunque ammettendo e segnalando i limiti del lavoro. È qualcosa che sento di dovere ai personaggi (in realtà persone!) di cui scrivo e nella cui intimità mi permetto di entrare leggendo ad esempio le loro lettere. E lo devo non meno a chi legge, cui cerco di dare ogni strumento perché possa decidere cosa accogliere e cosa rifiutare di quanto scrivo.

Del resto la psicoanalisi si fonda (anche) sulla ricerca e sul rispetto della verità e poiché credo che la psicoanalisi si ben più di una tecnica terapeutica, credo anche che il pensare e agire in senso psicoanalitico rappresentino qualcosa di applicabile anche in altri ambiti, ricerca storica compresa.

Venendo a Groddeck, incontrò Freud per la prima volta nel 1920 al congresso psicoanalitico di L’Aia e per l’occasione presentò una relazione “Sul trattamento psicoanalitico delle malattie organiche”. Cosa ci dicono in proposito le fonti documentarie? Che Groddeck non aspettava altro che di poter vedere Freud, di cui era “innamorato” (come si espresse egli stesso) e che lesse una relazione in cui dichiarava che i sintomi somatici hanno un significato psichico e ne riportava alcuni esempi.

Ma ecco come si trasforma il contenuto di queste fonti passando da un biografo al successivo: “Si parte dai Grossman che negano l’esistenza di un testo approntato in anticipo da Groddeck per il congresso e anzi affermano che solo all’ultimo e per volere di Freud gli venne chiesto di dire ‘qualche parola’. Grotjahn sulla base dei Grossman dichiara esattamente l’opposto, ossia che Groddeck aveva preparato un testo che poi non lesse (!). Will corregge il tiro e riprende l’ipotesi dei Grossman. Ma l’idea di un testo approntato da Groddeck per la conferenza torna con Martynkewicz, il quale aggiunge il dettaglio che “probabilmente” Groddeck aveva dimenticato quel testo in albergo”.

Ripeto, non ci sono elementi che ci possano dimostrare che Groddeck preparò un testo per il congresso o che al contrario non lo aveva fatto (io propongo una mia ipotesi…). Figuriamoci se si possono trovare riferimenti alla questione dell’albergo! E non è tutto qui: anche i tentativi dei biografi di ricostruire il contenuto della relazione di Groddeck vanno molto al di là delle fonti documentarie, quali la breve ma incisiva lettera di Groddeck a Freud scritta l’11 settembre 1920, giorno di chiusura del congresso: “Se i complessi rimossi sono troppi per le persone dalla vista buona, la censura… rende l’occhio miope. Se questo non basta, l’inconscio distrugge la retina mediante emorragie. Si tratta, in campo diverso, di un fenomeno analogo alla formazione dell’antitossina per combattere la tossina o all’insorgenza della febbre e della suppurazione per vincere l’infezione. Col risolversi della rimozione, la censura può allentarsi, e si può quindi fare a meno delle emorragie retiniche

 

 

AC: Il suo testo è diviso in due parti: “Groddeck il selvaggio” e “Groddeck il re”. In appendice, poi troviamo una serie di interessanti lettere.

 

ML: Il cuore de “Il Re selvaggio” è proprio un tornare a interrogare la nota frase di Groddeck “Sono un analista selvaggio”: siamo certi che la pronunciò? E soprattutto: cosa significa? Il primo punto è questione di ricerca di fonti e non stupirà se dico che tutte le biografie di Groddeck riferiscono la frase, ma nessuna ne indica chiaramente l’origine. Il secondo punto è invece questione… di stile. Intendo dire che solo lo studio dello stile di scrittura di Freud e di Groddeck ha consentito di cogliere, o almeno di ipotizzare che dietro quel dichiararsi selvaggio (“wild” in tedesco) da parte di Groddeck ci sia ben più della provocazione sull’annosa questione dell’analisi laica. Stupirà forse che il primo a immettere Groddeck tra i selvaggi fu lo stesso Freud, nella prima lettera che gli scrisse, il 5 giugno 1917. Perché questo dovrebbe stupire? Perché leggendo il loro carteggio non si troverà mai il passaggio in questione in quanto “wild” è tradotto con un improbabile “dannata”: “Chi riconosce che il transfert e la resistenza sono la chiave di volta del trattamento appartiene ormai, senza rimedio, alla schiera dannata”. Il ripristino dell’espressione originaria “schiera selvaggia” (o anche “esercito selvaggio”) apre a un livello di allusioni letterarie in cui Freud era maestro per via di quella profonda cultura che certo possedeva anche Groddeck, che aveva frequentato – non dimentichiamo – lo stesso liceo di Nietzsche e di altri importanti filosofi.

