Dal filo inconscio al creare legami.
Breve viaggio nel pensiero di Melanie Klein ritrovando altri lidi.

di Caterina Olivotto

                                                                                                “E’ un po’ picchiatella, tutto qua. Non c’è alcun dubbio però, la sua mente trabocca di cose molto interessanti. E ha una personalità ricca di fascino”

                                                                                              (Alix Strachey 1925)

                                                                                                                                                                                                                        

 

Avvicinarsi e fermarsi a riflettere sul pensiero di Melanie Klein non è mai cosa semplice. Gli scenari che ci si aprono di fronte sono molteplici e ognuno di essi esercita una particolare attrattiva che il più delle volte spinge ad affiancarsi a lei e a lasciarsi accompagnare nella sua via così creativa di intendere il mondo interno e tutto ciò che vi si anima.

Melanie Klein è essenzialmente una clinica e la sua teoria è, nello stesso tempo, sia una teoria degli istinti (pulsioni) che una teoria delle relazioni oggettuali con tutte le emozioni che queste attivano – relazione tra sé e l’altro, tra mondo interno e mondo esterno, tra oggetti interni e oggetti esterni. La sua è una teoria che cerca ed evidenzia il legame, che parte dal primissimo movimento psichico di ognuno di noi che è quello di tendere verso e di andare incontro all’oggetto, prima internamente in una quasi completa indifferenziazione sé/altro, poi – o meglio contemporaneamente – fuori di sé verso l’oggetto esterno. Il suo pensiero muove da ciò che osserva, vede, comprende nel materiale della seduta con il paziente e da lì risale verso le sue teorizzazioni dando loro corpo in modo che procedano quasi in parallelo. Clinica e teoria alla fine si intrecciano una con l’altra in un andirivieni che si esplicita e diventa guida della sua tecnica.

Tenendo conto di questo vorrei soffermarmi inizialmente su un aspetto della sua tecnica che tende, a mio avviso, ad uno dei nodi centrali del suo pensiero e che mi è divenuto sempre più chiaro nel corso del tempo oltre ad aver risuonato nella lettura delle Lezioni sulla tecnica (M. Klein, 2017); cercherò poi di soffermarmi su alcune considerazioni che hanno aperto interrogativi portandomi verso altri “lidi” che ho sentito molto stimolanti.

 

Il filo

Se osserviamo il materiale clinico, sempre presente e ricco di particolari nei suoi scritti, notiamo subito un’importante caratteristica: Melanie Klein dà un’importanza fondamentale al mettere insieme le varie coppie di opposti – amore/odio, interno/esterno, passato/presente, ecc. – così come i vari movimenti che inevitabilmente si sviluppano nel mondo interno. Questa spinta al legare insieme mi sembra trovi espressione nella sua tecnica che dà sempre grande rilievo alla ricerca di un filo sotterraneo inconscio che percorra tutta la seduta e, man mano, tutto il lavoro di analisi; il suo riconoscimento andrà a far parte di quelle modalità che permetteranno poi di arrivare ai fondamentali processi di legamento volti al raggiungimento di una maggiore integrazione. Questo filo raccoglie insieme e fa emergere i vari frammenti di emozioni che, come delle perle, devono essere colti, riconosciuti, poi svelati e collegati attraverso l’interpretazione agli oggetti interni ed esterni. Nelle Lezioni sulla tecnica ci dice: “Credo che sia essenziale tenere a mente quello che, tra me e me, di solito chiamo il filo che attraversa la seduta, un filo che spiega i cambiamenti nell’atteggiamento emotivo e i mutamenti improvvisi nelle associazioni (…) E’ pur vero che sto semplicemente sottolineando una vecchia regola, quella della connessione inconscia tra le associazioni, ma penso che ci sia un aspetto che fa la differenza: tenere a mente che, per quanto le associazioni che stiamo ascoltando siano razionali e il paziente possa discutere solo di eventi attuali che non sembrano avere una grande connessione con l’inconscio, c’è sempre un filo inconscio che lega e che può essere scoperto nel materiale e con l’avanzare del lavoro” (M. Klein, 2017, 59).

