Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Silvia Mondini
Titolo: “Anselm”
Dati sul film: regia di Wim Wenders, Germania, 2023, 93′
Trailer https://youtu.be/k8Ny75l2cWs?si=qtnfwgXjYgkr9Ohh
Genere: documentario
“Creazione e distruzione sono la stessa cosa […]
sono nato durante la guerra e sono cresciuto tra le rovine, le vedo come un inizio”
(Kiefer, 2006)
Questa è un’associazione di pensieri che inseguono il mio desiderio di riallacciare storie, passioni e narrazioni che ruotano intorno al processo creativo e alle figure di Wim Wenders e di Anselm Kiefer. Sono artisti di indiscutibile talento, nati entrambi nel 1945, sul finire della Seconda Guerra Mondiale, legati da molte affinità, grandi inquietudini e una differenza: lo sguardo rivolto da ciascuno alle rovine della Germania Nazista.
Quell’origine a cui Kiefer guarda, indaga e aspira a rappresentare tanto da renderla fonte della sua produzione artistica e da cui Wenders, appena può, si allontana per attraversare i cinque continenti e inventare altre storie.
Sono storie sognanti in cui l’atto di vedere (Wenders, 1992) si intreccia con avventure d’amore e di viaggio o si costituisce come spinta ad incontrare l’altro immerso nel fare artistico. Una pulsione, quest’ultima che, a partire dalla fine degli anni ‘90, lo porta a esplorare l’universo artistico nelle sue diverse espressioni (musica, danza, fotografia, scultura eterea) sino a raggiungere Kiefer, a cui un solo linguaggio non è mai bastato e non potrà mai bastare.
Il documentario “Anselm” condensa in novantatrè minuti un sogno iniziato nel lontano 1991: uno spazio/tempo quasi infinito che racchiude l’incontro di Wenders con altri artisti, la trentennale amicizia con Kiefer, i loro fittissimi scambi, mille pagine di appunti, sette location diverse e tre anni di intenso lavoro. È stata una gestazione quasi interminabile, ma evidentemente necessaria per operare quella sintesi di tecnica e poetica che sola può trasmettere l’immenso lavoro psichico sotteso all’opera di entrambi.
In “Anselm” Wenders pone la sua arte al servizio di Kiefer, affidando a lui il compito di parlare di sé e della condizione umana — l’uomo vuole la leggerezza perché non vuole vedere l’abisso — tramite creazioni di cui percorre spazi, silenzi, origini, passioni e caos. Quello stesso caos diviene quadro se incorniciato in un confine rettangolare, film quando lo si può gestire con la perizia di chi ha già esplorato il pianeta e l’universo dell’arte.
Il film è una poesia per immagini, che emergono in accordo con la regola della coesistenza psichica di epoche diverse e in cui un Anselm[1] bambino guida l’Anselm adulto e ottuagenario. Sono sequenze che mettono a fuoco il passaggio dalla percezione del reale alla sua rappresentazione nell’opera (o viceversa), catturando in un solo magico istante il trasformarsi di un campo innevato o colmo di girasoli in un quadro. Sono inquadrature che fanno sentire il significato, il peso degli sterminati ateliers kieferiani e di quella loro organizzazione spaziale che diviene metafora della memoria. È una memoria che fa parlare le tracce attraverso una “combinazione di materiali, oggetti, pose, tempi differenti, scene” che assomiglia più ad un “montaggio” che ad un ricordo (Balsamo, 2021, 60).
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[1] L’artista bambino è interpretato dal nipote e il giovane Kiefer è impersonificato dal figlio
Non a caso le sue prime opere di fine anni Sessanta prendono il nome di “occupazioni” (besetzungen); sono fotografie dell’artista in posa con il saluto nazista, immagini che per un certo tempo lo hanno identificato con il nazionalsocialismo, rendendolo, dunque, controverso. Eppure uno sguardo attento avrebbe potuto scorgervi già allora il contrario, ovvero l’intenzione di ridicolizzare, di ridurre a satira — come scrive Huyssens (1969) —il gesto dell’occupazione nazista.
