Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Ilaria Rittatore
La letteratura per l’infanzia ha il potere di spiegare in modo semplice e metaforico quello che noi spesso cerchiamo di dire con modalità più complesse; per questo i libri per bambini possono diventare preziosi strumenti di lavoro sia con i piccoli sia con gli adulti.
Nella sala d’attesa che precede l’ingresso nella stanza di terapia tengo abitualmente alcuni album illustrati che bambini e genitori possono liberamente consultare. Noto che alcuni ne sono attratti in modo spontaneo, altre volte sono io a proporne la lettura per i temi che trattano e per il linguaggio che usano.
“Il principe e il pollo”, citato in un famoso articolo di Luciana Nissim (1984), è un racconto ebraico rielaborato e riferito da Moni Ovadia e illustrato da Emiliano Ponzi (Emme Edizioni, 2006), si tratta di una storia molto interessante perché permette di raccontare il lavoro nella stanza di analisi a chi non ne fa esperienza diretta, come accade ai genitori dei giovani pazienti.
Spesso i genitori che si rivolgono a noi faticano a comprendere in cosa consiste una psicoterapia e noi terapeuti a nostra volta fatichiamo a spiegarlo.
Tenere questo libro nella sala d’aspetto e poterlo proporre ai genitori può avvicinarli a capire in cosa consiste il processo terapeutico, può aiutare ad accettare la nostra richiesta di tempo, può favorire l’instaurarsi di un sentimento di fiducia e di un’alleanza che è fondamentale per l’avvio della terapia con pazienti bambini.
Nella storia si narra che in un’occasione di festa, alla presenza di illustri ospiti, il figlio del re inspiegabilmente si spoglia di tutti i vestiti, si infila sotto un tavolo, inizia a rifiutare ogni cibo accettando solo di becchettare dei chicchi di grano.
L’inizio della storia ci racconta di qualcosa che interrompe il fluire della vita del giovane figlio del re, qualcosa di cui non ci si da spiegazioni perché tutto sembrava “normale”. Noi diremmo che si tratta di qualcosa che avviene nel mondo interno del giovane (bambino o adolescente), che lo porta a manifestazioni apparentemente incomprensibili e ad una chiusura verso il mondo esterno.
Il fatto che avvenga sotto lo sguardo di tutti fa pensare allo sguardo giudicante degli altri che spesso preoccupa i genitori dei giovani pazienti. Ma la presenza di tutti ci rimanda anche al fatto che è qualcosa che può accadere a ognuno di noi, perfino al figlio del re.
Il re-genitore si dispera e si rivolge dapprima a rispettati professionisti, poi a chiunque proponga una possibile cura, senza alcun risultato. Sembra quindi che l’agire, il fare non sortisca alcun effetto e il re si rassegna. Nel regno aleggia tanta tristezza per questa malattia del principe.
Quante volte anche noi, soprattutto di questi tempi, proviamo tristezza pensando ai ragazzi quando li sentiamo lontani, irraggiungibili, non conosciuti e riconosciuti nei loro comportamenti e nel loro modo di essere.
L’arrivo di un saggio cambia gli eventi, si propone di curare il giovane, ma questa cura richiede tempo.
Il bisogno di un tempo individuale, spesso piuttosto lungo, è un aspetto fondamentale per arrivare a delle trasformazioni interne, ma è anche un elemento difficile da comprendere e accettare in un’epoca in cui tutto è sempre più veloce e immediato.
La grande domanda rimane: cosa accade nella stanza di terapia? In cosa consiste la cura?
Qui c’è la bellissima immagine proposta da questa storia: il saggio-terapeuta va sotto il tavolo con il figlio del re, si spoglia e inizia a becchettare con lui. Il giovane rimane un po’ sconcertato, ma il saggio entra in contatto con lui attraverso una condivisione e un rispecchiamento (anche lui è sotto il tavolo e becchetta i chicchi di grano).
Come scrive Spadoni (1987) “…se ci proponiamo di offrire ai pazienti l’opportunità di un vero cambiamento, dobbiamo innanzitutto accettare di trasformarci noi per primi, di essere per loro quell’unico tipo di interlocutore che possono tollerare, talvolta una semplice e muta presenza, una elementare esperienza di co-esistenza, la sola di cui possono aver bisogno in quel preciso momento: come ci ha ricordato la Nissim con la storiella hassidica, scendere sotto il tavolo dove ci aspetta il paziente-pollo ed eventualmente fare lo stesso gioco, il che non significa fare il suo gioco!”.
Quest’ultima affermazione risulta molto significativa, perché stare in stanza con il paziente e giocare con lui non significa fare il suo gioco come può accadere in una normale interazione giocosa, significa essere presenti per l’altro con una mente pronta ad accogliere e a trasformare gli stati mentali ed emotivi presenti durante il gioco.
Infatti nel proseguimento della storia il saggio gradualmente introduce altri elementi (del cibo, l’uscita da sotto il tavolo, degli abiti da indossare) che permettono al giovane di rimettersi in contatto con il mondo esterno, di riprendere la sua “normalità” senza rinnegare il “pollo” dentro di lui.
“Il lavoro dell’analista viene svolto grazie a una specie di movimento di va-e-vieni fra un Io che sperimenta insieme al paziente quello che questi sta provando, e un Io critico-osservante, che registra, elabora e interpreta tali vissuti”. (L.Nissim Momigliano, 1984)
Ecco cosa facciamo, noi terapeuti andiamo sotto il tavolo e con rispetto, con pazienza, con curiosità, cerchiamo di conoscere i nostri pazienti, di scoprire tutte le parti che portano con sé affinché non sentano più la necessità di spogliarsi e di allontanarsi dalla vita.
Bibliografia
L.Nissim Momigliano (1984) “Due persone che parlano in una stanza”. Rivista di Psicoanalisi,30(1):1-17
Spadoni, (1987) “L’oscuro oggetto del bisogno”). Rivista di Psychoanalisi,33(2):265-273
Ilaria Rittatore, Padova
Centro Veneto di Psicoanalisi
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