Ma a Groddeck non va di essere ricacciato nella schiera selvaggia. Lui rivendica una posizione di leader, di re. Lui è il condottiero che ha schiuso alla psicoanalisi il reame della psicosomatica fin dal 1920. Va ammesso, la sua formulazione è nel complesso ancora superficiale, meccanica, ma al tempo stesso ricca: sia perché fungerà da base per tanti studi e sviluppi successivi, sia perché essa stessa basata non di rado su una raffinata analisi che spiega il senso del coinvolgimento di un organo in un conflitto psichico ripercorrendo l’etimologia e la filologia del nome dell’organo stesso (la base è quella lamarkiana invocata anche da Freud a sostegno dell’ipotesi che l’inconscio conservi tracce della storia filogenetica). E quest’anno, in cui festeggiamo il centenario non solo de “L’Io e l’Es” di Freud ma anche de “Il libro dell’Es” di Groddeck, non possiamo dimenticare che a lui si deve l’introduzione del concetto di Es in psicoanalisi. In un turbinio di eventi di cui cerco di ricostruire anche la trama emotiva, Groddeck così si esprime già nel 1922 al Congresso psicoanalitico di Berlino, colto di sorpresa dall’annuncio di Freud della prossima pubblicazione di “L’Io e l’Es”: “tutte le espressioni vitali dell’uomo, la sua forma esteriore; struttura, alterazione e funzione dei suoi organi, le sue azioni e i suoi pensieri, le sue malattie psichiche e fisiche, anzi gli stessi psiche e fisico sono solo forme diverse di manifestazione in cui si mostra l’Es. Tanto il sistema della coscienza quanto quello del preconscio e, in fondo, anche quello dell’inconscio devono venir concepiti… come derivati e suddivisioni dell’Es”. Fatto interessante, Groddeck titolò questo suo intervento “La fuga nella filosofia”. Perché mai? La domanda mi sorge spontanea, ma pare che nessuno dei precedenti biografi se la sia posta…

La consapevolezza a tratti da lui stesso definita “megalomane” dei suoi contributi alla psicoanalisi lo porta a prendere nette posizioni politiche. Anzitutto, naturalmente, sulla questione dell’analisi selvaggia: “i partecipanti ai congressi fanno come se non sapessero che anche al di fuori dell’Associazione internazionale ci sono psicoanalisti dotati, ben formati, addirittura eccellenti: in ognuna delle conferenze che ho avuto il piacere di ascoltare, si parlava di analisi selvaggia. Non contesto che ci sia qualcosa che si può definire così, ma chi si trova in una serra, non dovrebbe scagliare pietre. Per quanto ne so, nessuno degli psicoanalisti di punta è formato”. Parole scritte nel 1925, subito dopo il congresso psicoanalitico di Bad Homburg, l’ultimo cui partecipò. Per l’occasione si esprime chiaramente anche su come secondo lui dovrebbe funzionare l’Associazione psicoanalitica internazionale, in particolare in merito al training. O forse meglio: come funzionerebbe sotto il suo regno. Con questo congresso siamo agli atti finali: se negli anni precedenti Groddeck si è trattenuto vuoi per rispetto di Freud vuoi soprattutto per paura di perderne l’amore, ora osa manifestarsi, dire ciò che non gli va e chiudere – a quanto pare – commentando dei colleghi: “Capiscono così poco”.

 

AC: È molto interessante anche l’attenzione che rivolge allo stile comunicativo dell’autore nelle sue lettere. In particolare il lungo stralcio finora inedito della lettera di Groddeck a Freud del giugno 1917.

 

ML: Lo stile dei saggi di Groddeck è provocatorio, ironico e sarcastico, ma la semplicità è solo apparente e soprattutto il suo pensiero non è mai ingenuo. Le lettere, soprattutto a Freud, si arricchiscono di quelle finezze che spesso caratterizzano le parole dell’innamorato, quale lui era di Freud. Groddeck soppesa ogni parola (sua e dell’altro), scrive, cancella, corregge. Non dimentica gli scambi già avvenuti e capita che in una lettera si ricolleghi a qualcosa scritto a Freud anche anni prima: ad esempio nella lettera a Freud del 31 maggio 1923 se ne esce scrivendo: “Lei, e anche Sua figlia Anna, che non volli riconoscere, hanno gli occhi di mia madre”. Si sta riferendo a un episodio contenuto nella lettera del 23 novembre 1922! Che per giunta il lettore italiano non conosce perché tale lettera non compare nel carteggio attualmente in commercio (nel mio volume sono contenute tutte le parti mancanti del carteggio).

