Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
30 settembre 2024
In questi giorni è mancato Alberto Spadoni, psicoanalista di Bologna con cui anche molti Soci del Centro Veneto hanno avuto legami affettivi e di formazione.
Desideriamo ricordarlo e stimolare la curiosità di chi non ha avuto l’occasione preziosa di conoscerlo condividendo un suo scritto che è un suo lascito indirizzato a tutti noi: “Decalogo dello psicoterapeuta responsabile”.
di Alberto Spadoni
Cari amici del Centro bolognese e di quello padovano,
desideravo inviarvi un mio scritto che serva di ricordo e ringraziamento per la vostra bella festa, ma non sentendomi capace di mettere insieme qualcosa di serio ho pensato di spedirvi gli appunti dai quali ho tratto l’ultima lezione agli allievi SPI. Sono passati già parecchi anni e spero che questi miei pensieri conservino le mie intenzioni di allora, che erano giocose, provocatorie, controcorrente quel che basta.
Voglio ricordare che il mestiere dello psichiatra e ancor più quello dello psicoanalista li ho vissuti in compagnia di molti di voi e dei tanti colleghi che ci hanno lasciato. Lavorare insieme non è stato soltanto un gran piacere per me, ma un’imprescindibile necessità perché il confronto, il sostegno e l’aggiornamento si possono fare solo all’interno di un gruppo allargato e solidale. Spero di non annoiarvi.
Decalogo dello psicoterapeuta responsabile
Premessa: so bene di non dire cose originali, ma solo di ripetere quanto ho appreso dai fondatori, specialmente da Freud, Ferenczi, Balint e Winnicott, dagli amici indimenticabili Molinari e Carloni, poi dai pazienti che puntualmente hanno confermato, senza saperlo, le opinioni dei maestri, e infine quanto (tanto!) ho imparato dai miei errori.
Vorrei fosse subito chiaro che questo decalogo non è ancora una cosa sufficientemente seria. Lo potrà diventare se e quando vi metteranno mano i colleghi, quelli che si tengono al corrente delle novità, che sono ancora della partita e che hanno il gusto del gioco. Sarebbe bello e utile che ciascuno ci mettesse qualcosa di suo, al fine che gli sembri più vero, più chiaro, più utile. Coraggio! Questa è solo una traccia.
Articolo nº 1. In analisi e in psicoterapia analitica, all’opposto di quanto avviene in chirurgia, la parte più importante del lavoro vien fatta dal paziente, grazie al suo bisogno di rivelarsi e al ritrovato esercizio delle sue preziose componenti autoriparative volte al ricupero della salute mentale in concomitanza con la ripresa della crescita (l’ippocratico vis medicatrix naturae). Questa ovvia constatazione dovrebbe impedire ogni pretesa vanitosa del terapeuta, e invece…
Articolo n° 2. Quindi un compito fondamentale del terapeuta deve essere quello di favorire l’esercizio della parte sana del paziente, delle sue staminali mentali. I migliori risultati, a questo riguardo, si ottengono adottando il setting analitico.
L’importanza terapeutica del setting analitico e la capacità di servirsene si apprendono solo sottoponendosi a un’analisi personale della durata sufficiente a mettere in moto le proprie valenze autoterapeutiche fino a ottenere un durevole beneficio a scapito della propria nevrosi e delle eventuali componenti perverse.
Articolo nº 3. La psicoanalisi e la psicoterapia su base analitica si fondano sul principio che curante e curato si devono porre in una tale vicinanza, sia pure nella separatezza, da consentire ai due protagonisti di comunicare e di influenzarsi reciprocamente sia in ambito mentale che in quello somatico.
Insomma, terapeuta e paziente, finché dura l’avventura analitica, vengono a trovarsi nella stessa barca, esposti alle stesse burrasche, entrambi decisi a venirne fuori dopo avere compiuto l’intero percorso, senza farsi tentare dalle scorciatoie. Questa straordinaria e particolare vicinanza, che non si ritrova in nessun’altra relazione terapeutica, è caratterizzata da un’asimmetria dei protagonisti all’interno della cornice del setting e dalla loro uguaglianza all’esterno di questo.
L’analista deve calarsi in una condizione di presenza raggiungibile e discreta che permetta al paziente di sentirsi “a contatto” (Rosenfeld, Carloni), naturale premessa al prezioso vissuto d’essere contenuto (Anzieu): qualcosa che ricorda la funzione materna di base e garantisce, oggi come allora, un buon drenaggio della paura.
