Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Anna Trevisan
Titolo: “Dante”
Dati sul Film: Regia di Pupi Avati, Italia, 2022, ‘94
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=SKgn_n_DgOQ&ab_channel=01Distribution
Genere: Storico, drammatico
Credo che ognuno di noi porti dentro di sé una sua propria immagine del Sommo Poeta, immagine che ha costruito attraverso lo studio personale e la capacità dei docenti di comunicare l’arte del nostro Primo Padre della Patria. Patria da lui tanto amata e chiamata Italia:” Ahi serva Italia di dolore ostello, / nave senza nocchier in gran tempesta/ non donna di provincie, ma bordello” (Purgatorio VI). È l’Italia della fine del XIII secolo o Italia di oggi? Può essere anche questo il messaggio che il film di Pupi Avati ci offre e che rende così attuale un’opera filmica che tratta del Medioevo. Il primo biografo dell’Alighieri fu Boccaccio e al suo “Trattarello in laude di Dante” (1362) il regista si appoggia a questo per fare una ricostruzione accurata della storia; usa l’attore Castellito come interprete dello stesso Boccaccio, che recita una ammirazione devota e riverente per colui che ritiene essere stato il suo Maestro. Si coglie un grande e affettuoso rispetto per la enorme, dolorosa umanità vissuta dal Sommo Poeta.
Il film ha un commovente inizio che tratteggia l’amore di Dante per Beatrice: “Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia, quand’ella altrui saluta,/ ch’ogne lingua devien tremando muta,/ e l’occhi no l’ardiscon di guardare”(“Vita Nova”, 1294).
Lo schermo inquadra due giovani adulti — oggi si direbbero due adolescenti — che si incontrano più o meno casualmente tra le vie della città di Firenze. I versi che Dante ha scritto per immortalare questa sua donna angelicata ci rammentano che egli fu un bambino rimasto orfano di madre all’età di cinque o sei anni. La morte della madre in tenera età lo porterà a cercare e idealizzare una figura di donna che resti sempre accanto a lui come un angelo custode, contrariamente a colei che se n’era andata troppo presto.
Si legge nel “Trattarello” che per fuggire dal dolore provocato dalla morte del grande amore, Dante sposò Gemma Donati, donna cui non dedicò mai alcun verso e con la quale visse un matrimonio infelice, la figura femminile reale non dà un’emozione pari a quella idealizzata e non produce l’arte. Tuttavia Beatrice non è solamente un angelo per Avati, è anche una donna strega che seduce e avvolge nella libidine le pulsioni del poeta. Dante appare fragile e delicato, in balia di eventi che non sempre riesce a gestire. Mi ricorda, in questo tratteggio, le esistenze dei poeti dell’800 romantico che erano inebriati da grandi ideali e da amori totalizzanti. Avati ha trasposto nel film la sua visione di quest’uomo straordinario e geniale, tanto medioevale quanto moderno. Il regista ci mostra un preciso, studiato quadro del mondo medioevale cui è ancorato il Poeta: il contesto sociale è quello della miseria, della povertà, dell’epidemia, il fetore della morte e la presenza di malattie da mancanza di pulizia e igiene, entro cui si svolgeva l’esistenza degli individui di allora, ci comunica la vita medioevale in tutta la sua carnalità e primitività.
Il “nuovo” appare non con aspetti di scienza, ma con la capacità letteraria di emergere dalla cupezza dell’ignoranza attraverso l’arte della poesia scritta in una lingua popolare parlata e vissuta. Avati ci descrive infine l’esilio drammatico, doloroso e ingiusto: “(Firenze) che fuor di sé mi serra”. (Paradiso XXV).
Una tragedia, l’esilio, che lo costringerà a una vita raminga, che lo porterà a scrivere la “Divina Commedia”, nel tentativo, non riuscito, di poter avere un riscatto, la resa a essere un senza patria nell’impossibilità reale del ritorno a Firenze: “Tu proverai si come sa di sale/ lo pane altrui, e com’è duro calle/ lo scender e‘l salir per l’altrui scale” (Paradiso XVII).
Credo che questa sia la parte più intensa, ma non filmata, del lavoro di Avati che descrive il poeta esule, solo, in miseria, che crea i suoi versi per ribadire la sua dignità di uomo, di cittadino e i suoi diritti calpestati; un uomo visionario e che probabilmente fu espulso dalla terra madre perché troppo idealmente anticipatorio rispetto alla realtà politica del tempo. Solo tardivamente, dopo la sua morte, il Governo di Firenze inviò alla figlia del poeta, monaca a Ravenna, una borsa con monete d’oro per indennizzo. È profondamente umano il Dante di Pupi Avati! Personalità delicata che si commuove con facilità perché la sua esistenza è segnata dal dolore e dalla umiliazione.
A parer mio il registra nel film ci offre il disegno di un Dante troppo piangente e troppo spesso commosso, tende ad accentuare questi aspetti di personalità sofferente avvolgendo gli sfondi scenici con un eccesso di pioggia battente, lampi, fulmini che, agli occhi dello spettatore dovrebbero rappresentare visivamente anche le tempeste interiori vissute dal nostro sommo poeta. Credo invece che, per riuscire a vivere una vita tanto dura e difficile, Dante avesse una grande forza interiore che non si è mai fiaccata nonostante tutto.
Dante ha infatti continuato a vivere, ospite dei vari Signori cui chiedeva uno spazio di ricovero e che ringraziava con i suoi versi; sappiamo dal canto XIII dell’Inferno che nella “selva dei suicidi” il poeta mostra una grande partecipazione emotiva verso coloro che si sono tolti la vita e ciò può farci pensare che anche Dante abbia sfiorato questa decisione.
Il suicida anonimo del canto XIII dell’Inferno simboleggia proprio coloro che si tolsero la vita per non affrontare l’esilio, che corrispondeva alla morte civile, e che non resistettero alla possibilità di sottrarsi a tale dolore. Dante invece resiste e sceglie di maledire Firenze che pur tanto amava.
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