Il riconoscimento di questo filo inconscio permette quindi di creare collegamenti tra le sedute, tra parti di esse, tra emozioni e sentimenti emersi, tra sogni che possono essere ripresi e consente di evidenziare così significati che inizialmente non potevano essere visti o compresi. Esso passa attraverso il transfert guidandolo in un certo senso, poiché tutta la vita attuale del paziente ne è pervasa e si intreccia con le fantasie inconsce della persona che possono essere lette nella loro complessità e nelle varie sfaccettature soltanto in relazione al transfert e alla sua interpretazione; infatti è proprio l’analisi del transfert che rivela i legami tra presente e passato, tra mondo interno e mondo esterno aiutando il paziente a raggiungere una migliore sintesi. Questo cammino però non è mai facile, anzi può far sorgere una forte angoscia che è quella che vediamo alla soglia della posizione depressiva (D) e che rende così difficile, a volte, il poterci sostare per iniziarne l’elaborazione; si scivola allora indietro verso le angosce che popolano la posizione schizoparanoide (PS) che, in quel momento e paradossalmente, sembrano più tollerabili ed usate come difesa. Ci troviamo così di fronte ad un andirivieni continuo tra molteplici e faticosi tentativi di elaborazione e di integrazione frutto costante dell’oscillazione PS ↔ D dove i collegamenti vengono persi e poi ritrovati continuamente.

Le fantasie inconsce che accompagnano questa continua oscillazione necessitano di essere interpretate, ma dettano un loro particolare ritmo del tempo in relazione all’urgenza che si presenta nel materiale stesso e cioè in relazione all’angoscia manifesta e latente. Ed ecco che appare di nuovo l’importanza del riconoscimento del filo: “La cosa importante, nell’analizzare le fantasie, in qualsiasi fase dell’analisi, è se l’analista è capace o no di collegarle con le esperienze del paziente, passate e presenti. Ma è altrettanto importante istituire collegamenti tra la vita attuale, di cui alcuni pazienti fanno racconti molto dettagliati, e le fantasie rimosse”. (ibid., 61). Come ben sappiamo, il significato che un’esperienza reale ha per una persona ha a che fare anche con le fantasie che si originano intorno ad essa e che vi si collegano attraverso le emozioni, l’angoscia e la colpa; le fantasie e le esperienze reali si intrecciano così una con l’altra ed ognuna contribuisce al significato dell’altra.

Rileggendo il lavoro di S. Isaacs Natura e funzione della fantasia (1943) e seguendo l’Introduzione che ne fa D. Petrelli (2007) troviamo delle importanti indicazioni sul lavoro che gli analisti kleiniani stavano cercando di fare in quel particolare periodo che fu quello delle Discussioni Controverse e cioè quello di dimostrare come, seppur ad un livello diverso, ci fosse una connessione tra alcuni concetti kleiniani che suonavano nuovi e un po’ strani a quel tempo e il pensiero di Freud. Isaacs ci spiega così il concetto di fantasia inconscia come un tentativo di rappresentare il funzionamento mentale nelle sue forme precoci, ma anche in quelle più evolute e, soprattutto, di rappresentarne la concretezza. In altre parole, seguendo D. Petrelli (2007), “il concetto di fantasia inconscia mantiene e cerca di raccordare il riferimento alla pulsione freudiana e al desiderio, e la descrizione delle primitive sensazioni e percezioni corporee nel loro tradursi in forme e attività mentali” (XXII), cioè con le prime esperienze che sono quelle che il bambino fa del proprio corpo, attraverso le sensazioni legate ai suoi organi e al loro funzionamento, ma anche quelle che sente attraverso l’ambiente esterno. Quindi Klein traduce i movimenti pulsionali e le relazioni che si instaurano in fantasia con gli oggetti usando una visione o un livello descrittivo più concreto, colorato da forti emozioni ed espresso mettendo in parola le esperienze che vengono vissute precocemente con l’oggetto interno ed esterno. “L’oggetto ha, per i kleiniani, un rapporto intrinseco con la pulsione e la fantasia, proprio per questo, esprime sempre una relazione tra sé e l’oggetto, in quanto ‘questa relazione con l’oggetto è connaturata al carattere e alla direzione dell’impulso stesso e agli affetti ad esso connessi’” (S. Isaacs, 29). L’oggetto qui non è più l’astratta meta dell’istinto bensì una presenza concreta e affettiva nella mente del bambino, di cui la fantasia esprime la connaturata e ineliminabile intenzionalità. Nella fantasia il bambino fa qualcosa ad un oggetto o subisce da esso un’azione. La fantasia quindi, per quanto narcisistica possa apparire, esprime sempre una relazionalità” (Ibid., XXV).  Poiché la fantasia inconscia rappresenta il substrato che accompagna tutti i movimenti psichici, un sottofondo psichico costante che caratterizza fin dalla nascita la vita mentale e che in qualche modo la organizza e la disorganizza continuamente, si potrebbe pensare che il filo che Melanie Klein ci rammenta di tenere sempre a mente abiti proprio lì e che proprio per questo esso permetta, quando lo si riconosce, di inanellare, dando voce al significato particolare che in quel momento specifico hanno per la persona, le sue fantasie inconsce.

