DUNQUE SONO MALATI?

L'importanza della psicoanalisi nella perizia psichiatrica

di Massimo De Mari

LO STATO DELL’ARTE DELL’ASSISTENZA PER I “FOLLI-REI”

Il recente, doloroso, episodio dell’aggressione mortale subita dalla psichiatra di Pisa da parte di un suo paziente, gravemente malato, ci mette ancora una volta di fronte al tema della gestione e della cura dei pazienti affetti da patologie psichiatriche gravi che hanno anche comportamenti devianti e diventano responsabili di aggressioni e reati violenti, i cosiddetti “folli-rei”.

Come è noto in Italia, diversamente da altre realtà sanitarie sia in Europa che in altri paesi extraeuropei, una serie di leggi (la prima, nota come “legge Basaglia”, del 1978, l’altra, nota come “legge Marino” del 2008) ha portato alla chiusura sia degli Ospedali Psichiatrici (O.P.) che degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.).

Come spesso succede nel nostro paese, alle decisioni giuste in via di principio (sia gli uni che gli altri erano strutture ormai fatiscenti in cui non si metteva in atto niente di terapeutico) non sono seguiti i fatti, cioè la possibilità che i pazienti più gravi e cronici, per cui sarebbe stata necessaria comunque un’assistenza istituzionale, fossero inseriti in strutture territoriali diverse, più adatte all’assistenza e alla cura, oltre che al contenimento.

Nel caso degli O.P. questo è avvenuto, con drammatici ritardi che hanno creato profondo disagio ai pazienti e alle famiglie, oltre che agli operatori, con la creazione dei Dipartimenti di Salute Mentale, dei C.S.M., delle comunità di recupero e altre istituzioni simili (case famiglia, ecc.).

Nel secondo, la prospettiva di vedere sostituiti gli O.P.G. con le R.E.M.S. (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) si può dire ancora in alto mare.

Fino ad oggi, secondo i dati del Ministero della Giustizia, ne sono state allestite una trentina in tutta Italia. Per restare solo nell’ambito del Triveneto se ne contano 3 in Friuli Venezia Giulia (1.200.000 abitanti), 1 in Trentino Alto Adige (542.000 abitanti) e solo 1 in Veneto (4.800.000 abitanti), ciascuna delle quali può ospitare fino ad un massimo di 40 pazienti.

Se pensiamo che al momento della loro chiusura in Italia esistevano 6 O.P.G. che avevano una capienza complessiva di circa 1400 posti letto, è facile capire come l’attuale recettività di circa 800 posti equivalga a poco più della metà di quella precedente.

Il cartello affisso sulla porta del reparto dopo l'omicidio della Dr.ssa Capovani

LA PERICOLOSITA’ SOCIALE

 

Da sempre la società vive il “folle” come un pericolo. È ormai una storia dimenticata quella delle “navi dei pazzi” che tenevano alla larga dai centri abitati le persone che mostravano segni di disagio psichico, ma ancora oggi sono visitabili le isole (come San Servolo e San Clemente nella laguna di Venezia) dove preferibilmente, con lo stesso criterio, venivano costruiti gli Ospedali Psichiatrici.

E non è passato molto tempo da quando è stata abolita la definizione di “pericoloso per sé e per gli altri” che bollava con uno stigma indelebile, negli atti giudiziari e nelle cartelle cliniche, il malato di mente che si era reso responsabile di comportamenti aggressivi.

Oggi la valutazione delle persone che si rendono responsabili di reati violenti contro le persone, attraverso comportamenti che suggeriscono la presenza di una patologia psichiatrica, viene effettuata attraverso la perizia psichiatrica che deve decidere se quella persona, al momento del fatto, era “capace di intendere e di volere” e se sia, in virtù di una eventuale riscontrata problematica psichica, “pericolosa socialmente”.

E’ importante sottolineare che il termine “pericolosità sociale” si applica solo in pochissimi casi alla malattia mentale, cioè nei casi in cui sia presente una particolare forma di grave psicosi (in genere del tipo paranoico, quello, per intenderci, che sembrerebbe affliggere il paziente che ha aggredito la psichiatra di Pisa) o un altrettanto grave e specifica forma di depressione (spesso del tipo bipolare).

