Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Elisabetta Marchiori
A cura di Elisabetta Marchiori
Titolo: No Other Land
Dati sul film: regia di Basel Adra, Yuval Abraham, Hamdan Ballal e Rachel Szor, Palestina, Norvegia, 2024, 96′
Genere: documentario
Trailer: Video
Ma una storia non dura che nella cenere
E persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno
Chi l’ha ravvisato non può fallire nel ritrovarti
(E. Montale, 1956, Piccolo testamento)
C’è questa bambina dai capelli biondi, avrà tre o quattro anni…gioca tra le pietre della sua terra brulla e pietrosa, si dondola su un’altalena — che è un mistero come possa stare appesa dentro una specie di tenda — scrolla lo schermo del suo smartphone avvolta nelle coperte. Poi c’è questo bambino dagli occhi enormi, scuri, è un po’ più piccolo di lei..sta imparando a parlare, indica quello che vede intorno a sé in braccio al papà, offre un dattero a qualcuno di famiglia, mentre mangiano intorno al fuoco. Noi li vediamo entrambi crescere, questi due esseri umani, continuare a vivere e sorridere, malgrado tutto, per cinque anni…ma chissà se lo stanno facendo ancora — crescere e vivere e sorridere — lì dove sono nati. O se alla fine hanno dovuto cedere, sopraffatti, e andarsene con le loro famiglie. Hanno visto le loro case demolite dalle ruspe scortate da soldati armati in assetto di guerra — una, due, tre, chissà quante volte — la loro scuola rasa al suolo, i loro pozzi d’acqua coperti da colate di cemento, i loro animali — polli, capre, piccioni — ammazzati o scappati con la distruzione dei loro recinti. Hanno visto la gente del loro villaggio insultata, malmenata, derubata, ferita, uccisa, le madri piangere, i padri coperti di polvere ricostruire ancora e ancora, di notte, fino a quando gli attrezzi sono stati sequestrati. Conoscono quel ragazzo rimasto completamente paralizzato, che vive sdraiato su un giaciglio nella polvere, in una caverna, urlante di dolore, preda delle infezioni. Non può avere un letto e non può essere portato in ospedale, le auto sono state sequestrate. Sono neri i palloncini che volano in cielo, sfuggiti dalle mani dei manifestanti di un corteo pacifico di protesta, disperso con la forza.
Questo racconta No other land, scelto come Miglior Documentario al 74° Festival di Berlino, che ha conquistato il Premio Oscar 2025 con il coraggio, la passione, la disperazione e la speranza di Basel Adra, Yuval Abraham, Hamdan Ballal e Rachel Szor, giovani attivisti palestinesi e israeliani che lavorano insieme. Dal 2018 al 2023 hanno filmato, rischiando il carcere e la vita, la resistenza al trasferimento forzato degli abitanti dei villaggi palestinesi della regione arida e inospitale di Masafer Yatta, nel sud della Cisgiordania. È stata chiamata Zona di Tiro 918, destinata dalla legge all’addestramento militare e all’espansione degli insediamenti israeliani. I registi, negli anni, hanno postato immagini e articoli, li hanno diffusi nella speranza che altre persone, altrove — in quale altro mondo? —sapessero e facessero qualcosa, oltre a commuoversi. Ma allora le visualizzazioni sui social erano sempre troppo poche, ora la distribuzione del film è osteggiata dai Governi di diversi Paesi.
Basel, palestinese, laureato in giurisprudenza, attivista, giornalista e fotografo, e Yuval, israeliano, giornalista che si è rifiutato di arruolarsi e ha imparato l’arabo, le riprese le hanno fatte con il loro smartphone e le loro telecamere portatili. Fermi a testimoniare demolizioni e squarci di vita quotidiana, correndo ansanti durante gli scontri, schivando pallottole, sfuggendo alla cattura, puntandole in faccia ai soldati, riprendendo sassi, terra e cespugli, il caos delle lotte, urlando: “Stiamo filmando”. Non solo loro, anche tanti abitanti di Masafer Yatta lo hanno fatto, reporter improvvisati della loro vita e del loro destino, e le loro immagini sono state montate nel documentario. Filmare é atto artistico e contemporaneamente diventa azione parlante (Racamier, 1997), che richiama l’attenzione su aspetti drammatici di realtà che non possono essere espressi verbalmente o interpretati, che permette di trasmettere storie e memorie, opponendosi alla negazione dell’esistenza. Le sequenze sconnesse, alternate, interrotte, confuse, frammentate, trascinano con sé lo spettatore riluttante, incredulo, scosso. È così che il trauma si manifesta: non in una narrazione lineare, ma in frammenti, flashback, discontinuità. L’assenza di una colonna sonora tradizionale lascia spazio a un ambiente sonoro grezzo, in cui a momenti di silenzio carico di tensione si alternano il suono del vento o di passi sulla terra secca, esplosioni improvvise, urla, il fragore delle ruspe, il ronzio dei droni. È un film che provoca un’esperienza sensoriale immersiva, intensamente emozionante, che induce a provare dolore, rabbia, vergogna, paura, senso di impotenza.