Di nuovo il riconoscimento del filo sembra far la sua parte nell’aiutare Melanie Klein a comprendere meglio l’aggressività, come questa si colleghi all’angoscia e come, anche attraverso di esso – cioè attraverso questo aspetto della sua tecnica – lei provi ad arrivare a quel nodo fondamentale della sua teoria che comprende anche il cercare di legare e poi tenere insieme aggressività, angoscia, colpa e riparazione. In ultima analisi il suo sforzo è sempre quello di trovare una connessione tra l’amore e l’odio che permetta di far riemergere l’amore così spesso soffocato dall’odio o, aspetto per lei fondamentale e ai suoi tempi forse poco considerato, dare senso e parola all’odio coperto da un velo di amore. Nella Lezione 1 scrive: “Fino a poco tempo fa non era stato compreso appieno il significato che può avere un nucleo di amore sepolto sotto l’odio e le sue implicazioni. Capite ora che cosa intendo quando dico che una comprensione migliore delle fantasie e degli impulsi aggressivi permette di comprendere amore e odio, e di conseguenza anche comprendere pienamente il senso di un transfert positivo e negativo: poiché soltanto riconoscendo il valore dell’interazione precoce tra amore e odio e dei fattori responsabili del circolo vizioso tra odio, angoscia, sentimenti di colpa e aumento dell’aggressività, possiamo avere una visione chiara sia dell’amore sia dell’odio. Mi sono resa conto che la comprensione dei collegamenti precoci tra amore e odio è essenziale per comprendere pienamente la situazione di transfert” (M. Klein, 2017, 43-44).

Per Melanie Klein è soltanto quando con l’interpretazione riusciamo a stabilire dei collegamenti con la situazione in cui originariamente il paziente ha potuto provare i sentimenti e le emozioni che ora stanno emergendo nel transfert che è possibile far venire alla luce l’amore che, fino a quel momento, era stato soffocato e così negato, amore che diventa segnale di una migliore integrazione. L’aggressività infatti può essere tollerata solo dopo essere stata mitigata e modificata attraverso il rinforzarsi della capacità di amare che avviene attraverso il legare insieme.

 