Inoltre, se teniamo conto che besetzung ha anche il significato di “distribuzione dei ruoli a teatro”, diventa ancor più evidente come, attraverso queste prime opere, Kiefer entri nell’oggetto occupante, si identifichi con esso, per denunciare e assumere su di sé il peso di quella storia e di quella divisa. (Balsamo, ibid. 59-60)
È un agire che verrà trasformato dall’incontro con Joseph Beuys, unico maestro di Kiefer, a cui il film accenna soltanto. È anche da lui, conosciuto nel 1971, che impara un altro modo per “non abdicare di fronte all’irrappresentabile” (Balloni, 2024, 236) e a introdurre nelle sue opere l’incompiuto (Preta, 2024; Balloni, 2024). Questo è un elemento prezioso, che verosimilmente contribuisce a convertire la sua fama di artista controverso, che mette in scena per evitare l’abisso, in quella di artista che affida parte della sua azione al tempo, creando un movimento altro che prende il nome di alchimia.
“Nella maggior parte dei casi — scrive Beuys (cit. in Balloni ibid.) — i processi continuano: reazioni chimiche, fermentazioni, alterazioni cromatiche, degrado, essicazione. Tutto è in stato di cambiamento”.
“Ho bisogno – scrive Kiefer — che la natura mi aiuti, che collabori con me. Uso gli agenti metereologici, il caldo e il freddo, certe volte lascio le tele sotto la pioggia… ci verso sopra acido, acqua e terra […] non uso i colori tradizionali e ottengo magnifici colori usando alluminio, piombo, acidi, elettroliti. […] lo scopo degli alchimisti era accelerare i processi naturali. […] Occorre trovare la giusta via di mezzo tra controllare e non controllare, tra ordine e caos. Mentre dipingo danzo e mi diverte” (Kiefer, 2006, 156-157).
In “Anselm”, infine, trova ampio spazio Paul Celan i cui versi, al pari delle opere di Beuys, gridano il silenzio delle vittime. E in questo intreccio di parole e immagini si svela un sottile gioco di riconoscimenti, disconoscimenti e traslazioni. Questa dinamica ci invita a pensare a quanto il trauma possa ostacolare riconoscimento e gratitudine soprattutto se, come nel caso di Kiefer, la creazione rimane ancorata allo shock.
“Produco quando resto scioccato da qualcosa […]. É questa la motivazione […]. É così che devo lavorare per sopravvivere come artista e come persona” (Kiefer, 2022, p.160).
E se Kiefer invoca un reale che scuote, Wenders ha fatto del sogno l’elemento da cui trarre “la forza per affrontare la realtà e le sue mutevoli condizioni, senza escludere i cambiamenti, i rimaneggiamenti, i ribaltamenti” (Wenders, 2022, p.39).
Si tratta di un connubio riuscitissimo, che consente a ciascuno di entrare nel film per come può e vuole, di interagire attivamente con esso, di continuare a pensare ad una creazione ha bisogno di essere sperimentata, possibilmente in 3D.
Bibliografia
Balsamo M. (2021). Memorie senza ricordi. Frontiere della Psicoanalisi, vol. 1, 2021. Il Mulino, Bologna.
Balloni A. (2024). Riscrivere la fine: l’incompiuto di Joseph Beuys. Riv. di Psicoanal. 1/2024, 235-239.
Beuys J. (2015). Che cosa è l’arte. Castelvecchi, Roma, 2015.
Kiefer A. (2022). Paesaggi celesti. Interviste. Il Saggiatore, Milano, 2022.
Preta L. (2024). L’incompiutezza al cuore del processo creativo. Riv. di Psicoanal. 1/2024, 211-217.
Wenders W. (1992). L’atto di vedere. Meltemi, Milano, 2022.
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