Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Elisabetta Marchiori
Titolo della miniserie: “Django”
Dati: direzione artistica di Francesca Comencini; creatori Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli; regia di Francesca Comencini, David Evans, Enrico Maria Artale; Italia-Francia, 2023, 10 episodi, Sky.
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=XeRf2tvCndA&ab_channel=Sky
Genere: western, drammatico
“Non è coraggio, è quello che sta dall’altra parte dell’inferno”
(Sarah)
Sono cresciuta e sto invecchiando con “i film di cowboys” di Ford, Corbucci, Leone, Pekinpath, Eastwood e poi Tarantino, per citare (a ruota libera) alcuni dei più grandi registi, sarebbero troppi i titoli … mi vengono in mente due film recenti “La ballata di Buster Scuggs” (2018) dei fratelli Coen e “The Sisters Brothers” di Audiard (2018).
Mio padre adorava “Quel treno per Yuma” (1957) di Daves, e mia madre quel Trinità, che ha fatto la fortuna di Barboni, interpretato da Terence Hill, con quei suoi occhi azzurrissimi come quelli di Franco Nero. Ricordo che, tornati dal cinema, mio fratello pretendeva (e otteneva) di cenare con fagioli stufati.
Alla 78 Mostra del Cinema di Venezia ho visto uno straordinario documentario “Django & Django” di Luca Rea (ora su Netflix) dedicato a Corbucci con protagonisti, tra gli altri, Tarantino e Franco Nero; alla 79 Mostra, restaurato, mi sono goduta “Canyon Passage” (1946) di Tourneur, che Scorsese ha definito, a ragione, “uno degli esempi più misteriosi e squisiti del genere western mai realizzati” e “Sergio Leone – L’italiano che inventò l’America”, di Francesco Zippel, Nastro d’Argento come Miglior Documentario dell’anno 2023 (su Sky e Now).
Tutto questo preambolo (che può dare suggerimenti per visioni estive) è per rendere conto del mio entusiasmo quando mi hanno fatto scoprire la serie “Django” (Sky) di cui è direttore artistico e regista di quattro episodi Francesca Comencini, che ha ricevuto un premio speciale ai Nastri d’Argento.
Responsabili, cui va la mia gratitudine, sono stati Antonio Buonanno assieme ad Alessandra Di Giacinto e a Daniela Di Sante, curatrici dell’evento “Cinema e Psicoanalisi” dal titolo “Vite al limite: l’uomo nasce a fatica” organizzato i primi di luglio a Francavilla a Mare (CH) dall’A.S.I.P.P. (Associazione per lo studio e l’intervento della psicoterapia psicoanalitica), che mi hanno invitata a discuterne insieme a loro e alla regista, al produttore italiano Riccardo Tozzi, a Luca Briasco, editor di Minimum Fax ed Enrico Perilli Presidente dell’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi d’Abruzzo (leggi report dell’evento)
Il titolo è un verso tratto dalla poesia di Leopardi Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, che interroga sulle pene e sui tormenti dell’umana esistenza sin dal suo principio, del bisogno dell’uomo di essere consolato, sostenuto, amato durante la vita. I personaggi di questa serie, che è dedicata a Sergio Corbucci e liberamente ispirata al suo “Django” (1966), interpretato da Franco Nero (che ha concesso un cameo), sono uomini e donne che hanno subito perdite e vissuto eventi traumatici devastanti: è concessa loro una seconda possibilità, una riparazione dei legami spezzati, il recupero della memoria e la reintegrazione dalla dissociazione? Ognuno di noi, guardando la serie, può trovare le sue risposte, nella profondità con cui Comencini ha delineato i suoi personaggi e nelle dinamiche messe in gioco.
La serie è ambientata in Texas (interpretato da una convincente Romania), alla fine della Guerra Civile americana. John Ellis (Nicholas Pinnock), un ex-schiavo, ha fondato in un cratere roccioso New Babylon, una città che accoglie chiunque condivida l’utopia di una società giusta, dove gli uomini siano liberi e uguali. È qui che arriva Django (Matthias Schoenaerts), seguendo indizi lasciati dall’unica sopravvissuta della sua famiglia, sterminata, gli ha detto un prete (Franco Nero), dagli indiani. Si tratta della figlia Sarah (Lisa Vicari), che sta per sposare Ellis, suo sedicente salvatore quando era bambina. Ma Elisabeth Thurman (Noomi Rapace), “la Signora” che controlla la vicina città di Elmdane, sostiene che quella terra apparteneva al padre e, quasi in un delirio religioso, vuole cacciare “i peccatori” e organizza azioni punitive insieme ai suoi scagnozzi sempre mascherati di nero. Django è un uomo stanco anche di cercare vendetta e si trova, suo malgrado, coinvolto nel conflitto tra Ellis e Thurman, entrambi eredi di segreti transgenerazionali inconfessabili e spinti da motivazioni che la loro narrazione nasconde, piuttosto che disvelare.