La bambina dei fili

Paola[1] era una bambina di 8 anni in trattamento perché aveva importanti scoppi di rabbia improvvisi durante i quali si scagliava contro la madre o il padre urlando e cercando di colpirli. I motivi erano molteplici e sembravano tutti, in un modo o nell’altro, avere a che fare con la frustrazione, con la delusione e con l’inevitabilità della separazione dalla madre che la riempivano di una forte rabbia che la spaventava molto. Era sempre all’erta, temeva ritorsioni da parte di chi le stava intorno e si sentiva fortemente minacciata e poco accolta. Il lavoro procedeva con molta difficoltà, Paola faticava a mettere insieme i suoi pensieri, ad accettare i miei e a metterli con i suoi, a tenere il filo di ciò che sentiva e che la faceva stare male. Nelle sedute i giochi erano tutti spezzettati e venivano interrotti quasi improvvisamente appena si intravedeva un filo; era sempre in movimento come alla ricerca costante di qualcosa di concreto da fare, da avere in mano. Una volta, dopo molte sedute durante le quali ci eravamo soffermate su quello che stava succedendo cercando di trovare un significato, mi chiese se potevamo ricamare. Rimasi sorpresa dalla sua richiesta, ma l’accontentai. Le feci trovare ago e filo e delle stoffe e cominciammo insieme a ricamare dei disegni a “punto erba” o qualcosa di simile che lei aveva imparato in un doposcuola. Mentre ricamavamo, ciascuna il proprio disegno, Paola riusciva a parlarmi di ciò che sentiva e così potemmo cominciare a mettere insieme i vari pezzetti. Il ricamo sembrava permettere, da una parte, un rallentamento dei pensieri che la costringevano ad un movimento continuo e, dall’altra, di trovare nella stoffa una iniziale rappresentazione di contenimento. Era ora possibile poter rivivere nel transfert ciò che succedeva dentro di lei e cominciare ad accogliere le mie parole, alle quali a volte sembrava letteralmente aggrapparsi, in un modo nuovo. Mi chiese poi, ora che eravamo diventate “un po’ brave”, se non potevamo prendere quei set da ricamo da fare con la lana. Anche in questo caso l’accontentai; nel negozio in cui andai trovai dei graziosi telaietti che mi sembravano proprio fare al caso nostro; Paola mi sorrise con una espressione di intesa, come se fosse proprio quello che stava cercando e cominciammo così questi nuovi ricami. Mentre ricamavamo ognuno il proprio telaietto, Paola si inoltrava ancor di più nelle sue angosce e soprattutto mi faceva vedere il senso del suo sentirsi dannosa per la mamma e così spaventata di farle veramente del male; mi raccontava a tratti della sua rabbia che era “feroce” e che poteva distruggere tutto. Sembrava che soltanto attraverso i fili di lana che si intrecciavano nella stoffa componendo il disegno fosse possibile ad entrambe dare un senso, un significato e poter dare finalmente parola a queste fantasie che temeva la facessero esplodere. Il telaietto diventò la cornice all’interno della quale il nostro lavoro di legamento e di integrazione poteva procedere protetto e contenuto. Dopo molto tempo e molto lavoro, Paola mi fece un’altra richiesta; mi chiese se ero capace di fare l’uncinetto “ho pensato che fare delle catenelle è una cosa bella … la lana si intreccia e fa la catenella che può essere lunga lunga e poi ci si possono fare dei punti sopra e vengono fuori come delle copertine … lo sai fare?”. Cominciammo così con l’uncinetto, uno a testa, e ne vennero fuori copertine, sciarpette e abbozzi di vestitini per le bambole della scatola. Durante tutto questo lungo periodo che sto raccontando, era evidente in Paola il bisogno di una continua specularità tra di noi, la necessità di un continuo rispecchiarsi in me, momento preparatorio e precursore del suo potersi pian piano separare. Non le fu facile all’inizio usare l’uncinetto, ma si armò di tanta pazienza e non si arrese fino a quando non diventò più esperta; spesso guastava i pezzetti che riusciva a fare e scioglieva tutto; sembrava, ancor più che ricamando – dove non poteva sciogliere i fili, ma soltanto mettere da parte, tagliare fuori il ricamo che non le era venuto bene – che la catenella o i punti che faticosamente faceva e poi scioglieva “perché non viene bene, perché la lana non si è intrecciata bene” ci dessero la misura dei suoi movimenti di oscillazione tra PS ↔ D e il suo lento procedere verso una migliore integrazione. All’esterno infatti Paola cominciò ad essere più tranquilla, anche con la mamma e il papà le cose migliorarono e cominciò a fidarsi di più delle persone; gli scatti di rabbia diminuirono fino a sparire, la scuola divenne meno minacciosa e cominciò a sentirsi meno perseguitata ed esclusa dai suoi compagni; con alcune bambine cominciò a legarsi affettuosamente. Si sorprese piacevolmente “a voler bene a tante cose! Anche alle cose qui nella stanza, pensa, che prima le odiavo!”.

 

Creando legami: la posizione depressiva …

Nel momento in cui Melanie Klein arriva a formulare, in modo completo, il concetto di posizione depressiva il senso e il significato della spinta a creare legami, al legare insieme che mira ad una sempre maggiore integrazione sembra trovare, a mio avviso, la sua più completa sistematizzazione all’interno della sua teoria e, di conseguenza, nella sua tecnica il collegare seguendo il filo inconscio si chiarifica nella sua funzione come uno dei modi che ne permettono il compimento. Mi chiedo allora se, considerando le cose da un livello diverso, è possibile pensare alla posizione depressiva come a quel processo psichico nel quale, attraverso il complesso intreccio di relazioni vissute in fantasia nel mondo interno, vediamo concretamente all’opera i processi di legamento.