Solo in questi casi infatti si trovano più frequentemente situazioni in cui si verificano aggressioni violente, o agiti etero/auto aggressivi (omicidi-suicidi).

In altri casi, ormai considerati anche dal D.S.M. (Manuale Statistico Diagnostico delle malattie mentali) nel novero delle patologie psichiatriche, parliamo di gravi Disturbi di Personalità in cui ritroviamo lo stesso rischio di comportamenti etero-lesivi nel range che va dalla struttura borderline a quella più francamente psicotica, passando attraverso le problematiche più chiaramente antisociali e di dipendenza (droghe e alcool) che spesso slatentizzano situazioni di tensione interna e portano a quelle forme di cosiddetto “discontrollo emotivo” all’origine delle situazioni violente.

 

ESISTE UNA CURA O BUTTIAMO VIA LA CHIAVE?

Se parliamo di malattia dobbiamo però parlare anche di cura e la cura comincia con la perizia psichiatrica che viene disposta in fase processuale e con la conseguente sentenza del tribunale che dovrà decidere se quel comportamento deve essere considerato conseguenza di una malattia psichica e quindi non sia punibile o se la persona, al momento del fatto, si rendesse conto delle conseguenze dei suoi comportamenti (capacità di intendere) e fosse in grado di autodeterminarsi (capacità di volere). La perizia cioè dovrà verificare che né la prima né la seconda siano state condizionate da stati patologici psichici (deliri, allucinazioni, gravi stati depressivi) o da deficit di tipo psico-organico, in cui le patologie psichiche siano cioè conseguenza di gravi malattie organiche sottostanti (malattie dismetaboliche, patologie tumorali o vascolari, ecc.). 

È difficile per la gente comune, soprattutto in casi come quello di Pisa che colpiscono in maniera così violenta l’immaginario, ragionare in termini di assoluzione dei responsabili. Nei commenti che si leggono sui giornali e sui social, permane viva la tendenza a rimettere sulle navi dei pazzi o a relegare in fortezze impenetrabili sulle isole, buttando via la chiave, gli autori di questi fatti dolorosi e inspiegabili per la comunità.

Per chi si occupa professionalmente di malattia mentale, è invece spesso evidente come in certi casi, la molla che spinge l’individuo a compiere gesti violenti è spiegabile (e quindi giustificabile) sulla base di meccanismi intra-psichici complessi che la psichiatria e la psicoanalisi ci permettono di capire e di trattare, in certi casi con buone prospettive di cura, in altri perlomeno, con l’intento di prevenire il ripetersi di comportamenti distruttivi.

Ma per fare questo ci vogliono strutture adatte, non possono essere sufficienti i reparti di diagnosi e cura degli ospedali, che devono coprire con pochissimi posti letto i bisogni di una popolazione molto ampia né le attuali R.E.M.S. che rappresentano un presidio eccellente ma, come abbiamo visto, sono troppo poche e quindi non sono in grado di accogliere la domanda.

L’alternativa, che di certo non si può considerare terapeutica, è il carcere dove, per le dinamiche ancora prevalentemente afflittive piuttosto che riabilitative che lo caratterizzano, sussiste già il rischio che le persone che vi entrano possano sviluppare problematiche psichiche (i cosiddetti “rei-folli”). Chi entra in carcere con una problematica psichiatrica già definita non potrà dunque che veder peggiorare le sue condizioni, nonostante gli sforzi che la sanità pubblica mette in atto quotidianamente all’interno delle strutture carcerarie.

Attualmente, all’interno della popolazione carceraria, la percentuale di ristretti affetti da problematiche psichiatriche di vario genere oscilla intorno al 20 % del totale, rappresentando quindi una percentuale altissima che costituisce, in pratica, la popolazione residente nei vecchi O.P.G..

Nel Regno Unito[1], tanto per fare un esempio vicino a noi, gli Ospedali Psichiatrici non sono mai stati chiusi ma mantenuti su standard terapeutici adeguati, per tutti quei casi cronici che non hanno alternative sul territorio. Per quanto riguarda l’approccio alle problematiche psichiatrico-forensi esiste a Londra un ambulatorio pubblico, la Portman Clinic in cui vengono inviati gli adolescenti segnalati dai tribunali per comportamenti devianti. Dal punto di vista ospedaliero invece esistono strutture psichiatrico-forensi che si differenziano in base a tre livelli di pericolosità sociale (Basso-Medio-Alto) a seconda del tipo di problematica psichiatrica diagnosticata e del tipo di reato.

