Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Elisabetta Marchiori
Titolo del film: “Anatomia di una caduta” (Anatomie d’une Chute).
Dati sul film: regia di Justine Triet, Francia, 2023, 150′.
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=r-f-QGh6grM&ab_channel=TeodoraFilm
Genere: drammatico, thriller.
“Anatomia di una caduta” (Anatomie d’une Chute) della regista francese Justine Triet. scritto con il marito Arthur Harari, ha vinto la Palma d’Oro alla 76.ma edizione del Festival di Cannes.
L’incipit è di una efficacia sorprendente. Siamo sulle innevate Alpi francesi, è una bellissima giornata e, nel salotto luminoso di uno chalet isolato, due donne cercano di avere una conversazione, bevono vino, tra loro si coglie una certa tensione seduttiva.
Si tratta di Sandra (Sandra Hüller), scrittrice tedesca di successo, e di una giovane studentessa che cerca di intervistarla. Improvvisamente irrompe sulla scena il marito di Sandra, Samuel (Samuel Theis). Non si fa vedere, ma si fa sentire fortissimo e chiarissimo, perché dal piano di sopra fa partire in loop ad altissimo volume la versione strumentale di P.I.M.P. (2003), il brano del rapper ’50 cent’, il cui testo è profondamente provocatorio e violento, si dà per scontato che lo si conosca.
È evidente che è un gesto aggressivo nei confronti della moglie, che la costringe a congedare malvolentieri l’ospite. Vediamo Sandra salire le scale e, poco dopo, Daniel (Milo Machado Graner), il figlio undicenne ipovedente, tornare da una passeggiata con il suo cane. È lui a ritrovare, riverso sulla neve, Samuel, che noi vediamo dall’alto, con la testa spaccata in un lago di sangue, stavolta in carne e ossa, ma già cadavere.
Potremo conoscerlo come era da vivo attraverso diversi flashbak nel corso del film: è un uomo fallito nelle sue ambizioni di scrittore, depresso e alcolista, schiacciato dai sensi di colpa per non essere andato a prendere il figlio a scuola il giorno è stato vittima dell’incidente per cui ha perso la vista.
Un fatto è certo: è caduto dalla finestra. Ma come è accaduto: un drammatico incidente? Un suicido? Un uxoricidio?
Sandra, l’unica possibile sospettata, viene indagata per omicidio e processata. La difende Vincent (Swann Arlaud), un avvocato con cui lei ha avuto una relazione anni prima, il che rende anche questo rapporto vischioso e invischiante.
Questo film è stato definito un thriller psicologico e processuale, ma è anche una interessantissima lezione di medicina legale. A me ha anche rievocato le lezioni di anatomia patologica cui ho assistito da studentessa, e non solo per il titolo. Lì il professore, dopo l’esame esterno, dissezionava il cadavere con grande accuratezza alla ricerca delle cause del decesso. Ogni organo interno veniva esaminato, compreso il cervello, estratto segando la calotta cranica con un rumore che ancora oggi ricordo con un brivido. Poi venivano fatti i rilievi per lo studio istologico al microscopio. Non venivamo resi edotti di conclusioni definitive, per certo a noi studenti rimaneva attaccato l’inconfondibile odore della morte e la consapevolezza della nostra finitezza.
Sono rimasta due ore e mezza con gli occhi incollati allo schermo, con la stessa attenzione con cui seguivo quelle lezioni, provando un insieme di sensazioni difficili da riconoscere, sospesa tra curiosità voyeristica, disgusto, desiderio di capire e nello stesso tempo di tenere le distanze da quello che vedevo.
Di cadute da esaminare, nel film, ce ne sono tante: la caduta un uomo da una finestra; la caduta di enormi responsabilità su un ragazzino particolarmente fragile; la caduta di una donna e di tutta la sua famiglia sotto la lente d’ingrandimento — o meglio la lente di un microscopio — di indagini e di un processo angosciante che mettono a nudo le violente conflittualità della coppia e la sua incapacità ad assumere funzioni genitoriali adeguate.
Cade anche il confine tra la vita reale e finzione, tra fatti e fantasie: ci sono tanti indizi, ipotesi, punti di vista, opinioni, visioni, versioni, ma nessuna prova inconfutabile.
Il processo fa emergere, in un crescendo a tratti estenuante, come l’amore, in una coppia, possa trasformarsi in odio; come le recriminazioni e le accuse reciproche siano alibi per nascondere a se stessi l’incapacità di prendere in mano la propria vita; come il senso di colpa possa rendere impossibile la riparazione e portare alla distruzione; come l’ambizione e l’egoismo possano travolgere gli affetti autentici; come l’opinione pubblica possa schierarsi crudelmente contro una persona, mettendo a nudo ogni particolare della sua vita privata.
Sono rimasta sedotta e infastidita dall’ambiguità dei personaggi, dalla loro reticenza, dalla loro incapacità —- o intenzione — di dire e di dirsi la verità. Hüller è magnifica nell’interpretare una donna dalla personalità complessa, inafferrabile, opaca, mascolinizzata nell’aspetto e nel carattere, con una fisicità che si impone prepotentemente nella scena. Sembra capace di usare anche la lingua per nascondersi: dove tutti parlano francese lei, tedesca, vorrebbe imporre l’inglese, che non è la lingua madre di nessuno. Lei si ostina caparbia a parlarla, creando una sorta di filtro emotivo tra se stessa e gli altri. Riesce a farlo in qualche momento anche al processo, dove è invitata a esprimersi in francese. La comunicazione diventa ostica e ostile, e questo si coglie molto bene se si vede il film in lingua originale.
La verità viene occultata in tutti i modi e ad ogni costo, e quello che sembra non è mai quello che è. Ma la verità, come afferma uno dei personaggi secondari del film, in fondo non è che una scelta, è ciò a cui si decide di credere a proprio vantaggio.
Anche gli spettatori quindi cadono, loro in preda al dubbio. Alcuni ho sentito anche ad un senso di noia, che immagino difensivo. È difficile identificarsi con protagonisti dalla personalità tanto sfaccettata e con tratti così disturbanti, che vedono e non vogliono guardare, che non vedono se non con gli occhi dell’immaginazione, che sentono solo quello che vogliono ascoltare.
Forse possono mettersi nei panni dello sfortunato Daniel, costretto a immaginare l’inimmaginabile, portatore della testimonianza decisiva che non sapremo mai se è vera o falsa. Qui il terzo paterno, come Dio, nietzschianamente è morto da ben prima che Samuel cadesse dalla finestra. Ma anche la madre è psichicamente morta per il figlio — fredda e distante, narcisista, incapace di spendere una lacrima per il marito morto. Ma quel bambino ha solo lei: può rischiare di perderla?
Non c’è sollievo né assoluzione per nessuno, lo dice anche la protagonista. Ce lo confermano gli occhi ciechi di Daniel, forse gli unici che colgono l’essenziale, e che può affidarsi solo al suo cane, anche per raccontare una storia che abbia un senso.
È come aver assistito a una autopsia, si esce dal cinema sconcertati, e con la morte appresso.
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