All’inizio della vita del bambino l’amore e l’odio che egli prova sono entrambi in relazione e rivolti alla madre, al suo seno e al suo latte, sia come oggetto esterno primario e reale, che come oggetto interno, cioè come sua rappresentazione, come imago. Quando la madre diventa causa di frustrazione, la tensione è insopportabile poiché mentre il bambino in fantasia la odia e fantastica di distruggerla spaventandosi enormemente e sentendosi sottoposto ad innumerevoli minacce da parte di oggetti interni persecutori, contemporaneamente la ama perché essa non è soltanto la fonte del suo benessere e da lei si sente amato, ma anche perché è sempre lei, attraverso l’introiezione, che alimenta i suoi oggetti interni benevoli che così lo proteggono e lo fanno sentire al sicuro. “E’ la madre la prima e fondamentale relazione che permette al bambino di fare esperienza dei sentimenti di amore e di odio. Ella non rappresenta solo un oggetto esterno, poiché il bambino fa propri dentro di sé (introiezione per Freud) gli aspetti della sua personalità. Se gli aspetti buoni della madre introiettata sono sentiti dominare quelli frustranti, la madre internalizzata diviene un elemento della forza del carattere perché l’Io, su queste basi può sviluppare le sue potenzialità. Se la madre è sentita come una figura che guida e protegge, ma non domina, l’identificazione con lei rende possibile uno stato di pace interno” (M. Klein, 1960, 8). Se invece la tensione, l’angoscia che si crea, attivata dalla frustrazione è effettivamente troppo forte per un Io ancora così fragile e poco strutturato la prima soluzione non può che essere quella di una scissione in due madri, una buona e una cattiva. 

Ma Melanie Klein ci fa presente che nella nostra mente c’è una forte tendenza a mettere insieme, come già ci aveva fatto vedere Freud a partire dal 1920, e a ricomporre la scissione rimescolando la madre cattiva con la madre buona creando un compromesso. E così si procede nello sviluppo, scindendo e poi ricomponendo in nuove combinazioni mettendo insieme gli opposti e oscillando avanti e indietro tra PS e D. Tutte queste nuove combinazioni portano il bambino a percepire la madre come un oggetto intero, a rendersi conto della propria ambivalenza e a provare così un’angoscia di perdita; il suo oggetto amato è lo stesso che lui odia, che ha attaccato e che continua ad attaccare a causa del suo sadismo e della sua avidità. “Assieme agli impulsi distruttivi il lattante sperimenta sentimenti di invidia che rinforzano la sua avidità ed interferiscono con la sua capacità di trarre piacere dalle soddisfazioni quotidiane. I sentimenti distruttivi danno esca alla paura di rappresaglia e di persecuzione, e questa è la prima forma di ansia di cui il piccolo soffre” (M. Klein, 1960, 11) e ancora “Finché l’oggetto non è amato come oggetto totale non se ne può sentire la perdita come perdita totale” (M. Klein, 1935, 299). Appaiono allora sentimenti di dolore, di colpa e di angoscia che sono parte integrante dell’amore che egli sente in relazione ai suoi oggetti, sentimenti dai quali non si può prescindere e, proprio per questo, il bambino cerca con la riparazione di conservare il suo oggetto amato o di ritrovarlo e riaggiustarlo nelle cose intorno a sé. Hinshelwood (1989) parlando della posizione depressiva ci dice “La Klein giunse in quegli anni (1935) a comprendere che la preoccupazione per l’oggetto è il risultato di un confluire di amore e odio verso la medesima persona (oggetto) con i suoi aspetti sia ‘buoni’ che ‘cattivi’” (193).

Quando il bambino comincia a percepire l’oggetto esterno come un oggetto totale inizia ad averne una visione più realistica e il mondo interno pian piano si differenzia da quello esterno portandolo verso una percezione più accurata dell’oggetto reale. Nonostante l’oggetto interno, attraverso proiezioni e introiezioni, nonché sotto l’effetto delle richieste provenienti dal corpo, continui ad essere collegato all’oggetto esterno e continui ad influenzarne la creazione, sempre di più esso assume una sua più realistica autonomia. La capacità di percepire una persona come è realmente è il risultato di un riconoscimento che non è soltanto la percezione della sua presenza fisica, ma soprattutto il riconoscimento della sua realtà emozionale. Il bambino dunque comincia a sentire che l’oggetto totale possiede una varietà di sentimenti propri, di proprie emozioni e motivazioni e pian piano gli riconosce la capacità di soffrire come lui stesso soffre. L’oggetto esterno comincia allora ad avere una certa influenza nell’intreccio reciproco tra proiezioni e introiezioni nella relazione tra il bambino e la madre.

 

… verso altri “lidi”

A questo punto vorrei soffermarmi su alcune considerazioni che si sono trasformate in interrogativi e che mi hanno accompagnata fin qui in modo più o meno silente. Mi sembrava interessante mettere insieme o cercare di far lavorare insieme il pensiero di Freud sull’intricazione pulsionale, gli approfondimenti che ne fa Benno Rosenberg e la creazione di legami che tendono all’integrazione nella teoria di M. Klein. Sembrava quasi che stessi anch’io alla ricerca di un filo che tenesse insieme le diverse posizioni teoriche che mi venivano in mente: è possibile dunque cercare di integrare tra loro livelli diversi di osservazione?