A fare da contraltare, le conversazioni tra Yuval e Basel, la cui relazione è diventata profonda e amicale, oltre che lavorativa. Offrono una tregua e intrecciano parole che tentano di infondere senso alle immagini di terrificante violenza. Sono scarne ed intense, esatte, segnate da sorrisi e sguardi d’intesa. Il dialogo, l’unico strumento di salvezza, sarà mai realizzabile tra Governi in un conflitto così radicato? Questi due giovani uomini rappresentano l’incontro possibile tra due mondi opposti, in cui il riconoscimento reciproco è costantemente minacciato dal peso delle rispettive appartenenze. Nella separazione imposta dalle dinamiche di potere del sistema, l’uno libero e l’altro confinato, sono uniti dal senso di umanità, di solidarietà e di giustizia: “Ah, sei un israeliano che si occupa di ‘diritti umani’?” chiede Ballal a Yuval quando lo incontra per la prima volta.
No other land è un’opera che strappa il velo delle narrazioni ufficiali e mostra la realtà cruda dell’occupazione e la brutalità della distruzione, senza filtri estetici e senza retorica, rompendo l’illusione della distanza. Le storie di chi cresce, di chi viene ferito, di chi muore, di chi lotta e di chi sorride, la determinazione a vivere e ricostruire, sono il cuore della narrazione. Raccontare la quotidianità degli abitanti di Masafer Yatta nell’arco di cinque anni rende visibile il passare del tempo e il modo in cui le esperienze traumatiche si sedimentano, incidendosi nei corpi e nelle menti e trasmettendosi di generazione in generazione (Kaës, 2008).
In una condizione costante di estrema precarietà che struttura l’esperienza del mondo, mentre viene espropriata della propria terra, della propria casa, dell’integrità della propria famiglia, l’infanzia viene espropriata dell’innocenza[1]. Questa continuità della perdita alimenta la sensazione di un destino ineluttabile, un futuro già scritto che può trasformare la sofferenza in desiderio di vendetta.
“Cosa possiamo fare?” chiede Yuval a Basel, il quale risponde: “Possiamo solo continuare a filmare”. Questa domanda interroga direttamente e disperatamente ogni singolo spettatore.
“Solo quest’iride posso/ lasciarti a testimonianza/ d’una fede che combattuta/ d’una speranza che bruciò più lenta/ del duro ceppo del focolare”, recitano i versi della poesia di Montale Piccolo testamento (1956)[2], imparata a memoria in adolescenza. È stata scritta negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, quando il crollo delle grandi illusioni e degli ideali che avevano animato il passato fanno percepire al poeta sgretolamento del mondo. Quell’iride, la parte colorata dell’occhio legata alla visione, rimanda anche a quel fenomeno raro, effimero e fragile che è l’arcobaleno (Iris in greco). Ciò che può lasciare il poeta in eredità è solo uno sguardo, traccia madreperlacea di lumaca/ o smeriglio di vetro calpestato, ma pur sempre un segno di esistenza e resistenza. Anche No Other Land è un’iride lasciata a testimonianza, che dirige lo sguardo su quanto sta accadendo al popolo palestinese, davanti agli occhi accecati di un mondo assuefatto alla guerra e alla violenza. Ma è anche un ceppo di speranza che ancora arde: il tenue bagliore strofinato laggiù/ non era quello di un fiammifero.
Bibliografia
Montale, E. (1956). Piccolo testamento. In La bufera e altro. Torino: Einaudi.
Kaës, R. (2008). Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Roma: Borla, 2012
Racamier, J.C. (1997). Una comunità di cura psicoterapeutica. Riflessioni a partire da un’esperienza di vent’anni In A. Ferruta, G. Foresti, E. Pedriali, M. Vigorelli (a cura di) La Comunità Terapeutica. Tra mito e realtà. Milano: Cortina, 1998.
Racamier, P.-C. (1992). Il genio delle origini. Psicoanalisi e psicosi. Milano: Cortina, 1993.
NOTE:
[1] Il documentario Innocence (2022), diretto da Guy Davidi, evidenzia come anche i bambini israeliani siano vittime di un’educazione che li introduce precocemente al culto delle armi e della guerra, all’odio disumanizzante verso il nemico. Attraverso l’uso di filmati amatoriali e diari personali, il film, in parte autobiografico, racconta le storie di ragazze e ragazzi israeliani che, durante il servizio militare obbligatorio, hanno affrontato conflitti interiori così intensi da indurli al suicidio.
[2]Il testo completo della poesia https://www.viv-it.org/schede/piccolo-testamento-0
Articoli simili nei siti della Società Psicoanalitica Italiana
Condividi questa pagina:
Centro Veneto di Psicoanalisi
Vicolo dei Conti 14
35122 Padova
Tel. 049 659711
P.I. 03323130280