Quello — il disvelare — spetta agli occhi, agli sguardi, che Comencini inquadra continuamente, in primo piano: quelli pieni di terrore che assistono ai massacri, quelli stanchi di chi non ha più nulla da perdere, quelli ambigui, quelli ciechi, quelli sfuggenti e quelli infervorati dalla rabbia e dalla vendetta. Poi ci sono quelli che prima credevano di aver visto qualcosa, ma dopo vedono altro: si smantellano le difese dissociative innescate dal trauma, il velo della menzogna cade, e nulla è più come prima. Quello che non era pensabile può essere finalmente conosciuto.
La visione intensiva dei dieci episodi mi ha trasportato in un altrove che mi era tuttavia estremamente familiare, riportando a galla ricordi, attivando associazioni libere, riconoscendo scenari già interiorizzati, oltre alle evidenti “citazioni”, non solo tratte da film di genere western. C’è la scena di una festa che mi ha ricordato “Eyes Wide Shut” (1996), di Kubrick, uno dei registi che amo di più, e alcune sequenze che mi hanno riportata a “Brokeback Mountain” (2005) di Ang Lee, per fare solo un un paio di esempi.
Quello di Francesca Comencini è un modo di fare cinema che ha la caratteristica di essere insaturo, di consentire allo spettatore di conservare una sorta di attenzione fluttuante, che si aggancia a un elemento della storia che corrisponde a un elemento interno dello spettatore, stimolandone le funzioni del pensiero. La regista usa un tempo narrativo con accelerazioni e frenate che sembrano correlate a tempi interni dei personaggi e alle dinamiche relazionali complesse che li legano. Sono personaggi intensi, ma anche ambigui, conflittuali e, se vogliamo usare un aggettivo piuttosto inflazionato, ma adatto, “fluidi”.
Comencini non ha avuto paura di confrontarsi con un soggetto così ad alto rischio: reduce dalla direzione di episodi di Gomorra in cui ha dimostrato di saper affrontare la violenza, ma anche di saper delineare con maestria i caratteri di personaggi femminili di grande impatto, ha accettato la sfida e l’ha vinta. Lei è quella del durissimo documentario sui fatti del G8 “Carlo Giuliani, ragazzo” (2002) e di film come “Mi piace lavorare” (2004) e “Lo spazio bianco” (2009).
Il suo “Django” è un prodotto di altissima qualità, una co-produzione italo-francese con un cast internazionale (ma c’è anche Manuel Agnelli), recitata in inglese (si raccomanda la versione in lingua originale), sceneggiata da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli (“Gomorra”, “ZeroZeroZero”). Durante la serata si è soffermata nel raccontare la ricerca della perfezione nella ricostruzione dell’ambiente, dell’attenzione alla scenografia e ai costumi, per dare uno sfondo credibile ad un intreccio di storie che si dipanano mettendo in scena questioni psicoanalitiche fondamentali, richiamate da una ricca simbologia: l’Edipo, l’incesto, la rivalità fra fratelli, il trauma e la dissociazione che ne consegue, la ricerca della verità, il recupero della speranza, le possibilità trasformative del soggetto. Non a caso il produttore Riccardo Tozzi ha definito “Django” “un western psicoanalitico”!
Si potrebbe dire che il genere western è un po’ come la psicoanalisi: ciclicamente data per morta, spacciata, ma che continua a vivere, perché è “in continua evoluzione, nel giro di un secolo ha saputo adattarsi ai cambiamenti”, come ha detto qualche anno fa Antonino Ferro, allora Presidente della SPI .
E così anche il western, che vive perchè in grado di mettere in scena le trasformazioni del mondo, con protagonisti che escono dagli stereotipi per incarnare la complessità di tali trasformazioni. Francesca Comencini, che ha una innata, ma anche vissuta e consapevole sensibilità psicoanalitica, ha esplicitato che ha voluto reinterpretare e attualizzare un “classico” del genere western per mettere in luce sia meccanismi interiori che sono costanti nel tempo, sia per mostrare le trasformazioni del mondo attuale e degli esseri umani che lo abitano. I suoi eroi maschili sono vulnerabili e impuri, le sue eroine decise a riscattarsi e, con tutti i mezzi in loro possesso, non lasciarsi assoggettare, pagando anche con la follia il recupero (seppure illusorio) della verità, della dignità è, ancor più importante, della loro indipendenza.
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