Seguendo Melanie Klein, che da lì partiva, sono allora tornata anch’io a Freud e, in particolare a L’Io e l’Es (1922) in cui egli cercava di precisare la relazione tra le due pulsioni che, a partire dalle sue considerazioni in Al di là del principio di piacere (1920), aveva ipotizzato necessarie per spiegare i nuovi interrogativi che stava affrontando nella clinica. Freud ipotizzava una possibile intricazione, e quindi anche una disintricazione tra le due secondo un impasto di proporzioni variabili a seconda della prevalenza di Eros oppure di Thanatos. Freud non aveva ancora chiaro come avvenisse questa intricazione, ma gli appariva evidente che la spinta a legare e ad unire in unità sempre più grandi di Eros permetteva di neutralizzare Thanatos. Questa affermazione di Freud mi sembra ciò che Klein riprende quando affronta l’intreccio tra amore e odio: “La descrizione della salute mentale che ho tracciato mostra la natura articolata e complessa della mente. Essa, come ho cercato di indicare, poggia sulla interazione tra le due forze fondamentali della vita psichica – gli impulsi di amore e odio – interazione nella quale la capacità di amare è predominante” (M. Klein, 1960, 10).   E ancora, quando Klein parla del “valore della interazione precoce tra amore e odio e dei fattori responsabili del circolo vizioso tra odio, angoscia, sentimenti di colpa e aumento dell’aggressività” (2017, 44) per meglio comprendere l’amore e l’odio o quando ci fa presente che l’aggressività può essere tollerata solo dopo essere stata mitigata e modificata attraverso il rinforzarsi della capacità di amare che avviene attraverso il legare insieme, mi sembra che stia cercando di evidenziare a suo modo ciò che Freud aveva segnalato. Poiché per Klein le pulsioni non sono mai vissute per se stesse, ma intrinsecamente collegate agli oggetti, il suo modo mi appare quello di una traduzione in un linguaggio diverso che è quello della messa in scena di relazioni tra gli oggetti interni e le pulsioni che li accompagnano e li muovono e delle conseguenti relazioni con gli oggetti esterni; un linguaggio che ci porta ad un livello diverso più descrittivo e animato.

Torniamo ora a Freud; successivamente egli cercherà di spiegare come avvenga questa intricazione pulsionale, che cosa ci sia alla base di questo impasto che è indispensabile al funzionamento psichico e lo farà con il concetto di masochismo erogeno primario. Ne Il problema economico del masochismo egli ci dice: “Questo masochismo sarebbe dunque una testimonianza e un residuo di quella fase dello sviluppo in cui ha avuto luogo la fusione della pulsione di morte e dell’Eros, che tanta importanza ha per la vita” (S. Freud, 1924, 10) e, come afferma F. Munari esso ci si presenta  come “processo preliminare e necessario all’equilibrio della gestione delle pulsioni e all’impasto pulsionale, un processo che sarà necessario sia all’investimento dell’Io e alla sua coesione, sia all’investimento dell’oggetto che è sempre bi-pulsionale” (F. Munari, 2019, X). Benno Rosenberg ci chiarisce un aspetto molto importante: “Quando Freud ne Il problema economico del masochismo parla di una parte della pulsione di morte che non partecipa allo spostamento-proiezione ‘verso l’esterno’, che ‘permane nell’organismo, e con l’aiuto del coeccitamento libidico […] viene libidicamente legata’ fondando ‘il masochismo originario erogeno’, egli ci mostra il nucleo a partire dal quale la vita psichica si innesca in quanto rende possibile il dispiacere della situazione di impotenza primaria, come d’altronde di ogni altro dispiacere” (B. Rosenberg, 1991, 56). Questo aspetto del masochismo erogeno che trattenendo una parte della pulsione di morte all’interno rende possibile lo sperimentare il dispiacere psichico senza doverlo immediatamente proiettare all’esterno per liberarsene, mi fa pensare a qualcosa che mi pare apra la strada e accompagni ciò che succede in D quando il bambino cerca e diventa pian piano capace di sopportare il dispiacere psichico e il dolore ai quali si trova esposto nel difficile percorso verso l’integrazione. “Il bisogno di integrazione, comunque, deriva dalla consapevolezza inconscia che l’odio può essere mitigato solamente dall’amore, e ciò non può avvenire se queste due forze pulsionali sono tenute separate. L’integrazione, nonostante questa spinta, è un processo che comporta dolore, perché è estremamente doloroso affrontare l’odio scisso e le sue conseguenze. […] L’integrazione, inoltre, produce tolleranza verso i propri impulsi e i difetti altrui.” (M. Klein, 1960, 13-14)  

