Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Anna Cordioli
“So when you’re near me, darling, can’t you hear me? SOS” (ABBA,1975)
Il 21 Aprile 1975 usciva il disco “ABBA” degli ABBA.
Era il loro terzo disco e conteneva delle perle divenute immortali a livello planetario. La loro è una musica molto ballabile, e forse per questo non avrei mai pensato di mettermi ad ascoltare questo album con viva emozione…
A dire il vero, degli ABBA non sapevo pressoché nulla fino agli inizi degli anni 2000.
Ricordo però il giorno esatto in cui mi resi conto che valeva la pena dar loro un ascolto attento, e ricordo con gratitudine infinita, la persona che mi fece questo grande regalo.
A parlarmene fu un paziente che incontrai solo per pochi colloqui presso il dipartimento di psichiatria.
Certe volte la memoria torna a questi incontri brevi, riconoscendone una portata seminale. Ci si accorge che hanno lasciato un’impronta duratura perchè ci hanno permesso di imparare ad ascoltare di più e forse meglio.
Ogni dato del paziente è stato ovviamente reso irriconoscibile, per garantirne la privacy. Questo meraviglioso uomo non è più su questa terra ormai da molti lustri ma ogni volta che ascolto gli ABBA non manco mai di essergli riconoscente. Qui lo chiamerò Fernando.
Eravamo in una stanzetta senza finestre, per una breve serie di colloqui. Il mio compito era mappare le reti sociali dei pazienti in carico al servizio da molti anni per poi valutare se potessero giovarsi di far parte di gruppi di terapia.
Questo Signore era un omone ormai quasi anziano. Piangeva e mi raccontava della sua sofferenza, della sua vita piena di alti e bassi (veri picchi e veri abissi); mi raccontava di mille persone che erano andate e tornate seguendo il ritmo delle onde del suo umore e via via erano spariti.
Ora viveva da solo, nell’impossibilità di lavorare e costretto a vivere in una condizione di semi-tutela. Passava le giornate a dormire e le notti a creare compilation di canzoni.
Avrebbe voluto fare il DJ di programmi notturni: non riteneva che gli fosse rimasto null’altro se non la musica e le emozioni.
Mi spiegava che a lungo aveva usato la musica come una medicina: le canzoni felici per mitigare i momenti tristi della vita e le canzoni tristi per zavorrarsi un po’ durante le fasi di euforia maniacale. Mi spiegava, con dovizia di particolari, quanto fosse bravo a dosarsi questo farmaco sonoro e di come il principio che lo rendeva efficace fosse un raffinato bilanciamento degli opposti emotivi.
Aggiunse che però, da tempo non riusciva più ad usare la musica in quel modo.
A: “Perché?” chiesi il più dolcemente possibile.
F: “Perché ora sono tanto solo e se ascolto la musica felice mi fa sentire ancora più solo: non credo esista più la felicità per me. Mi sembra che anche quelle canzoni non sono più per me, che sono solo per gli altri”.
Incontravo quell’uomo durante una crisi depressiva, per cui potevo comunque sperare che non l’avrebbe sempre pensata così ma sentivo che c’era qualcosa di vero e mi fece molta tristezza. In effetti, quando si è sprofondati in una sofferenza e in una grande solitudine, la felicità degli altri può ‘suonare’ come un insulto. Sentire una canzone felice può davvero acuire la sensazione di essere “fuori tono”, fuori dalla sintonia con l’umanità.
Mi disse che ora ascoltava solo musica triste, per sentirsi in compagnia.
Comprendevo che avesse bisogno di poter sentire che qualcuno, nel mondo, almeno una volta avesse vissuto le sensazioni che lo invadevano.
Anche questo era un uso medicale della musica ma presentava un certo grado di pericolo. Senza alcuna compagnia, cioè se nessuno si fosse fatto avanti a dire che in effetti quell’emozione poteva essere compresa, la sola sintonia affettiva, ma senza legami, avrebbe rischiato di essere una validazione perpetua: il rischio era una cavalcata verso lo sprofondo.
Pensai così di far sentire al paziente che avevo ricevuto il messaggio (Winnicott, 1969).
A.”They’re writing songs of love, but not for me” dissi, avendo capito che quel signore ne sapeva di Jazz.
Con una commozione sincera mi rispose “A lucky star above, but not for me[1]”. Mi sorrise e ondeggiò leggermente la testa come se stesse finendo di cantare la strofa.
Parlammo di musica durante tutto il processo di mappatura delle sue reti sociali. Con un po’ di fatica si accorse che qualcuno attorno a lui c’era: un fratello, una tutrice, qualche amico, la vicina di casa.
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[1] “But Not for Me”, di George Gershwin e Ira Gershwin (1930)
Al secondo colloquio mi chiese se poteva dirmi chi fossero i suoi cantanti preferiti.
“Volentieri” dissi con curiosità.
Sembrò ravvivarsi e, con voce ispirata cantilenò “Sul trono delle mie preferenze, ci sono e resteranno sempre…” e qui fece una lunga pausa di suspense.
Si spinse leggermente indietro con la sedia, come a guadagnare il centro di una immaginaria scena. Proiettò in alto le braccia e la testa, come si stesse tuffando verso il cielo, e poi disegnò un arco con le mani, come stesse veramente nuotando, mi piantò gli occhi negli occhi e trionfalmente sentenziò “Gli ABBA!”. Quella rivelazione era all’altezza di un musical di Off Broadway.
Il nostro primo colloquio aveva rievocato qualche stilla vitale, non priva di toni maniacalizzati, ma aveva anche rivelato quanto, sotto la patina monotona della grave cronicità psichiatrica, quest’uomo rimanesse aggrappato ad una certa sopravvivenza desiderante.
La vita, lo sappiamo, può bruciare chi ha una pelle psichica sottile, per questo ogni scintilla evocata va poi resa pensabile. Questa volta però, non conoscevo neppure una canzone poiché degli ABBA sapevo veramente poco. Avevo in mente qualche marcetta e qualche video con vestiti glitterati. Avrei voluto potergli offrire una compagnia migliore, soprattutto visto che aveva atteso a lungo per parlarmene, ma potei offrirgli solo la mia ignoranza e la mia curiosità.
Gli chiesi come mai questo gruppo fosse così importante e se avesse qualche canzone da consigliarmi.
Mi sorrise come un bimbo felice di presentare il suo eroe preferito. Ma quando cominciò a parlare non sentii affatto che era un bambino né una star del varietà: mi trovai, invece, di fronte ad un vero esegeta.
Per prima cosa mi spiegò che tutto quello che avevamo detto sull’uso medicale della musica, sfruttando emozioni opposte o identiche, non poteva valere per gli ABBA, perché le loro canzoni erano troppo complesse.
Risposi che li dovevo avere sottovalutati perché, nella traccia che avevo in memoria, mi sembrava che facessero canzoni molto allegre, da festa d’estate.
F: “Non si faccia trarre in inganno! Dottoressa, bisogna ascoltare tutto non solo l’allegria!”.
A: “Sono tutta orecchie” dissi e lui cominciò a raccontarmi.
F: “Per prima cosa bisogna ascoltare anche le parole”. Mi spiegò che le canzoni degli ABBA avevano musiche scanzonate, con arrangiamenti anche danzerecci, ma che i loro testi erano sempre molto tristi.
F: “Prenda ad esempio ‘Mamma mia!’!”
Mi spiegò che la canzone parlava di una persona che si ritrova davanti il suo ex amante. L’emozione era così forte da far ripartire nella donna, tutta una serie di ricordi e sensazioni su come quella storia d’amore fosse stata sempre fonte di incertezza ma anche di eccitamento. Mentre il paziente descriveva la canzone mi sembrava di poter vedere una storia di dipendenza affettiva. Ora non importa se potesse essere anche la sua: di certo mi svelava la profondità di una canzone che avevo totalmente snobbato.
F: “Ha sentito come batte il cuore fin dall’inizio della canzone? La cantante non è contenta di ricaderci in questo amore!” Mi spiegava con una splendida quota di proiezione ma anche di acutissimo ascolto.
A: “Ah no?” Gli facevo eco io, con l’aria della sirena dei mari del sud.
F: “Eh no!” E si mise a cantare una lunga strofa.
I’ve been angry and sad about things that you do
I can’t count all the times that I’ve told you we’re through
And when you go, when you slam the door
I think you know that you won’t be away too long
You know that I’m not that strong
F: ”La cantante detesta essere così debole ma non sa opporre resistenza. Pensa che sia il suo destino soffrire così. La cantante ha pietà di sé stessa. Si accorge di essere piena di desiderio e vorrebbe non provarlo più. La sua mente è piena di ricordi brutti ma non sa cosa farsene perché non è capace di dire di no. Gli manca così tanto quello di stare con lui che non le importa che il prezzo sia soffrire”.
Pensavo alla sua sofferenza, alla sua solitudine e alle moltissime cose intime che quell’uomo stava cercando di dire ad una semi-sconosciuta. Pensavo però anche a quanta compagnia gli facessero davvero queste canzoni. A quanto gli permettessero di sentirsi capito non solo nella tristezza ma anche nel tentativo di restare attaccato alla vita.
Mentre ascoltavo tutto questo, il paziente era già proiettato su un’altra canzone.
F: “E S.O.S.? Se la ricorda?” E mi declamò le prime strofe: “Where are those happy days? They seem so hard to find / Dove sono quei giorni felici? Sembra così difficili ritrovarli”.
