Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Maria Ceolin
L’8 giugno 2019, a Padova, presso l’Asvegra, su iniziativa di Alessandro Volpato, si tenne un Incontro commemorativo: Ricordando Salomon Resnik, nel quale si condivisero ricordi, affetti, pensieri su di lui. Quando mi chiesero di fare un intervento, pensai di dare spazio alla sua inseparabile compagna, Ana Taquini Resnik, per darle tutto il riconoscimento che le era dovuto e, forse, per tenere ancora insieme la loro coppia… senz’altro ero mossa dal desiderio di farle piacere, perché Ana mi ha sempre suscitato, oltre che fascinazione, anche una intensa simpatia, un certo senso di protezione.
Compagna di vita, prima insostituibile interlocutrice di Salomone, Ana Taquini Resnik (1943-2020), è stata, a sua volta, una psicoanalista originale e profonda, membro autorevole della Società Psicoanalitica di Parigi e dell’IPA, presidente del Centro Internazionale Studi Psicodinamici della Personalità (CISPP).
L’avevo ascoltata per la prima volta molti anni prima, ad un seminario del Centro Psicoanalitico di Bologna, e non ho mai dimenticato il suo originale modo di esprimersi, un modo poetico di dire le cose, con il suo accento sudamericano, capace di dare ai pensieri una consistenza particolare insieme un po’ sognante e piena di corpo; ricordo ancora quanto allora disse, a proposito del ‘gioco del rocchetto’: ai bambini abbandonati non resta che giocare con sé stessi, giocare a farsi sparire…
In occasione del Seminario presso l’Asvegra, avevamo, allora, concordato insieme le domande di una lunga intervista che le avrei posto la mattina dell’incontro, poi all’ultimo momento, per motivi di salute, Ana non era potuta arrivare da Parigi e, molto dispiaciuta, mi aveva concesso di farle da portavoce.
A seguire riporto qualche brano dell’intervista, ho cercato di restare il più fedele possibile alle sue parole:
Il filo conduttore tra me e Salomon è stata sempre la psicoanalisi: fin da bambina, quando in quei tempi di cultura, dove non esisteva l’informatica, io, piccola, guardavo gli adulti con avidità, il papà ogni giorno mi veniva a prendere a scuola e facevamo un percorso di tutti i bar di Buenos Aires – non so se lo portavo a casa io, o era lui a portar a casa me – ed arrivavamo in un bar chiamato ‘jockey club’, frequentato dagli intellettuali: Borges, che viveva accanto a casa mia, e Victorio Ocampo, il poeta surrealista Aldo Pellegrini, David Fogelman che fu il primo traduttore di Kafka, il musicologo Catz… mio padre, molto conosciuto da tutti, arrivava con due bambine vestite con panama e guantini bianchi, i camerieri mi davano da mangiare e, mentre gli intellettuali parlavano, io ascoltavo i loro discorsi, guardavo ed ero guardata.
Il filo conduttore con Salomon nasce già lì… a 14 anni andavo all’ospedale psichiatrico perché amavo lavorare lì, e lì lavorava Schlossberg che era suo amico.
E la seconda volta che ho incontrato Salomon erano appena arrivate per la prima volta in Argentina, le nove sinfonie di Mahler, e siamo rimasti tutta la notte ad ascoltarle. Salomone mi chiede: cosa ti piace? Paul Eluard… e mi viene in mente un verso che dice: ’in alto del tuo muro costruisco il mio nido’ … e non ci siamo più separati.
Chi ha avuto la fortuna di frequentare insieme Ana e Salomone ha assistito alla vivacità del loro rapporto, nel quale Ana è stata una partner piena di brio, sempre pronta a tenergli testa su tutto, su argomenti di cultura e anche di psicoanalisi…
Chiedo ad Ana cos’è la psicoanalisi nella sua vita? qual è la sua psicoanalisi?
Non lo so– mi risponde- è come una piantina che è cresciuta dentro di me.
E mi racconta: nel silenzio di un paziente, mi era tornata in mente una violoncellista che aveva vinto un premio della musica e si era comprata un piccolo violoncello, e lo toccava qua, lo toccava là, piano, come fosse il cuore, il corpo, sapendo che poteva far soffrire lo strumento perché da 300 anni non aveva mai suonato… e il paziente ha detto: questo strumento sono io… sì, questo è il processo psicoanalitico… tante volte uno vuole avvicinarsi ma fa male.
Era, allora, appena uscita in Francia una raccolta di saggi: ‘Salomon Resnik uno psicoanalista in ascolto della follia’. Ana ne aveva scritto la Postfazione, e in essa ci teneva particolarmente a ricordare quanto Salomone fosse preoccupato del rigore del setting, sempre, ma in special modo quando, nella cura dei pazienti più gravi, vi era il bisogno di accoglierli assumendo certe libertà creative.
Ella metteva in luce come la grande libertà di Salomone fosse frutto di tanto studio e tanto pensiero, e io tengo a dirlo, oggi, di lei. Ne trascrivo alcuni passi (tradotti un po’ malamente dal francese) nei quali collega rigore e libertà, dimensioni i cui aspetti antinomici ha cercato continuamente di integrare:
La libertà nella pratica della psicoanalisi non è solamente compatibile con il rigore del suo setting, ma è soprattutto la sua condizione necessaria. La libertà che ci si prende non è una esenzione dal rigore di cui parlo, essa lo contiene, perché è una libertà che segue un’indicazione clinica e terapeutica. È una libertà necessaria perché certi pazienti – o tutti i pazienti in momenti diversi – possano ricevere quell’ascolto appropriato che permette di continuare la cura.