A un livello non più preverbale ma simbolico l’analista sarà libero di utilizzare le proprie capacità associative e creative che favoriranno nel paziente la sensazione d’essere capito.
Articolo nº 4. Poste queste premesse, dopo un certo numero di sedute, diverso da caso a caso, è solito verificarsi nell’animo del paziente quel fenomeno che è alla base di ogni trattamento d’ispirazione analitica e senza il quale non può iniziare un processo terapeutico capace di indurre stabili e positivi cambiamenti. Si tratta di una particolare, specifica regressione, a carattere narcisistico.
L’investimento narcisistico è il vero motore che fa procedere il trattamento, è la principale fonte d’energia. Vengono prima o poi sperimentati e ricuperati vissuti narcisistici di completezza, di unicità, di onnipotenza, appartenenti alla relazione primaria e ora proiettati sulla coppia analitica, in maggior misura, ovviamente, sull’analista.
La grande invenzione di Freud è proprio quella di aver saputo indurre per via naturale una riattivazione delle componenti infantili senza ricorrere a tecniche suggestive, quindi senza spegnere la lucidità della mente e le facoltà razionali, indispensabili per costruire una robusta alleanza terapeutica e una migliore coscienza di sé. Tale regressione, fra l’altro, dà luogo a tre fenomeni di grande importanza: il risveglio dell’istinto filiale (Imre Hermann docet), il già citato investimento narcisistico e l’inizio di una più o meno intensa attività proiettiva sulla persona dell’analista. Questi accadimenti concorreranno nel determinare l’attaccamento al terapeuta (Bowlby), indispensabile per lo svolgimento di una cura che, sia pure nel caso di tariffa non esosa, è pur sempre un impegno assai oneroso sia per la spesa che per il tempo che richiede.
Il chiarimento sulla natura narcisistica della regressione analitica lo dobbiamo a Bela Grunberger che fu un prezioso padrino del Centro Psicoanalitico Bolognese degli anni settanta. Gli argomenti addotti da questo Autore riguardano la constatazione che i pazienti non psicotici si trovano immediatamente a loro agio, come se essere ascoltato in silenzio mentre si parla di sé in un piccolo spazio tagliato fuori dal mondo fosse un gran bisogno personale, che si esprime con il flusso continuo di ricordi, di paure, di rimpianti, tutti centrati su se stesso, anche quando vorrebbero essere dichiarazioni amorose “…mi sembra di amarvi ogni giorno di più, eppure non so niente di voi, perciò vi amo solo in rapporto a me stessa perché con me siete gentile, comprensivo, quindi sono io stessa che amo, attraverso di voi!” (Grunberger B. Le narcissisme, Payot, 1971, Paris). Dunque entrano in scena solo oggetti-sé (Kohut) e per un bel tratto non sono possibili relazioni d’oggetto vere e proprie.
Michael Balint consiglia di partecipare alla regressione del paziente sino a ritrovare, quando va bene, quella beata mescolanza dalla quale ripartire per un nuovo inizio. L’immagine usata da Balint è quella dell’acqua (l’analista) che sostiene il nuotatore (l’analizzando). Altri, più interessati ai fenomeni inconsci che s’intrecciano fra analista e paziente, hanno proposto d’immaginare che fra lettino e poltrona, se il processo avanza, s’incontrano e comunicano le radici biologiche arcaiche dei protagonisti.
Articolo nº 5. Se tutte queste condizioni si sono verificate l’analisi può partire, che abitualmente significa che può cominciare a far posto sulla scena della seduta a un numero crescente di personaggi, che hanno origine nel mondo interno del paziente ma passando nello spazio analitico diventano più oggettivabili, meno temibili, più vivi e interloquibili, grazie al fatto che ora, come già detto, vengono proiettati sull’analista: ecco quindi il Transfert!
Nei casi migliori l’analisi riesce a trasformare il bisogno di ripetere attivamente eventi e relazioni conflittuali (come difesa dalla paura di doverli, di nuovo, subire passivamente) fino a trovare nuovi scenari, altri testi, altri copioni che favoriscano un miglior uso del patrimonio interiore. Da un ripetere coatto, difensivo, paralizzante, a un ripetere per conoscere, per espandersi, per esercitare il sacrosanto diritto di crescere, nel senso di essere più largamente e intensamente null’altro di quello che si è.