Seguendo Benno Rosenberg (2000), per il quale il masochismo primario erogeno è fondante lo psichismo e basilare nel suo pensiero teorico tanto che ne estende la funzione e lo identifica come difesa che lo psichismo mette in atto contro la pulsione di morte, ci avviciniamo ad un altro aspetto della questione che mi pare molto importante. A suo avviso, il masochismo primario erogeno è la prima difesa. La proiezione all’esterno della pulsione di morte è possibile soltanto a condizione che la libido l’abbia già in precedenza legata, cioè a condizione che esista già un masochismo erogeno primario che, a ben vedere, apra la via allo sviluppo delle relazioni oggettuali perché l’oggetto diventa sia il destinatario che il contenitore delle pulsioni che in esso vengono proiettate. L’importanza del masochismo erogeno primario nasce dunque dal fatto che esso fornisce una cornice, uno spazio-luogo psichico, all’attività delle due pulsioni sia che si tratti della loro opposizione che della loro intricazione. Vorrei sottolineare il fatto che il masochismo erogeno non può esistere se non viene nutrito pulsionalmente nello stesso tempo sia da Eros che da Thanatos. Ed è all’interno di esso che è possibile una erotizzazione, cioè una libidizzazione della distruttività. In altre parole è all’interno del masochismo erogeno primario che l’istinto di morte diventa pulsione di morte e può quindi essere legata.

Mi sono chiesta allora se l’importanza che Melanie Klein dà alla ricerca del filo inconscio, la sua spinta a creare sempre nuovi legami tendenti al raggiungimento, per quanto possibile, di una sempre maggiore integrazione e il movimento di oscillazione PS ↔ D non fossero il suo modo di descrivere e di mettere in scena, animando di personaggi il mondo interno, il faticoso lavorio che tende all’intricazione pulsionale; il masochismo primario erogeno mi appare allora come la base di funzionamento psichico possibile ed indispensabile perché ciò che Klein ci ha descritto possa avviarsi.

Marco La Scala in un suo intervento durante un incontro del gruppo di studio Ultimo Freud (CVP, 2020) ci chiarisce che il masochismo erogeno è anche ciò che permette la soggettivazione poiché, grazie all’intricazione che trattiene una parte della pulsione di morte all’interno, non tutto viene proiettato all’esterno e quel qualcosa che resta dentro diventa il nucleo del soggetto. Pensando al lavoro di elaborazione e dei continui tentativi di legare insieme amore e odio che si consolidano in D portando al riconoscimento dell’oggetto intero e con esso alla faticosa accettazione della differenziazione tra sé e l’altro che ne consegue, mi sembra che Melanie Klein, portandoci immediatamente ad un livello diverso, ci descriva lo stesso avvio della soggettivazione, quel poter iniziare a sentirsi un soggetto.

La questione soggetto/oggetto apre a complesse considerazioni nelle quali non mi inoltrerò, ma mi limiterò a soffermarmi solo su brevi spunti che mi sembrano interessanti. Se da una parte ciò che succede in D, come ho accennato in precedenza, consolida l’apertura all’esterno e mette ancor più in evidenza la reciprocità della relazione con gli oggetti esterni e l’importanza che se ne faccia una buona esperienza necessaria per sostenere una migliore integrazione degli oggetti interni, dall’altra Melanie Klein ci dona sempre una descrizione centrata su ciò che accade nel mondo interno, sui suoi movimenti sotto l’effetto dei giochi di proiezione, introiezione e di identificazione proiettiva che coinvolgono certo l’oggetto, ma che non ne fanno il protagonista. Tenendo conto di questo e tornando al livello dei movimenti pulsionali, mi sembra di poter ritrovare Rosenberg, “quando parliamo di intricazione parliamo sempre di una intricazione indiretta, che avviene cioè attraverso l’intermediazione di un oggetto mediatore. Si tratta sempre di due pulsioni fondamentali che investono lo stesso oggetto e questo investimento dona risultati diversi a seconda dell’importanza o della forza del rispettivo investimento delle due pulsioni” (2000, 23). E’ una visione che possiamo definire passiva in cui l’oggetto fa in un certo modo da bersaglio accogliendo la proiezione delle due pulsioni sostenendone però l’impasto. In fondo sia Klein che Rosenberg, in modi e livelli diversi, mi sembrano procedere in parallelo nel raccontarci come stanno le cose dal punto di vista interno.

