FIDUCIA E SOFFERENZA PSICHICA

Le dinamiche relazionali e intrapsichiche nella costruzione di un rapporto di fiducia con la persona sofferente

di Mario Magrini

FIDUCIA E SOFFERENZA PSICHICA
con la persona sofferente  di Mario Magrini
FIDUCIA E SOFFERENZA PSICHICA con la persona sofferente
di Mario Magrini

Il presente lavoro è parte dell’intervento che il dr. Magrini ha portato agli incontri culturali dell’ADVAR 2023.

L’ADVAR è una associazione, con base a Treviso, che dà assistenza ai malati terminali.

A partire dal 2016 organizza delle conferenze aperte alla popolazione per sensibilizzare sui temi legati alla cura.

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FIDUCIA E SOFFERENZA PSICHICA

“Le dinamiche relazionali e intrapsichiche nella costruzione di un rapporto di fiducia con la persona sofferente”

 

L’esperienza psichica della fiducia ha delle radici molto lontane nella storia dell’essere umano.

Essa si fonda nel rapporto tra il soggetto e la realtà nella sicura certezza di ricevere l’opportuna risposta ad un proprio bisogno o desiderio. Esprime un sentimento di sicurezza, tranquillità e speranza che deriva dal confidare nella risposta.

Ma, come vedremo ora, la costruzione dell’esperienza psichica della FIDUCIA, come elemento appartenente alla mente, inizia dalle prime fasi della vita umana.

 

Fattori di base (BISOGNI, LE TRACCE MNESTICHE, ANGOSCIA PRIMARIA)

Agli inizi della vita il neonato si trova nella condizione di assoluta dipendenza dall’oggetto primario ( la madre), ciò mette al centro  la funzione fondamentale della realtà esterna in quanto il b° dipende da essa per un lungo periodo.

Questa funzione dell’attività esterna si realizza attraverso il “pre—concern” , lo  stadio della pre-inquietudine : la madre ha una rappresentazione dei bisogni del b° prima che questi bisogni si manifestino. Ciò determina nel vissuto del neonato una sensazione di continuità della propria esistenza . Winnicott a tal proposito sottolinea  : “secondo noi la salute, nel primo sviluppo dell’individuo, va di pari passo con una continuità d’ esistenza. Lo sviluppo dell’insieme psicosomatico primitivo segue un certo corso purché non venga disturbata la continuità d’esistenza ( Winnicott, ‘58 ).

Dunque il “ pre-concern” garantisce la sensazione della propria continuità di esistenza.

L’altra funzione della realtà esterna è costituita dalla” preoccupazione materna primaria” (Winnicott 58),  che consiste nel garantire al bambino un ambiente              ( holding) di protezione .

Adesso nei primi approcci extrauterini con il b° la “preoccupazione materna primaria” permette alla m. di cogliere empaticamente i bisogni di lui come nessun altro può fare.

Per Winnicott la necessità di un buon ambiente, necessità assoluta all’inizio, rapidamente diviene soltanto relativa. La buona madre deve essere “sufficientemente capace”, ed in tali condizioni il lattante diverrà capace, grazie alla sua nascente attività psichica di sopperire alle occasionali non risposte – di lei – immediate.  La madre infatti cerca, nel corso normale delle cose, di non introdurre complicazioni maggiori di quelle che il b.o è capace di comprendere e di accettare (sopportare): in particolare ella cerca di evitare al suo piccolo coincidenze e fenomeni che egli non è ancora in grado di cogliere. In genere – dice Winnicott – si può dire che la madre fa in modo che il mondo del lattante sia il più semplice possibile.

Con questo “to hold” (sostenere , mantenere) , viene messa in luce l’aspetto essenziale – l ‘ unità della madre con il piccolo accudito

Fare le cose giuste al momento giusto, essere in sincronia con i ritmi del bo.

Ribble ha sottolineato che è per mezzo delle cure materne che il piccolo neonato gradualmente abbandona la tendenza innata alla regressione splancnico—vegetativa per raggiungere una maggiore consapevolezza sensoriale ed un maggior contatto con l’ambiente. (Vedremo più avanti la funzione della percezione come fattore legato alla fiducia).

In termini di energie o di investimento libidico ciò  significa che deve aver luogo un progressivo spostamento dell ‘energia pulsionale dall’interno del corpo (particolarmente degli organi addominali) verso la periferia. II cambiamento           dell ‘investimento predominante propriocettivo verso quello sensorio—percettivo della periferia (la buccia dell ‘IO corporeo come la chiamò Freud) è un fondamentale progresso nello sviluppo. Qui si innestano le prime tracce mnestiche delle due primordiali qualità degli stimoli (“buona” – piacevole/”cattiva” – dolorosa).

Dunque il b° con Io sviluppo dell’attività percettiva inizia anche a percepire la propria condizione di separazione. II risvolto psichico di queste prime percezioni è quello di una mancanza non modificabile, una mancanza che genera un bisogno al quale il neonato non è in grado di provvedere. Per il b° trovarsi con un vissuto di impotenza rispetto alla consueta onnipotenza è una esperienza in sé altamente drammatica. Nasce l’angoscia primaria che è costituita dalla perdita della percezione dell’oggetto.

Inizialmente il b° non sa che l’attesa sarà limitata (e la madre lo “sente”, infatti all’inizio la madre è pronta per l’allattamento prima che il bo chieda) e prova cosi una intensa angoscia.

La sofferenza sarà sopportabile solo dopo che il bo avrà fatto l’esperienza del ripetersi ciclico degli avvenimenti che lo coinvolgono e della ripetuta risposta-presenza della madre. Cioè quando nasce la memoria e la traccia mestica del soddisfacimento provato (Freud, 1911, pag. 455).

Così si potrebbe dire che “la nozione del tempo nascerebbe come difesa contro l’assenza percepita come interminabile” ( De Simone G., 1979, pag. 346).

Il ritmo sembra poter creare un discorso fra due estranei, creare un collegamento : pause, intervalli, contatti che nel loro ripetersi di giorno in giorno, apparentemente sempre uguali, si troveranno con il passare del tempo di fronte all’imprevisto ed alle trasformazioni. Potremmo dire che quest’ultimo passaggio avviene contemporaneamente al venir meno  della preoccupazione materna primaria. Ciò comporta  un confronto fra i ritmi innati del bo e quelli della madre: la loro non coincidenza porta alla comparsa di una mutua attesa, la FIDUCIA nella risposta dell’oggetto,  quando questa non è venuta ad associarsi  a disillusioni troppo forti e prolungate.

La madre diventa una esperienza non più completamente gratificante, essa si discosta dalla sincronia ritmica producendo con ciò delle frustrazioni, ma ora controbilanciate dalla capacità maturate dell’attesa.

Le frustrazioni, abbiamo visto, non dovrebbero mai  essere eccessive ( cioè superiori alla capacità del bo di sopportarle) ) ed è proprio in questa attesa che, grazie alle tracce mnestiche di esperienze piacevoli a carattere ripetitivo il b° ha fiducia verso la “risposta materna”.

 Il neonato però non è un partner passivo, ma partecipa all’interazione influenzando le modalità con cui riceve la risposta della madre. Egli, all’inizio, non è ancora consapevole di un legame causale fra il piacere ed essere nutrito; ma in breve tempo diventando familiare con i rituali della nutrizione, sensazioni che prima non avevano legami apparenti diventano modelli comportamentali associati ad una soddisfazione ripetuta nel tempo.

Quando il bambino riconosce il modello inizia a generalizzare una parte per il tutto; così ad es. parti della preparazione del pasto (suoni, posizioni, atteggiamenti) per il pasto stesso.

Questo rituale acquista man mano un significato condiviso tra madre e b°, entrambe “sanno” cosa accadrà di lì a poco. I rituali che organizzano l’esperienza producono cosi una forma di anticipazione e di attesa. Il rituale acquista  un senso nel ripetersi di un comportamento nel tempo, poiché la significazione accade solo in seguito, “guardando indietro”.

L’attesa  , dunque, è basata fortemente sulla memoria, e quindi si crea una premessa nel tollerare la frustrazione in derivazione del fatto che c’è una traccia mnestica che mi ricorda  qualcosa di piacevole che è avvenuto, e questo mi permette   (in questo gioco  che viene ad esserci tra bisogno, frustrazione, allucinazione primaria che è legata alla memoria, la funzione della memoria che mi permette di tollerare l’attesa) di arrivare all’appuntamento con il soddisfacimento essendoci in mezzo qualcosa di nuovo, qualcosa di più elaborato di più complesso e che è molto importante,  che ha a che fare con il gioco tra memoria, attesa, tolleranza della frustrazione.

Su questo abbiamo osservato  che è implicito anche l’insorgere del senso del tempo nel bambino.

Questo processo che ora abbiamo descritto fa transitare il bambino dalla condizione psichica basta sul bisogno a quella più evoluta del desiderio.

Nel senso che il desiderio mette in contatto la propria fantasia con la realtà, fantasia- realtà.

Qual ‘ è la differenza fra il desiderio e il bisogno? E’ che il bisogno non ha una rappresentazione di collegamento, il bisogno è legato ad una sensazione.

Quando parliamo di bisogno parliamo di sensazione, e  le sensazioni sono delle alterazioni dello stato di base dell’organismo, vuol dire che qualcosa è cambiato altrimenti noi non abbiamo sensazioni.

 Il bisogno, non avendo rappresentazioni, è una componente che gioca sul versante piacere –dispiacere, sul versante delle sensazioni.

Quando noi abbiamo a che fare con questa sequenza, quando abbiamo a che fare con un disagio, abbiamo ad es. la fame, abbiamo la frustrazione, abbiamo la memoria di un’azione che mi dava soddisfacimento, che me la riproduco e che fallisce, ma la memoria è l’elemento rassicurante che mi permette di tollerare l’attesa, nel momento in cui questo elemento di soddisfacimento capita, appare un percorso diverso.  Non è più  quello di prima , non è più un livello sensoriale, è un livello rappresentazionale.

Perché in mezzo c’è la funzione ristrutturante dell’esperienza mnemonica.

 

Cosa sono le tracce mnestiche?

 L’esperienza mnemonica è l’esperienza in cui l’individuo usa le tracce mnestiche, cioè quando noi facciamo un’esperienza che sia percettiva, esogena o endogena (abbiamo percezioni interne e abbiamo percezioni esterne) la traccia mnestica è ciò che rimane di un’esperienza sensoriale che è stata capitalizzata dall’individuo e che pian pianino si sedimenta dentro di lui.

Voi capite allora che è molto importante da questo punto di vista la questione della sedimentazione delle tracce mnestiche circa l’aspetto fondamentale derivante dal fatto che all’interno della evoluzione delle relazioni dell’esperienza umana il bambino abbia delle esperienze dove le soddisfazioni siano più elevate delle frustrazioni-delusioni.

La traccia mnestica è l’elemento basilare che ha a che fare con la rappresentazione e il quantum d’affetto.

 

 Perché avviene il passaggio dal bisogno al desiderio?

 

Abbiamo detto che qualunque ecosistema relazionale tra la madre e il bambino non sarà mai perfetto, ci saranno sempre delle smagliature e degli elementi di incongruenza che portano comunque anche nella situazione più ideale a far sperimentare al bambino una relazione tra piacere- dispiacere, tra soddisfacimento – frustrazione.

Allora quando un bambino sperimenta la frustrazione, cosa succede?

L’organismo chiede aiuto, l’aiuto arriva, viene soddisfatto il bisogno, si chiude questo cerchio omeostatico e si ritorna allo stato di riposo.

Il principio di costanza viene realizzato e mantenuto.

Dopo un poco cominciano magari le colichette addominali salta per aria il principio di costanza il b° urla e via …l’oggetto soccorre il b° si ristabilisce il principio di costanza e via così.

 Ma nel frattempo che cosa si sedimenta nel bambino?  Si sedimenta questo passaggio all’interno del soddisfacimento-frustrazione, si sedimenta nella memoria il legame che c’è tra un’immagine che è legata ad un’esperienza motoria che a sua volta si collega ad una sensazione piacevole che a sua volta si esprime in un quantum di affetto positivo.

Da questo punto di vista noi abbiamo che si creano delle tracce mnestiche dentro al bambino che sono frutto dell’esperienza mnemonica che ha elaborato, che si è sedimentata dentro di lui e che gli dà la possibilità di tollerare la frustrazione e far generare la qualità psichica che si chiama attesaL’attesa, che all’inizio non è tanto fiduciosa, e non tanto gradita, piano piano diventerà un’attesa fiduciosa

La capacità di attesa, per la struttura dell’apparato psichico, è un salto notevole, l’attesa sostituendo l’allucinazione primaria consente all’organismo psichico di affrontare un disagio in un modo molto più complesso ed è un salto di qualità assolutamente importante per la sua funzione all’interno dell’economia dell’apparato psichico nello svolgimento del suo lavoro all’interno dei processi vitali.

Allora siamo arrivati  al momento dello sviluppo psichico in cui ( inserendosi nel gioco soddisfacimento-frustrazione) la traccia mnestica con un quantum di affetto positivo viene a strutturarsi come rappresentazione della realtà, non siamo più nel campo delle sensazioni: il bambino non sta mangiando, eppure, sentendo dei rumori di preparazione del pasto, la voce della mamma, che all’inizio non lo tranquillizzava affatto perché nella sensazione o gli dai la risposta o non si ottiene nulla, ad un certo punto attraverso l’elaborazione della capacità di tollerare la frustrazione attraverso la traccia mnestica e l’attesa il bambino converte quei segnali nell’immagine dell’esperienza positiva precedente che ha fatto, e quindi  si tranquillizza.

Arriviamo al desiderio: il desiderio è un’esperienza che fa da ponte tra la sensazione e la rappresentazione. Ho bisogno della sensazione come motore del desiderio, quindi il desiderio si aggancia alla sensazione, ho una sensazione , ho un’attività psichica che chiamiamo rappresentazione ed è fatta di una immagine più un quantum di affetto e ho una realizzazione.

Il desiderio, dunque, ha questi tre passaggi: parto da una sensazione, si inserisce il lavoro della rappresentazione e, ad un certo punto, ho la risposta.

Questo non è più un arco voltaico implica un processo psichico -mentale.

Questo processo psichico potremo dire che è il primo vero processo psichico.

Teniamo conto che la rappresentazione è figlia del coagularsi di: immagine più il quantum d’affetto, dove nell’immagine si coagulano le tracce mnestiche e l’attesa.

In altre parole la rappresentazione è figlia del lavoro tra le tracce mnestiche e l’attesa.

L’attesa e la FIDUCIA si fondano sulla rappresentazione del mio bisogno, in assenza di una presenza sensoriale.

 

Concetto di sicurezza e del relativo principio di sicurezza

Mi riferisco al processo della per­cezione che trasforma le sensazioni, prive di organizzazione, quali si originano dai diversi organi di senso, in percetti strut­turati e organizzati

L’atto della percezione è una vera e propria attività; si tratta cioè di un processo di padroneggiamento ad opera dell’Io mediante il quale l’Io tiene a bada gli eccitamenti/bisogni, vale a dire i dati sensoriali non organizzati, e si protegge così dall’essere sopraffatto traumati­camente. L’efficace attività percettiva è uno strumento di inte­grazione e si accompagna a un ben preciso sentimento di sicu­rezza, la cui presenza ci è così abituale da divenire qualcosa di scontato, come uno sfondo alla nostra esperienza quotidiana; tale sentimento di sicurezza non consiste nella pura e semplice assenza di malessere o di angoscia, ma possiede una ben precisa fisionomia affettiva nell’ambito dell’Io. Possiamo pensare che la maggior parte dei nostri comportamenti quotidiani ha la fun­zione di mantenere un minimo livello di sentimento di sicurezza; molta parte del comportamento normale diventa più comprensibile se la conside­riamo come tentativi dell’Io per preservare tale livello di si­curezza. E’ alla base dell’esperienza della FIDUCIA.

Sappiamo che l’atto di percezione costituisce un tentativo di aggiungere “significato” agli eccitamenti/bisogni in arrivo, nei termini dell’esperienza passata e dell’attività futura.

La attività della percezione modifica in modo sostan­ziale la forma e il contenuto delle nostre percezioni e che, nell’atto della percezione, segnali sgradevoli e minacciosi fiduciosamente cerchiamo di cambiarli, sulla base delle esperienze maturate precedentemente.

Le tracce mnestiche delle esperienze rassicuranti sperimentate e sedimentate in noi costituiscono un fattore di organizzazione qualitativa, che si poggia sui ricordi passati e sulla massa di concetti e schemi organizzati formatisi nell’Io; esso costitui­sce un quadro di riferimento interno attraverso cui viene va­gliato il mondo esterno, e che è essenziale a qualsivoglia atto di percezione.

La caratteristica fondamentale del processo percettivo è per­tanto la tendenza a organizzare e strutturare i dati in entrata, provenienti dagli organi di senso, in relazione al patrimonio  favorevolmente già sperimentato .

Quando parliamo di investimenti del mondo esterno o degli oggetti di quel mondo, ci colleghiamo a quanto detto sopra quando ci siamo soffermati  sul ruolo delle rappresentazioni che sono state man mano costruite a partire da successive espe­rienze del mondo esterno.

E’ un lavoro in progress lungo l’asse dello sviluppo.

Sappiamo che man mano che il bambino matura ed è in grado di esercitare con successo l’esame di realtà, si può pensare che le sue percezioni rispecchino in modo sempre più accurato gli eventi reali.

Lo svi­luppo delle capacità di percepire in maniera più differenziata e attendibile e lo sviluppo di un più accurato esame di realtà pro­cedono in parallelo.

Qui anticipiamo un pensiero che verremo a sviluppare fra poco:

nell’ambito del rapporto con la persona sofferente ci confrontiamo con le dinamiche regressive dettate dalla condizione psicofisica della persona.

Più la persona soffrente si trova nello stato di dipendenza dall’oggetto e maggiormente la percezione si appoggia, come vedevamo all’inizio, sull’atteggiamento rassicurante dell’oggetto.

La percezione della corrispondenza tra i bisogni e la risposta concorre allo stabilirsi, all’interno dell’Io di un sentimento di base, che si potrebbe definire come sentimento di essere in salvo o al sicuro.

Dal punto di vista genetico questo sentimento può considerarsi un derivato delle primissime esperienze di tensione e soddisfacimento; è un sentimento di benessere, una sorta di tono dell’Io, su cui è ancorata l’esperienza della FIDUCIA.

. È un sentimento che per la sua Qualità possiamo contrapporre allo stato affettivo dell’angoscia, che ne è il polo opposto.

Il concetto di sentimento di sicurezza, dunque, si costituisce, in forme rudimen­tali, dal momento delle primissime esperienze di soddisfacimento del bisogno. Successivamente, come abbiamo osservato, accompagna e co­lora le varie attività e strutture dell’Io e i diversi contenuti psichici; come parliamo di segnali di angoscia possiamo anche parlare di sviluppo di segnali di sicurezza, che hanno relazione, per esempio, con la consapevolezza di essere protetti e difesi dalla presenza rassicurante della madre( e più tardi dagli OPERATORI)

Va sottolineato l’aspetto positivo di questo sentimento e la sua esistenza come una sorta di costante sfondo affettivo a tutte le nostre esperienze.

Questi bisogni in arrivo vengono tutti organizzati e tenuti sotto con­trollo e in genere ne acquistiamo consapevolezza solamente quando i dati sensoriali non corrispondono alle nostre esperienze e alle nostre aspettative come, per esempio, quando al buio mettiamo il piede in una buca. In tale circostanza facciamo esperienza di un trauma momentaneo e di una riduzione di li­vello nel sentimento di sicurezza. In condizioni normali, tutta­via, l’esperienza dei nostri sensi è in armonia con quanto pre­vediamo in base al nostro modello mentale del mondo esterno, ai nostri schemi o quadri di riferimento psichici, sicché la no­stra esperienza coincide con le nostre aspettative.

I traumi, il pericolo e l’angoscia, di qualsiasi origine, la malattia possono quindi ridurre il livello di sicurezza.

È possibile che il modo più conveniente per aumentare il sentimento di sicurezza consista nel controllo e nella modificazione dell’attività percettiva.

Sì potrebbe arrivare a dire che in questo senso la percezione è al servizio del principio di sicurezza. Oggetti familiari e costanti dell’ambiente del bam­bino possono quindi essere carichi di uno speciale valore affet­tivo in quanto sono più facilmente percepiti: nel linguaggio corrente diciamo che sono noti, riconoscibili o abituali per il bambino. La presenza costante di oggetti familiari rende più facile al bambino mantenere il livello minimo di sentimento di sicurezza.

Nella condizione di malattia noi ripristiniamo questo processo

 

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ELEMENTI di TECNICA PSICOLOGICA  NELL’ INTERAZIONE   OPERATORE – PAZIENTE

 

 

Tutto ciò di cui ci siamo occupati fin qui è presente nell’interazione fra operatore e paziente sofferente e il suo legame nel creare una situazione di FIDUCIA.

Potremmo chiederci, alla luce dei concetti di “pre-concern”, di “preoccupazione dell’oggetto nei confronti del soggetto in uno stato di dipendenza”:

  • cosa significa occuparci della sofferenza (fisico – psichica) del malato?
  • cosa comporta questa esperienza?

 

Dobbiamo tener conto che ogni qual volta noi ci avviciniamo alla sofferenza le cose che avvengono dentro di noi, nella nostra mente, non sono semplici.

Se da una parte ci troviamo con il desiderio di aiutare la persona che soffre, da un’altra, questa situazione che ci coinvolge assai profondamente, solleva in noi delle difese (prevalentemente inconsce) che ci spingono, in modo più o meno intenso, a sfuggire da un coinvolgimento (che d’altra parte se assume invece un’intensità troppo forte comporta un danno per chi vuole aiutare e per chi riceve l’aiuto, come vedremo oltre).

Infatti, in via generale, aiutare una persona che soffre significa avere un ruolo delicato e assai importante.

Non sempre, quasi mai, il ruolo che ci viene attribuito dalla persona che soffre corrisponde alle nostre reali caratteristiche e possibilità.

Il sofferente, spesso, trasferisce su chi lo aiuta il ruolo di chi gli risolverà la sua sofferenza, indipendentemente dal ruolo reale che la persona svolge (sia essa medico, operatore ecc.). < ciò si può celare anche nelle più piccole richieste >

 

 

Per noi invece che riceviamo questo investimento tutto ciò comporta due vissuti:

  1. da una parte ci sentiamo coinvolti nel rapporto operatore – paziente, a causa della regressione del paziente attraverso la malattia, a rivestire un ruolo per così dire genitoriale (adulto-bambino )
  2. da un’altra sappiamo con realismo i limiti che abbiamo sia personali sia relativi alle situazioni specifiche a cui siamo chiamati a dare il nostro intervento

 

Ma è vero che siamo sempre così consapevoli?

A volte la richiesta, che ci affida un ruolo onnipotente, agisce da catalizzatore dei desideri impliciti nella natura umana, come ad es.  di essere capaci là dove altri hanno fallito.

L’impotenza del sofferente fa da contro altare alla proiettata onnipotenza di questi su chi si occupa di lui.

Questo si collega, a volte, con i nostri vissuti sottostanti di impotenza, anche reale, in cui ci veniamo a trovare nell’assistere un sofferente.

Allora per adempiere con sufficiente serenità questo ruolo di assistenza al sofferente è necessario che vi sia una chiarezza dentro di noi sulle connessioni esistenti tra identità personale ed il ruolo in cui ci troviamo:

così dovremmo chiederci: chi siamo per questa persona che soffre e che ora mi trovo ad aiutare?

  • ad es. un amico
  • un terapeuta
  • un assistente
  • un genitore ideale

 

Essere un operatore non ci esime dal fatto che abbiamo una responsabilità che viene prima di che cosa faremo… essa implica aver chiara una propria identità (che permetterà di gestire le cose di solito assai difficili, con un senso del limite).

 Quando ci chiediamo chi siamo per chi soffre bisogna tener presente la distinzione che facevamo sopra:

non sempre gli aspetti consapevoli nostri e di chi soffre coincidono con quelli inconsapevoli

I meccanismi di difesa (non solo in noi) sorgono quando gli aspetti consci si scontrano con quelli inconsci.

 

È per questo che bisogna elaborare   quelle connessioni che esistono tra identità personale e ruolo professionale.

Infatti quando noi ci rapportiamo ad una persona qualsiasi (ma la cosa diventa maggiormente più delicata più il nostro ruolo implica una dipendenza dell’altro da noi) le tematiche della nostra visione del mondo (weltanschauung) concorrono a determinare la nostra posizione relazionale con il sofferente.

In ciò vi è implicita la nostra storia, come siamo cresciuti, la nostra storia familiare, i genitori, le figure importanti della nostra vita.

Bisogna tener presente che non tutto quello che fa parte della nostra identità personale, se entra così di getto nella relazione con l’altro sofferente, può facilitare il rapporto, in quanto non si è sullo stesso piano di autonomia (di pensiero, di azione, di vita emotiva, ad es. noi possiamo fare a meno di lui.   Lui (a volte) no!).

 

Il presupposto per un iniziale minimo livello di alleanza di lavoro (in primo luogo da parte nostra) è che avvenga un esame di realtà (conscio – conscio)

 

        –       che cosa posso fare?   che cosa è bene che non faccia?

                per il suo problema ho qualche ruolo da assumere?

 

E l’esame di realtà permette di distinguere ciò che noi possiamo realmente con le nostre possibilità, da quanto ci viene addebitato e richiesto (conscio – inconscio)

Ma anche ci permette di distinguere le componenti consce reali da quelle più profonde (inconsce) di chi ci chiede aiuto.

Questo solleva in noi una reazione di difesa che chiameremo controtranslazione.

Questa reazione di difesa non sempre è un fatto psichico negativo, infatti attraverso questa modalità veniamo a rinforzare la funzione di salvaguardia della relazione al livello che è più utile per il sofferente e possibile per chi l’aiuta, e rende saldamente ancorata la dimensione della FIDUCIA a ciò che è possibile, evitando la idealizzazione che poi si tramuta, alla prima difficoltà, nella delusione, nella perdita di fiducia.

 

Sappiamo che il malato presenta delle reazioni psicologiche alla malattia

(malattia che implica sempre tre aspetti:                                                                            

  1. a) un determinato stato del corpo
  2. b) una data interpretazione del medico
  3. c) un determinato stato dell’animo del malato)

 

 

Teniamo conto che dal punto di vista psichico la malattia è percepita come uno stato negativo.

Infatti mentre la consapevolezza della salute si esprime fenomenologicamente come un senso di sicurezza, quella della malattia è fatta da una parte di sofferenza, e dall’altra di un senso di debolezza.

Ciò può portare a due sistemi difensivi opposti di resistenza:

 

A)    resistenza alla propria debolezza

Poiché l’accettazione della malattia è da un certo punto di vista la via scontata, resistere alla malattia significa dimostrare a sé stessi la propria forza

B)    l’ottimismo

alcune persone si rifiutano di accettare la malattia in quanto sopravvalutano la possibilità di uscire dalla malattia, anche in breve tempo

 

Per capire le reazioni del malato al suo stato di sofferente non è secondario ricordare come il soggetto è entrato nella malattia (aspetto nosodromico), cioè quando ha avvertito il suo stato di malato:

                                                                         

1)  si sentiva da molto tempo malato: – ha ignorato, negato

                                                                      – a poco a poco ha preso atto

 

 

2) stato acuto improvviso > urgenza > ricovero > degenza

 

  • urgenza in pericolo di morte > ricovero

 

Questi tre modi di entrare nella malattia sottendono:

  • tre tempi diversi di reagire
  • tre modi quindi di affrontare il nuovo stato
  • tre tipi di regressioni

 

La regressione sarà più marcata andando dallo stato 1 allo stato 3.

Ricordiamo rispetto a quanto abbiamo detto sopra che la malattia comporta sempre una regressione.

Regredire significa ritornare a livelli antecedenti dello sviluppo della propria personalità al fine di difendersi da un pericolo, da un senso di paura, un senso di impotenza, di insicurezza

 

 

Ci sono due modi di regredire:

  1. inizialmente c’è una regressione per poi organizzare una forma di difesa più idonea e più consona al proprio stato evolutivo.

Ciò prevede una regressione e poi una “progressione “

 

  1. una regressione che ha portato e fissato il soggetto in uno stato evolutivo

precedente.

E il soggetto non è capace, non se la sente di abbandonare un modo primitivo di far fronte alla paura, al senso di impotenza, di insicurezza

 

Ma come si può porre l’operatore di fronte al soggetto che comincia a vivere la sua malattia?

Più una persona accetta e collabora nel suo nuovo stato e più è facile per l’operatore esercitare il suo ruolo.

Viceversa si trova in difficoltà.

Perché?

Che cosa comporta per l’operatore vivere con una persona che regredisce accentuando gli stati infantili?

Significa vivere investimenti affettivi più profondi e più primitivi della nostra vita psichica, rispetto al ruolo che formalmente viene ad essere esercitato.

Allora si vive, da un punto di vista psicodinamico, una realtà emotiva che ha due componenti:

  • una manifesta relazione operatore – paziente
  • un’altra, latente adulto(genitore)-bambino

 

Quanto più si sarà capaci di recepire questa differenza che intercorre nella relazione tanto più il malato sarà aiutato ad abbandonare questo stato e si presenterà con un recupero del suo livello psichico ed emotivo.

 

Allora vediamo alcuni modelli di rapporto con la persona sofferente:

1)

Si distinguono tre livelli di rapporto tra chi interviene sul sofferente e lo stesso

  1. attività dell’operatore – passività del sofferente
  2. atteggiamento direttivo dell’operatore – collaborazione del paziente
  3. partecipazione collaborazione reciproca tra operatore e sofferente

 

Questo modello è utile per rendersi conto, durante le varie fasi della malattia, con le sue fasi più o meno acute,  di quale ruolo abbiamo e ci aiuta ad evitare di porci ad un livello nel rapporto non coerente con la situazione clinica del paziente  e  del suo stato di personalità       

 

2)

Si distinguono tre fasi

  1. fase dell’appello umano (identificazione)
  2. fase del distanziamento o dell’obiettivazione (dis-identificazione)
  3. fase della personalizzazione (identificazione più articolata)

 

  1. ho bisogno di te…eccomi
  2. di che cosa mi sto occupando e con che funzione
  3. questa persona che soffre la posso aiutare così e vedo la sua risposta

 

Elemento importante in questa dimensione relazionale: la distanza che esiste fra due persone, distanza che si modifica nel corso di una normale fase di assistenza.

Avvicinamento- comprensione della situazione- riavvicinamento (non fusione con il paziente)

 

 

 

3)

Rapporto interpersonale:  operatore  –   paziente

 

Modello tecnico di rapporto per evitare confusioni con il paziente:

 

 

                                                    Oggetto

 

 

 

 

                            Operatore                              Paziente

 

 

Evita un rapporto solo con l’oggetto della domanda

Evita un rapporto solo con il paziente, perdendo di vista perché si è lì

 

A fronte di questi modelli possiamo ora evidenziare alcune caratteristiche (tradotte dal ruolo genitoriale – coerente con la situazione di regressione) necessarie a condurre la relazione in modo corretto

 

1) capacità di contatto empatico con il sofferente

         cioè di mettersi nei panni di quest’ultimo immedesimandosi consapevolmente con il suo punto di vista, e cercando di sperimentare nel proprio interno quello che egli sta presumibilmente vivendo.

In questa operazione, fondamentalmente emotiva ma anche di pensiero, avviene un rimettere in gioco il nostro mondo interiore, la nostra storia.

Certe situazioni possono causare un eccessivo rivivere esperienze emotive del passato e possono dunque disturbare un’autentica empatia.

Esperienza vuole che si impari che non possiamo assistere tutti nello stesso modo perché in ogni specifica situazione mi trovo coinvolto in modo differente.

Quindi non ci si deve spaventare se con alcuni ci viene più spontaneo rapportarci con altri meno.

 

2)capacità di distinzione personale

consiste nella funzione di non perdere la distinzione rispetto alla persona che soffre, di non annullare le differenze.

Questo non è spontaneo e scontato, in quanto si devono fronteggiare sia nel proprio interno sia all’esterno tendenze che portano   al confondersi degli ambiti di vita.

Se diamo molta importanza alle nostre reazioni con il sofferente che ci chiede aiuto (ancora di più se siamo noi che ci proponiamo per un aiuto) è perché avvengono delle esperienze emotive intense di tipo transferale.

Il transfert lo possiamo definire come l’emersione del passato nel presente, il trasporre aspetti del passato nell’oggi.

Sebbene il transfert abbia a che fare con la regressione, essendo investite qualità di inappropriatezza, irrazionalità e infantilismo, esso è di fatto parte di ogni relazione.

Ogni relazione, infatti, è composta di elementi attuali e reali e di elementi transferali.

Ora sappiamo che ci sono certe condizioni che favoriscono l’insorgere di un forte transfert: periodi in cui avvengono grandi cambiamenti, condizioni di totale incapacità ad agire, impotenza e frustrazione.