 

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[1]    De Mari M. (2018) “L’Io criminale” – Alpes

PSICOANALISI DEL DELIRIO

 

Uno dei sintomi psichici che sono più frequentemente alla base di comportamenti aggressivi è il delirio, un meccanismo intrapsichico che, nelle parole di Zapparoli[1] (1967), si struttura “…a seguito di modificazioni che si realizzano a livello degli istinti, delle difese, degli investimenti oggettuali, dei processi di identificazione, oppure, in un contesto più generale, a seguito delle modificazioni delle funzioni che di norma vengono esercitate dall’Io e dal Super-Io”.

Potremmo dunque dire che il delirio si costituisce come un meccanismo di difesa patologico di fronte ai compiti evolutivi, rispetto alla realtà, che l’Io non riesce a sostenere.

Il fatto che assuma caratteristiche di un tipo invece di un altro dipende dalle “vicissitudini” che, sempre nelle parole di Zapparoli, “…costituiscono il lavoro svolto dallo psichismo inconscio, preconscio e cosciente allo scopo di raggiungere e di mantenere delle posizioni difensive patologiche ben precise”.

Questa teoria del delirio fa parte di quelle cosiddette “continuiste” e ricalca il modo con cui Freud[2]

(1910) spiega la malattia di Schreber come dovuta ad un conflitto omosessuale infantile che si manifesta con queste sequenze: conflitto intrapsichico, angoscia, proeizione all’esterno e regressione ad uno stadio di fissazione precedente”.

In questo caso, sottolinea De Masi[3], si può considerare il delirio “…alla stregua di un sogno e lavorare per cercare di codificarne il significato implicito”.

Le teorie “discontinue” considerano invece il delirio come un’esperienza dissociativa, non integrabile né trasformabile (il delirio come la costruzione di una realtà dissociata) per cui “…viene considerato come una pericolosa costruzione parassitaria da indagare come tale per contenerla e trasformarla o – come propone lo stesso De Masi – per “decostruirla”.

Molto ci sarebbe da dire dunque su quanto lavoro terapeutico sia possibile fare, grazie ad un approccio psicoanalitico, anche in situazioni in cui si può avere la sensazione di una situazione patologica cronica strutturata.

 

[1]    Zapparoli G.C. (1967) “Psicoanalisi del delirio” – Bompiani

[2]    Freud S. (1910) Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (caso clinico del presidente Schreber) – Bollati Boringhieri. Opere (6)

[3]    De Masi F. (2012) Lavorare con i pazienti difficili. – Bollati Boringhieri.

PROSPETTIVE FUTURE

Ma molte cose devono cambiare nella cultura psichiatrico-forense a partire dal concetto stesso di perizia psichiatrica che potrebbe e dovrebbe arricchirsi dell’approccio psicoanalitico e non limitarsi alla diagnosi statistica codificata dal D.S.M. ma tenere in sempre maggiore considerazione la storia personale e le dinamiche intrapsichiche dell’autore di reato.

Com’è noto oggi non sono ammesse nelle aule giudiziarie né la perizia psicologica né quella criminologica (che darebbe la possibilità di analizzare anche le circostanze legate alla tipologia del reato e di dare un significato al percorso criminogenico e criminodinamico legato all’evento).

È chiaro che se cambiano le premesse, cioè la diagnosi, e si pongono basi più solide al trattamento (maggior presenza di strutture e personale sul territorio, integrazione dei vari presidi attraverso forme di collaborazione “in rete” che consentano di seguire gli individui problematici e non abbandonarli a sé stessi o alle famiglie), la possibilità di prevenire eventi drammatici come quello di Pisa aumenterebbe esponenzialmente.

Va in questa direzione il progetto di un “Manifesto della salute mentale” a cui anche la Società Psicoanalitica Italiana ha aderito, che si propone di trovare questa forma di collaborazione tra tutti gli operatori della salute mentale, sia di formazione psichiatrica che psicoanalitica

Massimo De Mari, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

massimodemari@gmail.com

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