King P. scrive: A volte considero la relazione analitica come un palcoscenico psicologico nel quale io, come psicoanalista, ho il compito di assumere qualsiasi ruolo che il mio paziente possa inconsciamente assegnarmi (Int. Jour. Psy., 53, 225-227.1962).
Articolo nº 6. Sembra finalmente, e si spera definitivamente, tramontata l’era delle miracolose interpretazioni che l’amico Grunberger metteva in rapporto con l’accanimento terapeutico e con i bisogni narcisistici dell’analista. Poco occorre, sul piano verbale, per aiutare il paziente ad apprendere dall’analisi. Brevi interventi, puntuali, detti con tatto, per lo più rivolti alle parti infantili.
Winnicott, che era partito come interpretone, secondo la moda inglese di quei tempi, imparò a tacere scrivendo quel che avrebbe voluto dire.
Una mia paziente, tanto disposta a collaborare quanto franca nel parlare, mi disse: Per favore stia zitto! Lo sa pure che lei è il mio pollo che cova! Se, come nel divertente racconto di Maupassant, siamo polli da cova, bisogna innanzitutto muoversi il meno possibile e con cautela per non rompere le uova prima che si schiudano. Nella divertente novella una geniale contadina normanna stanca di doversi occupare di un marito, se ricordo bene, pigro e ipocondriaco che passava a letto l’intera giornata, dispone al suo fianco sotto numerose coperte di lana una doppia fila di uova gallate. Puntualmente usciranno una gran quantità di pulcini e sarà una festa per l’intero paese: ne hanno tratto un grazioso film.
Sempre col fine di limitare all’essenziale i miei interventi mi è stato detto da un’altra paziente “…si ricordi che lei è il mio gattone che tutt’al più fa le fusa”, e ancora, una supplica di una terza persona, “…vorrei che prendesse esempio dal mio cagnone quando se ne sta acciambellato vicino a me, in perenne dormiveglia”.
Sacerdoti sconsigliava gli allievi ad apparire sapientoni e suggeriva di essere in seduta preferibilmente un po’ mona.
Articolo n° 7. Ogni paziente fa uso del processo terapeutico e della persona psicofisica dell’analista secondo personali bisogni e modalità che mutano nel corso della cura e sono molto diverse da caso a caso, ma sempre specifiche di ciascuna coppia analitica.
Più severa è la patologia da trattare, più coinvolgente sarà l’uso fisico che il paziente deve fare del terapeuta, più intensi saranno gli scambi intercorporei – che mi piace definire animaleschi – fra i due protagonisti (*). Uno dei vissuti più tipici che l’analista in questi casi gravi deve sopportare è quello dell’ingombro fisico dovuto a una sorta di reinfetazione salvifica che si protrarrà oltre la durata della seduta e invaderà, talvolta, lo spazio onirico del terapeuta (Pinocchio nel ventre del pescecane ritrova il padre e torna ad essere un bambino; Pinicorillo nella pancia della mucca completa la sua crescita sotto l’occhio vigile del padre).
Articolo nº 8. La parte mancante delle informazioni concernenti la realtà più intima e segreta del paziente proviene mediante comunicazioni inconsce che si organizzano in vissuti spesso oscuri di cui solo l’analista esperto sa cogliere l’origine esogena. Questo è il controtransfert. Gli allievi ne apprendono la presenza e l’uso nel corso delle supervisioni, poiché si tratta spesso di comunicazioni criptate che richiedono, per essere comprese, l’intervento di una terza persona al riparo dalle interdizioni oscuranti dell’inconscio dell’analizzando (Etchegoyen H).
Il riconoscimento dell’autonomia dell’oggetto comporta esperienze di massima distruttività in corso del trattamento, come è già capitato nell’infanzia; questa volta fortunatamente tali vicende sono accompagnate dalla rassicurante constatazione che sia il Sé che l’oggetto sono tuttavia sopravvissuti.
A proposito dell’evoluzione della relazione terapeutica Modell (Per una teoria del trattamento psicoanalitico. Cortina, Milano, 1994) ipotizza tre livelli: a) la deumanizzazione dell’oggetto; b) sostenersi autonomamente in un rapporto di contiguità (sfera nella sfera); c) la creatività condivisa che deriva dall’interazione di fusione e separatezza. Secondo Winnicott la fusione giocosa con l’analista, conservando un senso di separatezza, una volta raggiunta in corso d’analisi, è la condizione più favorevole alla creatività e al progredire del trattamento.
Articolo nº 9. Non sempre l’analista è attrezzato per occuparsi delle gravi patologie, sia quelle borderline che quelle francamente psicotiche, per la ragione che, in questi casi, capita inevitabilmente di doversi ammalare, in forma attenuata, della stessa malattia del paziente, condivisione necessaria per ottenere conoscenza e cambiamento. Occorre quindi una straordinaria capacità di tenuta nella burrasca senza l’aiuto dei segnali radio-satellitari, tutt’al più ricorrendo alla vicinanza di un supervisore competente (Searles).
Questa sorprendente possibilità di contagio ha i suoi lati positivi, come si diceva, nel senso di favorire una conoscenza più ampia e profonda delle più o meno disastrose condizioni psichiche dell’analizzando, e in particolare delle diverse forme che assume la sua massacrante disperazione. E’ l’unica strada che garantisce la presenza del terapeuta a queste profondità e che può attenuare il cronico vissuto di solitudine del paziente.
Se l’analista è ben addestrato, naturalmente vocato ed ha il suo santo in cielo, uno dopo l’altro, potranno risalire in barca e la navigazione riprenderà con buone probabilità di giungere in porto.
Occorre non sottovalutare la parte finale del trattamento che è dolorosa per entrambi i protagonisti: da qui la tentazione, nel caso delle psicoterapie, di tirar via. Può occorrere anche un tempo più lungo di quello che si rese necessario per l’avvio del trattamento. Una conclusione frettolosa può impedire, sia pure parzialmente, la risoluzione del transfert e la fine naturale dell’idealizzazione del terapeuta.
Articolo nº 10. Si è dato gran rilievo alla funzione contenitrice del setting analitico nel suo insieme (di cui la persona fisica ed emotiva del terapeuta rappresenta l’elemento fondante, vitale) in quanto parte assolutamente complementare rispetto al bisogno primario di poter regredire financo alla reinfetazione.
L’analisi, pur avendo l’inconveniente di durare così a lungo, contiene tuttavia la garanzia di un elemento separante che si concretizza già nel contratto, inteso soprattutto come pagamento, con la regola che si pagano anche le sedute “saltate”, comprese quelle dovute a malattie intercorrenti del paziente. Di solito simbiosi e separazione si alternano ad ogni seduta e c’è chi vede in questa successione l’avvicendarsi dei due fattori di base, quello materno e quello paterno (o” terzo “).
Dobbiamo umilmente ammettere che, al di là delle certezze che ci confortano, non sappiamo con esattezza che uso fa della nostra persona il paziente, sia in ambito fisico che psicologico, le principali interazioni riguardando, come si è visto, l’ambito presimbolico. Quindi ignoti risultano essere, non di rado, i meccanismi profondi che hanno consentito l’attuarsi di un cambiamento, la ripresa della crescita, la maturazione e talvolta la guarigione. E’ anche per questa consapevolezza che non dobbiamo prefiggerci un compito (Bion). Meglio limitarci a pensare che il paziente dovrà compiere un lungo viaggio all’interno di noi, un lungo bagno, una faticosa, ma anche piacevole nuotata come proponeva Balint. Noi potremo avvertire il peso di una persistente gravidanza, che, come si è detto, si farà viva nei nostri sogni (vedi “La malattia professionale dell’analista“), nelle associazioni, nelle sensazioni corporee di ingombro, di venire parassitati. Non ci resta che facilitare con la nostra passività gravidica il viaggio del paziente.
Alberto Spadoni
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(*) A un giovane che intendeva diventare scrittore e si era rivolto a lui per consigli, Aldous Huxley raccomandava di comperare una coppia di gatti, di osservarli e di descriverli. Gli diceva che gli animali, e i mammiferi in specie, e ancor più gli animali domestici, sono come noi, ma “senza coperchio”(da Primo Levi, in “Romanzi dettati dai grilli” ne “L’altrui mestiere“).
Al sottoscritto è capitato di accettare in seduta il paziente col suo cane, in due occasioni: si trattava di persone gravemente sofferenti, la prima per rischio psicotico, l’altra per grave depressione. Il soggiorno dei cani durò qualche mese e non ebbi a pentirmene perché si comportarono educatamente: il primo s’infilava subito sotto al lettino e sonnecchiava, era uno stupendo terranova; l’atro era un barboncino e la padrona lo tenne in grembo come un bambino sveglio e garbato.
Così lo ricorda per noi Carla Rufina Zennaro, una dei Soci fondatori del CVP.