Ma la parte inedita della lettera del giugno 1917 è preziosissima anche da altri punti di vista. Si tratta di un lungo brano autoanalitico, in cui si coglie la profonda sincerità di Groddeck nell’esporsi a Freud, la stessa che si ritrova solo in toccanti brani epistolari di Ferenczi (sempre a Freud), che non a caso diverrà un suo grande ammiratore ed amico. Tradurla è stata ardua prova perché le autointerpretazioni di Groddeck sono spesso basate su giochi di parole, doppi significati che sfuggono inevitabilmente nella traduzione. Vi è un sogno, con tutte le associazioni. Quasi tutti i cognomi hanno anche un significato altro: “Nass” ad esempio, oltre che essere un cognome significa “pioggia”; per non parlare del cognome “Kiebitzen”, per comprendere il cui significato ho dovuto scomodare un dizionario della regione del Palatinato…). Di qui il ricorso a un massiccio apparato critico, di circa 200 note a piè pagina. Mi rendo conto che così facendo ho reso la traduzione meno scorrevole, anche perché ho ridotto al minino le concessioni alle usuali strutture sintattiche italiane per conservare quelle tedesche, naturalmente nel rispetto della nostra grammatica. Ma le note si possono saltare e non serve molto tempo per abituarsi ai nuovi ritmi del discorso. E ciò che si guadagna è un arricchimento, se non altro in termini di costruzione di ipotesi, nelle nostre possibilità di cogliere la profondità del rapporto tra Freud e Groddeck e della loro scrittura.

Da ultimo, il reinserimento del brano nello scambio epistolare ci consente di meglio comprendere alcuni altri passaggi non solo delle lettere tra Freud e Groddeck, ma anche di quelle contemporanee tra Freud e Ferenczi: a questi Freud inviò l’intima lettera di Groddeck prima ancora di averne avuto il permesso dall’autore! Interessante…

AC: Il congresso di Homburg del 1925 fu un momento importante che segnò anche l’addio di Groddeck ai convegni. Lei dedica un capitolo a questo particolare momento della storia di Groddeck e al suo rapporto con Freud.

 

ML: Non potevo non dedicare un capitolo all’uscita di scena “ufficiale” del Nostro dal palco dell’Associazione psicoanalitica internazionale. Credo che soprattutto in quel capitolo si possa apprezzare la ricchezza delle informazioni contenute nei vari epistolari freudiani (non solo quello con Groddeck). Non si tratta solo di informazioni relative ai fatti, ma – come dicevo prima – della possibilità di cogliere stati d’animo, titubanze, allusioni, insomma, ciò che ha a che fare con quelle persone che siamo soliti considerare (solo) come scienziati, analisti, scrittori. Ho cercato di cogliere in tal senso le difficoltà di Freud, che non partecipò al congresso dopo quella che pare essere stata una lotta non tanto con gli altri (Jones, Abraham, Pfister, Ferenczi e naturalmente Groddeck), ai quali comunicò e al contempo non comunicò fino all’ultimo la sua rinuncia, ma soprattutto con se stesso, stretto tra presa di coscienza della gravità della sua malattia e – verrebbe da dire, considerato il saggio che stava scrivendo proprio in quel periodo – “la negazione” della stessa. Quando Groddeck gli chiese se avrebbe partecipato al congresso Freud gli risponde. “A Homburg non mi è possibile venire”. O meglio, questo è quanto leggiamo nell’edizione italiana del carteggio. Ma in realtà la formula impiegata da Freud è talmente particolare che anche le due traduzioni inglesi che sono riuscito a reperire differiscono tra loro sensibilmente. Si tratta di qualcosa come “A Homburg temo che potrei non venire”. Se si pensa che lo stesso giorno aveva scritto a Ferenczi, senza ambiguità. “Sono molto curioso della Sua conferenza congressuale, che purtroppo non potrò ascoltare” non ci si può non interrogare su queste variazioni stilistiche: cosa ci raccontano dei loro autori e delle relazioni tra di essi?

Insomma, l’attenzione ai carteggi non ha per me importanza solo dal punto di vista della curiosità e della ricerca storica: spesso questi documenti così vivi e personali acquistano un valore formativo per chi affronta un percorso analitico, poiché ci aiutano a comprendere che i nostri tormenti, le nostre insicurezze, così come i nostri entusiasmi, furono prima di tutto quelli di quei pionieri che altrimenti idealizziamo o, in altri casi (come Wilhelm Stekel) demonizziamo. La mia speranza è sempre che qualche editore decida di investire nella traduzione dei tanti carteggi psicoanalitici ancora non disponibili in italiano.

 

AC: Grazie per questa bella passeggiata nella storia della psicoanalisi e grazie per il suo lavoro di ricerca e memoria.

 

ML: Grazie a lei e al Centro Veneto di Psicoanalisi per la piacevole occasione e l’ospitalità.

Anna Cordioli, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

annacordioli@yahoo.it

 

Michele M. Lualdi, Gorla Minore (VA)

Psicoterapeuta, Traduttore, Saggista

michelelualdim@gmail.com

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