Ma Melanie Klein ci stava mostrando solo questo? Oppure, attraverso ciò che accade in D che porta pian piano ad una visione più realistica dell’oggetto e quindi anche ad una certa sua influenza nel complicato gioco reciproco tra proiezioni e introiezioni nella relazione tra il bambino e la madre, stava – quasi senza metterlo troppo in luce – aprendo la strada a ciò che poi sarà ripreso dai post kleiniani e soprattutto da Bion sull’importanza del ruolo dell’oggetto e di come esso accolga e bonifichi le proiezioni ricevute dal bambino collaborando all’integrazione?

Da un punto di osservazione diverso, mi sembra che Marco La Scala, sottolineando la rilevanza dell’oggetto che non riceve soltanto passivamente amore e distruttività, provi a trovare una via che tenga insieme sia l’interno che l’esterno quando ci dice che esso (l’oggetto) “ha un ruolo attivo nello spazio interpsichico e diventa luogo esterno che coopera al legame d’impasto” (M. La Scala, 2014, 86), impasto che diventa anello di congiunzione tra l’intrapsichico e l’interpsichico contemplando la relazione con l’oggetto.

 

In conclusione, mi sembra allora – o forse mi piace pensare – che il pensiero kleiniano metta in scena nel suo linguaggio proprio quel movimento che, ad un livello quantitativo e da altre angolature, le pulsioni mettono in atto legandosi e slegandosi e andando verso l’oggetto, consegnandoci però un film muto dal quale non ci arriva suono anche se colmo di forti emozioni, quelle stesse che poi Melanie Klein raccoglie e ci racconta amplificandone le voci nelle complesse vicissitudini del nostro mondo interno.   

 

 

Bibliografia

Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere. OSF, 9.

Freud S. (1922), L’Io e l’Es, OSF, 9.

Freud S. (1924), Il problema economico del masochismo, OSF, 10

Hinshelwood R.D. (1989), Dizionario di psicoanalisi kleiniana. Raffaello Cortina, Milano, 1990.

Isaacs S. (1943). Natura e funzione della fantasia. In D. Petrelli (a cura di), Fantasia inconscia – L’organizzazione mentale precoce secondo Susan Isaacs. Roma, Il Pensiero Scientifico, 2007.

Klein M. (1935). Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi. In M. Klein Scritti 1921-1958. Torino, Boringhieri, 1978.

Klein M. (1960). Sulla salute mentale. In Richard e Piggle, 2,1,1994.

Klein M. (2017). Lezioni sulla tecnica. Milano, Raffaello Cortina, 2020.

La Scala M. (2014). L’eclissi della pulsione: perdere la luce del rispecchiamento. In Munari F., Mangini E. (a cura di). Metamorfosi della pulsione. Milano, Franco Angeli.

Munari F. (a cura di) (2019). Eros e Thanatos. Sui processi di legamento. Roma, Alpes.

Petrelli D. (a cura di) (2007). Fantasia inconscia – L’organizzazione mentale precoce secondo Susan Isaacs. Il Pensiero Scientifico, Roma, 2007.

Rosenberg B. (1991). Masochisme mortifère et masochisme guardien de la vie. Monographies de la Revue Française de Psychanalyse. Paris, PUF. Edizione Italiana Masochismo mortifero e masochismo custode della vita. Roma, Alpes, 2022.

Rosenberg B. (2000). Masochisme et maladie. Revue Française de Psychosomatique, 2, n.18, 13-28.

 

 

[1] Non mi soffermerò in questa breve vignetta sui vari passaggi del lavoro con questa bambina. Mi limiterò soltanto a descrivere quanto la possibilità concreta di intrecciare dei fili di lana abbia permesso a Paola di poter aprire nei suoi pensieri la via rappresentativa del legare insieme che l’ha pian piano portata verso una migliore integrazione. Mentre concretamente legavamo dei fili, Paola provava, legando e slegando e rilegando, a collegare le varie parti scisse e le spaventose fantasie che nel suo mondo interno l’angosciavano e la facevano stare molto male.

Caterina Olivotto, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

caterina.olivotto@gmail.com

Condividi questa pagina: