Identificazione e sue vicissitudini nella clinica psicoanalitica

di Renato Ferraro

Questo testo sostituisce quello presentato all’incontro che non viene qui riportato essendo centrato su materiale clinico che resta riservato

Nel capitolo [L’Identificazione] di Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Freud definisce l’identificazione come la prima forma di relazione con l’oggetto. Un posto particolare in questo capitolo è riservato all’identificazione isterica, che nella sua qualità di identificazione parziale è un processo con il quale il soggetto si appropria di parti dell’oggetto con il risultato di arricchire l’esperienza soggettiva di Sé. Occorre ricordare come il concetto di identificazione permei costantemente la relazione analitica a causa del suo peculiare carattere di movimento che oscilla tra fasi di identificazione e fasi di disidentificazione. Tale movimento è appunto quel carattere che consente un continuo arricchimento ed evoluzione dell’esperienza del Sé. Significativamente diverse sono quelle operazioni in cui tale processo si fissa, invece, in una condizione di difesa piuttosto rigida che acquista allora lo scopo di proteggere un Io alle prese con falle narcisistiche che ne compromettono seriamente la stabilità di base. Mi riferisco, in particolare, a quelle situazioni in cui il processo di identificazione non è mosso dal desiderio di arricchirsi delle qualità dell’oggetto, ma in qualche modo tale processo è per così dire subìto dal soggetto, in quanto è caratterizzato dalla invasione-intrusione di un oggetto colonizzatore che invade lo spazio del soggetto. Tale situazione è tanto più fortemente a rischio, in considerazione della primaria condizione di Hilflosigkeit in cui si trova il bambino nelle prime fasi della vita, essendo inevitabilmente esposto al potere dell’oggetto (seduzione originaria di Laplanche) che può segnare drammaticamente il destino del processo di soggettivazione. Seguendo Racamier, ho osservato come ad esempio l’individuo può trovarsi nella condizione di assumere il mandato di tenere in vita un oggetto perduto per conto di un altro, in questo caso la madre, che ha subìto la perdita, e lo fa attraverso una identificazione con tale oggetto, con l’illusione di tenerlo in vita, precludendosi in tal modo la strada verso la nascita della propria soggettività.

Nel caso presentato nel corso della giornata di studio, si trattava di un adolescente; il paradosso che si era creato in lui era per così dire l’avere assunto il compito di svolgere le veci di un “morto vivente” ad indicare appunto la mortifera e annichilente identificazione con un oggetto morto, il feto femminile abortito della madre. Su questo tema ho trovato interessante anche il contributo di Winnicott nel suo lavoro: “La riparazione in funzione della difesa materna organizzata contro la depressione”. Dice Winnicott: “La riparazione della posizione depressiva consente di tollerare il senso di colpa per le proprie pulsioni o idee di aggressività e distruzione; c’è una falsa riparazione che non è collegata specificamente al senso di colpa del paziente e lo si scopre nella identificazione del paziente con la madre e il fattore sembra quindi essere la difesa organizzata della madre contro la propria depressione e la propria colpa inconscia”. Nel caso considerato, la depressione è legata alla mancata elaborazione della perdita da parte della madre di un bambino in seguito ad un aborto. “A causa di questa riparazione operata in relazione alla depressione materna piuttosto che alla depressione personale, permane una instabilità associata alla dipendenza del bambino dalla madre, e può capitare che vi si sovrapponga una tendenza omosessuale”. Ricordo che la madre di quell’adolescente, di cui ho parlato, diceva: “Sa dottore, penso che mio figlio sia gay”. Mi sembra che nel caso considerato, il tipo di identificazione sia per così dire funzionalmente diverso da ciò che avviene in una depressione melanconica in cui l’identificazione con l’oggetto materno determina una alterazione dell’Io in senso narcisistico, con le dolorose conseguenze che, sappiamo, ricadono sullo stesso. L’aver aiutato questo adolescente a scoprire quanto la sua esistenza fosse contrassegnata da questo tipo di identificazione alienante ha permesso di indicare una possibile prospettiva verso l’emancipazione del Sé da questa soverchiante identificazione, attraverso l’esperienza nuova di un transfert con l’analista che poteva essere vissuto, diversamente, come capace di riconoscere la sua alterità e il suo diritto ad esistere come soggetto.