A volte con i pazienti è assai importante non cadere nell’assurdo. Se per esempio un paziente ha bisogno di passare dal divano alla poltrona, è auspicabile, anzi necessario, che, in quel momento possa incontrare un analista capace di supportare questo… analiticamente! Ciò che distingue quest’atto da quello che conosciamo come acting-in, e lo rende un momento altrettanto psicoanalitico, è proprio il quadro interno dello psicoanalista che lo riceve. Ciò che sarà compreso e analiticamente pensato su quel momento. Ma, in attesa del momento in cui verrà pensato (solitamente nell’apres-coup perlaborativo), accogliere il ‘linguaggio del paziente’ gli permetterà di imparare a conoscersi profondamente e ad amare la propria sofferenza. Di essere in grado di amare le sue paure, le sue fobie, il suo panico, e anche imparare a rispettarli.
Questo è fondamentale per una certa psicoanalisi, quella che si pratica dopo molti anni di formazione (2019,186-187).
E, poco più avanti, continua, con il suo modo di pensare sempre complesso e attento al presente:
Questo mi porta a pensare ad un altro problema intorno ai limiti. Oggi noi viviamo in una società che sembra esaltare il ‘senza limiti’. Anche i pazienti di questa cultura, che non sono necessariamente i pazienti gravemente disturbati di cui parlo, rivendicano innanzitutto qualcosa di questo ‘senza limiti’ all’interno del setting e a volte attirano con forza la condiscendenza dell’analista. Questo tipo di adattamenti seguono una logica completamente diversa e, se li si osserva più da vicino, si nota come rischino di inscriversi in forme di psicopatia, dissimulate da un’apparenza molto ‘politica’.
Nondimeno, anche in questo caso, dobbiamo contribuire a far scoprire a questi analizzandi che esiste qualcos’altro. Le questioni dei limiti ai quali sto pensando non sono, dopotutto, così lontane fra loro. Nel caso di storie di incesto, per esempio, è importante insegnare alla persona traumatizzata che esistono altre forme di legame. Come? Certamente non attraverso un atteggiamento falsamente o scioccamente empatico (‘quale orrore, il vostro aggressore…’, etc.), ma accettando, in modo diverso, il comportamento del paziente intriso di queste tracce incestuose. Penso a una paziente che veniva in seduta in pigiama, nascosto sotto il cappotto, e con il suo cane. Un giorno mi disse che le mancavano dieci euro per mangiare. Io accettai di donarglieli. Il mio gesto ci portava fuori dal quadro analitico? La paziente mi rispose: ‘le voglio bene’ e io le risposi: ‘anch’io’. Io inscrivo indubitabilmente questo scambio dentro un quadro analitico. Significava per la mia paziente che non tutte le relazioni basate sull’ affetto e sull’amicizia corrono il rischio di scivolare nell’incestuale. Questo era ben presente nel mio pensiero quando ho assunto il compito di accogliere il suo atto di richiesta e il mio atto di risposta. Soprattutto, sostengo che tale atto-risposta tratti l’incesto. Vi sono atti – inscritti nel transfert – che curano la dimensione patologica degli atti stessi. Atti accolti e accettati e non – ovviamente – atti proposti ex nihilo dall’analista, per qualsiasi motivo.
E a condizione – e solamente a questa a condizione – di farlo dentro il transfert, nella cornice di questo transfert e all’interno della sua costante critica elaborativa. Atti o libertà nel transfert non significa ’sottoposti al controllo’ del giudizio dell’analista. Dentro il transfert significa: mentre si è in contatto molto stretto, con il proprio inconscio al lavoro e con il proprio sé infantile (ibid., 188).
Accettare il linguaggio del paziente non è dimenticare il nostro, il nostro deve sempre essere psicoanalitico. Ma vivo! (ibid., 191). (…) C’è infatti un altro narcisismo, un narcisismo di vita che aiuta ad amarsi e che trasmette al paziente questa capacità di amare sé stesso, perché egli ne ha bisogno per rifare la sua pelle e chiudere alcune delle sue cicatrici (ibid., 192).
Quando Salomone era presente in un gruppo, in una stanza, creava attorno a sé una magica atmosfera, una disseminazione generosa di affetti, sogno, pensiero, fantasia, calore… vicino a lui l’aria si addolciva, tutto diventava più tenero; questo era qualcosa di unicamente suo, la delicatezza e il rispetto nel suo accostarsi all’altro, ma anche nel pensarlo o nel pensare alle cose della vita, nel mettersi in gioco e nel farle giocare. Ed era molto evidente come, in lui, tutto ciò fosse frutto di un continuo, profondo lavoro interiore di contenimento e trasformazione dei contenuti dolorosi, violenti, angoscianti in qualcosa di diverso, di più lieto, leggero e meno spaventoso.
Ciò che distingueva Ana, come psicoanalista e come donna, è stata, secondo me, invece, senz’altro la sua grande capacità di vivere la passione.
Bibliografia
Reca M. (a cura di) (2019). Salomon Resnik. Un psychanaliste a l’écoute de la folie. L’Harmittan, Paris.
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