Le reazioni spontanee e irrazionali dell’adulto a questo transfert le chiamiamo controtransfert.

Una comprensione di ciò che appartiene alla situazione reale e di ciò che vi viene trasferito da situazioni del passato aiuta l’operatore a non cadere troppo in reazioni controtransferali .

Chi aiuta il sofferente è importante che riconosca il controtransfert come parte inevitabile del suo lavoro e invece di negarlo o di razionalizzarlo (v. frasi tipo: “non potevo che dire così…non potevo che fare così! “) conviene che venga utilizzato per rendersi conto che la situazione presenta alcune difficoltà non previste, che la situazione richiede delle accortezze e degli aggiustamenti. (v.  riprendere la distanza giusta dal sofferente, quando essa si altera troppo).

 

 

LA FUNZIONE del GRUPPO

Qui si inserisce, a mio avviso, la funzione del gruppo di appartenenza degli operatori, con la sua funzione primaria di sostegno.

Gruppo che viene a rappresentare il luogo psichico oltre che reale dove un operatore si trova a condividere il lavoro dei colleghi e a sentire che viene condiviso il proprio.

Nell’attività di assistenza al sofferente tante esperienze possono essere fatte che esigono delle risposte ed elaborazioni, a cui da soli non sempre si riesce effettuare:

  1. ad esempio

–    la delusione

     –      il ricatto

     –      rapporti conflittuali tra famigliari – sofferente – ruolo dell’operatore

     –       sentirsi scaricata sulle spalle una situazione grave in modo totale

     –       la solitudine

     –    “e adesso che cosa faccio ? “

 

Chi lavora nel campo della sofferenza è partecipe e osservatore allo stesso tempo : ovvero è parte integrante del fenomeno di cui si occupa.

Egli stesso ne è coinvolto e la propria posizione, abbiamo visto, che se sul piano esterno si basa su un ruolo che è ben definito e circoscritto  per un altro verso, sul piano interno, egli rappresenta tante persone e realtà nello stesso tempo.

Questo aumenta l’importanza di quanto dicevo all’inizio sulla definizione del proprio ruolo e sulla consapevolezza della propria “ identità professionale “.

Osserviamo dunque un’altra funzione del gruppo:

spesso ci troviamo da soli con la persona che soffre. Questo comporta la condizione che non sempre si è in grado di elaborare da soli tutto quello che (ci) succede   all’interno della relazione.

È per questo che si ha bisogno in alcune situazioni di ampliare la dimensione pensante in una situazione collettiva.

Un gruppo, così necessario, non può che basarsi su un funzionamento elastico e tollerante tra i membri del gruppo, di modo che si realizzi una coesione di gruppo (che è la risultante di tutte le forze che agiscono su tutti i membri per trattenerli nel gruppo).

La coesione aiuta al formarsi di un linguaggio comune (più che una lingua comune).

La possibilità di condividere con gli altri un luogo di riflessione sui molteplici aspetti dell’esperienza con chi soffre permette a ciascuno di allargare l’ambito di visuale della singola relazione, di recuperare il contesto e le variegate relazioni che intrecciano fra di loro.

Il gruppo, dunque, nel permettere una riflessione “sul lavoro fatto “o che si intende fare, esplica una funzione di contenimento nei confronti della fatica e a volte dell’ansia che il lavoro di stare vicino a chi soffre comporta.

 

Conclusione

La FIDUCIA nasce da modalità interattive sperimentate molto precocemente nella vita umana, in cui la percezione della realtà ha un ruolo centrale basato sulla relazione con l’oggetto e la risposta ai bisogni che il soggetto riceve.

Lungo l’asse della vita, nel momento della sofferenza, vengono a ripresentarsi le esperienze e le condizioni sperimentate nel nostro passato che ripropongono la dimensione di un rapporto di dipendenza sostanziale dall’oggetto.

La Fiducia è fondata su quella esperienza che Freud nel Progetto ha descritto come “L’INTENDERSI”, ovvero quella situazione in cui il soggetto impotente di fronte al suo bisogno riceve una risposta specifica che soddisfa questo suo stato.

Abbiamo osservato come la costanza della relazione e la sua coerenza forniscano gli elementi strutturanti perché il soggetto formi delle rappresentazioni rassicuranti che lo portano all’attesa fiduciosa nei confronti della risposta dell’oggetto.

Ci siamo occupati della relazione operatore – paziente e delle articolate dinamiche che vi intercorrono e quanto sia importante per garantire un rapporto fiducioso da parte del paziente che l’operatore sia consapevole di queste dinamiche.

Da ultimo ci siamo occupati della funzione del gruppo degli operatori come strumento di elaborazione delle dinamiche operatore – paziente e come “luogo” che consente il mantenimento della FIDUCIA del paziente verso chi lo assiste

 

 

 

Mario Magrini, Venezia
Centro Veneto di Psicoanalisi
 

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