Mi raccontava, attraverso quelle canzoni, il senso di solitudine e di rovina che erano il centro della sua condizione. Si commosse e mi disse che la cosa che lo colpiva di più delle canzoni degli ABBA era la loro capacità di parlare dei disastri.
A: “Eppure, dicevamo, che non sono semplici canzoni tristi”
F: “No! Quello è il miracolo!”. Mi spiegò una serie sterminata di dettagli musicali, di arrangiamento e di orchestrazione che non saprei assolutamente ricordare né ripetere ma ne uscii con l’idea che Benny Andersson[1] fosse un genio.
Il paziente mi spiegò che per lui non c’era nessun altro musicista che fosse riuscito a creare delle canzoni che ti fanno stare sia triste che con la voglia di fare festa.
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[1] Benny Anderssonn è un membro degli ABBA, musicista, compositore e arrangiatore delle loro canzoni.
Anni dopo ricordo di aver visto un documentario sugli ultimi giorni di Che Guevara, in cui venivano intervistati gli abitanti del villaggio in cui il Ché aveva passato l’ultima notte prima di venire ucciso. Raccontavano che c’era stata una grande festa con canti davanti al falò e che i combattenti avevano voglia di celebrare la vita forse proprio perché sentivano che erano in grande pericolo. Qualcuno aveva anche messo in relazione la canzone “Fernando” degli ABBA proprio con il ricordo di quella ultima notte del Ché.
Non ho mai trovato una conferma diretta da parte del gruppo svedese ma questa ipotesi mi ha sempre molto convinta. Non tanto per la verità storica, quanto perché il paziente che avevo incontrato, mi aveva spiegato esattamente questo: le canzoni degli ABBA sembrano fatue ma non lo sono, sembrano avere una nota emotiva ma ne hanno sempre molte di più. Infine, il paziente aveva portato la mia attenzione su una particolare amalgama emotiva che si crea nella mente quando si accostano contenuti tristi e forme musicali maniacali: come fare una festa il giorno in cui potresti morire.
Questa compresenza di opposti potrebbe essere giocata in vari modi: seguendo una scissione dell’io o una scissione degli affetti, creando cioè una bi-valenza in cui i vissuti sono compresenti ma non dialogano; oppure cercando di favorire la creazione di una rappresentazione psichica che renda visibile una ambi-valenza.
Sappiamo infatti che la ambivalenza è un fenomeno dei registri più evoluti, in cui l’io riesce a reggere, seppure a fatica, dei conflitti interni. La bi-valenza invece è un fenomeno in cui la Scissione (Searls, 1974) crea delle ideali camere stagne, in cui il conflitto non è vissuto mentre è presente una sorta di split in cui possono essere veri sia l’amore che l’odio, come verità assolute che non dialogano all’interno del soggetto (Benedetti, 1992)
Ovviamente più si soffre (anche per eventi della vita) e più c’è il rischio che una persona debba ricorrere a queste scissioni per sopravvivere al dolore psichico; sappiamo inoltre come ogni scissione-proiezione difenda l’Io ma al costo di impoverirlo progressivamente.
È in questo orizzonte, in cui è necessario comprendere anche umanamente la necessità di difendersi dal dolore, che il lavoro del clinico dovrebbe cogliere ogni occasione per facilitare una ambivalenza piuttosto che lo strutturarsi di una netta separazione tra le emozioni (Klein,1935).
L’arte è indubbiamente una grande occasione di rappresentabilità psichica anche di processi così complessi. La musica degli ABBA, mi insegnò questo paziente, aveva dunque la capacità di tenere assieme scene che, tenute separate, sarebbero state disperanti; se fossero state solo giustapposte sarebbero risultate incongrue; ed invece venivano armonizzate assieme in una maniera pensabile e creando un oggetto complesso in grado di compiere una integrazione delle parti.
Dopo quel colloquio mi trovai molte volte a chiedermi se la canzone che stavo ascoltando creasse una rappresentazione emotiva coerente o capace di integrazione: se fosse una canzone da usare come medicina per opposti (che offre all’ascoltatore una sintonia “semplice”) o se fosse una canzone da usare per contattare un oggetto interno complesso.
Quel paziente mi aveva regalato un grande dispositivo clinico; mi aveva anche donato una diversa libertà di ascolto. Come per le canzoni che amiamo, anche le sedute che amiamo vanno ricantate ogni tanto.
A Fernando e agli ABBA non posso che dire: “Grazie per la musica”.
Bibliografia
Benedetti G. (1992) “La psicoterapia come sfida esistenziale” trad it. 1997, Raffaello Cortina, Milano
Klein, M. (1935). A Contribution to the Psychogenesis of Manic-Depressive States. Int. J. Psycho-Anal., 16:145-174.
Searles H. F. (1965) Scritti sulla schizofrenia, tr. it. Boringhieri, Torino, 1974.
Winnicott, D. W. (1969). The use of an object. The International Journal of Psychoanalysis, 50(4), 711–716.
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