Alberto Spadoni:
l’ultimo dei miei vecchi compagni di ventura se n’è andato definitivamente.
L’ ho considerato un fratello maggiore ed un maestro.
Ho “respirato” la sua profonda umanità, la sua conoscenza delle teorie psicoanalitiche, la sua ricchezza di pensiero, la sua capacità di esprimersi “lievemente”, sia per iscritto che verbalmente.
Gli ho sempre riconosciuto la dottrina, l’autorevolezza, l’impegno, la disponibilità verso amici, colleghi e pazienti.
Ha saputo fondere armoniosamente la sua cultura scientifica ed umanistica.
L’onestà intellettuale, la chiarezza, l’integrità morale erano alcune delle sue caratteristiche. Non è mai stato incline a compromessi, non è mai stato dominato da interessi privati. Con entusiasmo e generosità ha trasmesso, ha consegnato alle generazioni successive il messaggio essenziale dello stimolo a conoscere, ad investigare, a sperimentare con saggezza e curiosità. E preciso: non a curiosare, non ad intrudere perversamente, non a strizzare sadicamente cervelli, ma a spronare all’uso di un sana curiosità.
E’ stato un maestro innovatore della psichiatria e della psicoanalisi, sempre esercitate con tanto impegno e coerenza, ma anche spontanea semplicità, con profonda modestia, autentica umiltà.
I suoi scritti, semplici all’apparenza, sembrano di facile lettura, ma nascono da una ampia conoscenza della teoria e della tecnica psicoanalitica e da una pluriennale esperienza nell’ambito della psichiatria e della psicoanalisi.
Da Alberto Spadoni ho imparato che è indispensabile rispettare la dignità e l’individualità del paziente.
Aveva il convincimento di poter recuperare l’”anima”, anche la più smarrita, anche se poco vitale che abita ed è viva nell’essere umano anche il più ammalato.
Aveva una solidità ed una serenità di base che gli permettevano di incontrare con fiducia il paziente e che gli permettevano di sperare per due, vale a dire anche per il paziente, quando questo avesse difficoltà a credere in un futuro migliore.
Voglio ricordare Alberto Spadoni come l’ho conosciuto la prima volta sulla porta di casa di Egon Molinari: era una serata autunnale, non so più di quale lontanissimo anno ed aspettavo, con un po’ di apprensione, ma anche di curiosità, di suonare alla porta per partecipare al seminario (per me sarebbe stato il primo cui avrei partecipato a Bologna). Non volevo entrare da sola ed aspettavo fiduciosa che arrivasse un qualche sconosciuto condiscepolo. Ad un certo punto, vidi avvicinarsi un giovin signore dai capelli biondi e con i baffi d’altri tempi. Io, del Nordest (anche se la mia regione di provenienza non era ancora così denominata), legata anche per formazione professionale, all’aerea mitteleuropea, pensai ad un ufficiale austroungarico, compito, ma anche seducente ed affascinante. Sperai che si comportasse da vero cavaliere con la giovane signora, che ero poi io, dall’aria un po’ smarrita, ferma davanti ad una porta. E fu così che conobbi Spadoni: egli mi tolse d’impaccio, fu subito simpatia e gli fui grata. Non avrei potuto incontrare persona più adatta, più aperta, più disponibile per essere introdotta nel nuovo ambiente. Così incominciò una duratura amicizia sebbene fatta di pochissima frequentazione. Più conoscevo Spadoni più mi sentivo a lui vicina, più lo ammiravo per la sua umanità, per la sua attendibilità, per la sua coerenza, innanzitutto verso se stesso e poi verso gli altri, per la sua vasta, diversificata cultura.
Col passare degli anni lo incontrai sempre meno, ma è sempre stato presente nella mia vita, mi ha accompagnata nella mia quotidianità, è entrato a fare parte dei miei oggetti interni positivi, coi quali dialogo quotidianamente nel bene e nel male della totalità della mia vita.
Un abbraccio affettuoso, mio ultimo compagno di ventura.
C.R. Zennaro
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30 settembre 2024
In questi giorni è mancato Alberto Spadoni, psicoanalista di Bologna con cui anche molti Soci del Centro Veneto hanno avuto legami affettivi e di formazione.
Desideriamo ricordarlo e stimolare la curiosità di chi non ha avuto l’occasione preziosa di conoscerlo condividendo un suo scritto che è un suo lascito indirizzato a tutti noi: “Decalogo dello psicoterapeuta responsabile”.