Come premesso, non si può negare il carattere difensivo di questo uso dell’identificazione che ad esempio si può osservare in altre situazioni cliniche, come in alcuni casi di omosessualità maschile, dove l’identificazione con la madre può spingere l’Io fino al suo trasformarsi nel carattere sessuale. Nella mia personale esperienza terapeutica ho potuto osservare come si possono aprire orizzonti nuovi per il paziente che ha subìto questo tipo di identificazione alienante, quando la stessa comincia a perdere quella rigidità difensiva che mirava a stabilire una qualche quota di disinvestimento e di indifferenziazione nei confronti dell’oggetto, o imitandolo o appropriandosi di qualcosa di lui o addirittura diventando lui, nel tentativo, appunto, di eliminare la differenza, l’alterità, la dipendenza, l’ambivalenza e la conflittualità con l’oggetto. Mi riferisco all’insorgere di sentimenti ad impronta depressiva, come tristezza e senso di solitudine, mai prima esperiti, ma che diversamente da un tempo ora possono essere provati e condivisi in presenza dell’analista, con aperture verso una differenziazione Sé-oggetto, in cui il paziente comincia ad avvertire il bisogno dell’oggetto al quale può affidarsi, un oggetto che può svolgere quella funzione di contenimento e, grazie a questo, promuovere nuovi investimenti libidici del Sé. Ancora Freud nel capitolo l’Identificazione afferma: “L’identificazione, oltre ad essere la prima manifestazione di un legame emotivo con un’altra persona, è comunque ambivalente fin dall’inizio; può tendere tanto alla espressione della tenerezza quanto al desiderio dell’allontanamento. Si comporta come un derivato della prima esperienza orale della organizzazione libidica, nella quale l’oggetto bramato e apprezzato veniva incorporato durante il pasto e perciò distrutto in quanto tale”.

Mi domando ad esempio se in molti casi di obesità, il mangiare coatto non possa essere espressione di una modalità difensiva, che in una esperienza fallimentare con l’oggetto utilizza una regressione alla prima fase orale dell’organizzazione libidica; modalità difensiva agita sul corpo, che solo in un secondo tempo può essere (sperabilmente se la cura funziona) ricondotta ad una rappresentazione simbolica, cioè ad un fantasma di divoramento bidirezionale, alimentato da un oggetto che divora e toglie la vita, ma anche dalla necessità del soggetto di possedere un oggetto che sfugge continuamente alla sua funzione di generatore della vita. Potrebbe verificarsi in queste situazioni ciò che Marco La Scala ha descritto come “incorporazione passiva”, quando l’oggetto intrude nell’Io e lo occupa a forza.

Questo tipo di incorporazione passiva rinvia alla vicenda di una invasione castrante e ammutolente la vitalità del Sé del soggetto, che nel corso della cura può cominciare a manifestarsi nella forma di una fantasia che può via via sostituire sensazioni somatiche prive di rappresentazione, come appare nel sogno di un adolescente: “Ero in un viale alberato scuro, sembrava una galleria. Davanti a me sentivo delle voci e dietro a me vedevo delle figure vestite di bianco, poi vedevo i profili dei corpi. Questi mi correvano dietro così mi sono messo a scappare; per fortuna sono arrivato ad una porta, l’ho aperta e lì mi sono svegliato”. Nel sogno c’è quindi qualcuno che lo insegue e lo minaccia, da qui il risveglio angosciato. Se prima l’angoscia si esprimeva nella forma pura della crisi di panico, ora è riconducibile ad un fantasma, in questo caso a quelle figure che lo inseguono minacciosamente. Sembra cioè concretizzarsi qualcosa che rimanda alle sembianze di un oggetto che mette in pericolo la sua vita. A questo sogno segue dopo diverso tempo un altro sogno che sembra segnalare un ulteriore evoluzione nel registro simbolico: “Mi trovo chiuso dentro un cubo nero, ma la cosa non mi angoscia, pur essendo chiuso. Sento questa situazione rassicurante e mi sento protetto”. Mi viene spontaneo immaginare che questo cubo, in analogia a sogni precedenti sulla stanza di analisi, rievochi l’ambiente della cura, l’immagine di un contenitore che sempre più il paziente sperimenta come un luogo sicuro, e si faccia pertanto strada la rappresentazione e/o l’identificazione con un oggetto che dà sicurezza, qualcosa di nuovo, quindi, rispetto alla sensazione di vuoto e di minaccioso pericolo sperimentati per lungo tempo nella sua vita.

 

 

Bibliografia

Freud S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. O.S.F., 9.

Racamier P.C. (1992). Il genio delle origini, Milano, Raffaello Cortina, 1993.

Winnicott D. (1958). La riparazione in funzione della difesa materna organizzata contro la depressione. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi, Firenze, G. Martinelli, 1975.

Renato Ferraro, Vicenza

Centro Veneto di Psicoanalisi

renatof28@libero.it

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