Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Mariagrazia Capitanio
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Lo scopo del primo incontro[1] di Ricorrenze di Umanità, Giorno della Memoria 2025, “Imre Kertész: leggerlo insieme” è stato quello di introdurre la figura e l’opera di I. Kertész, uno degli adolescenti sopravvissuti alla Shoah e divenuto scrittore; questo tema è stato affrontato nel suo complesso lo scorso anno (sempre in occasione di Ricorrenze) dallo psicoanalista D. Oppenheim[2].
Nell’introduzione la dr.ssa M. Capitanio, psicoanalista del CVP e curatrice dell’iniziativa, ha sottolineato che lo studio dei personaggi dei romanzi di Kertész permette di cogliere la complessità sia del lavoro che l’Io dispiega per far fronte a situazioni estreme (con particolare riguardo ai meccanismi di difesa) sia del gioco dinamico tra pulsioni di autoconservazione, libidiche e di morte. Successivamente, dopo l’ascolto di alcuni brani tratti da interviste[3] fatte allo scrittore e incentrate perlopiù su Essere senza destino (il suo romanzo più noto), il prof. A. Sciacovelli (FORLILPSI, Università di Firenze)[4] – che di Imre Kertész ha tradotto per Feltrinelli Fiasco (1988, ed. it. 2003) e Liquidazione (2003, ed. it. 2005) – ha introdotto la figura e l’opera dell’Autore illustrando le circostanze storiche, politiche, sociali e l’ambiente culturale in cui Kertész è vissuto, nonché i temi su cui ha riflettuto nelle sue opere.
Kertész nacque nel 1929[5] in un periodo molto particolare della storia ungherese. Alla fine del primo conflitto mondiale l’Ungheria aveva perso non solo la guerra, ma anche la pace, in quanto era rimasta dilaniata dai trattati di Versailles: numerose contee dell’Ungheria storica divennero infatti parte di altri Stati, ovvero il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, l’Austria, la Cecoslovacchia e la Romania. La Repubblica Popolare proclamata nel 1918, e poi la Repubblica dei Consigli (1919), ebbero vita breve, a causa dell’offensiva restauratrice che venne condotta dalle forze controrivoluzionarie guidate dall’ammiraglio Miklós Horthy (1868-1957), dal 1920 governatore del Regno d’Ungheria in qualità di reggente della corona ungherese. Per porre fine alla guerra civile che era scoppiata nel 1919 e che si era conclusa con il suo incarico di governo, all’inizio egli condusse una politica autoritaria, che in seguito, gradualmente, diede modo ad alcune forze politiche di instaurare un regime totalitario, anche grazie all’avvicinamento del Paese all’Italia fascista e alla Germania nazista.
Kertész, cresciuto in quel contesto e in una famiglia borghese di commercianti[6], visse fin verso la metà degli anni ‘30 in quella che si potrebbe definire una “apparenza di normalità”: sebbene infatti fossero già state sdoganate associazioni e voci fortemente antisemite e promulgate leggi sul numero chiuso nelle Università, in alcuni settori, ad esempio nell’industria dello spettacolo e nel mondo dell’arte in generale, persone o associazioni di origine ebraica non erano perseguitate. Il clima di pericolo causato da un sempre più diffuso antisemitismo tra la popolazione si acuì con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, quando Kertész aveva 10 anni.
Di lì a poco gli ungheresi si allearono con i tedeschi e chiesero la restituzione dei territori che avevano perduto alla fine della Grande guerra, recuperandone alcuni. Questa alleanza, però, non solo portò l’Ungheria in una situazione di forte subordinazione militare alla Germania, ma permise a un partito fortemente antisemita, che si rivelerà composto di irriducibili torturatori e devastatori, di guadagnare sempre più spazio sulla scena politica nazionale: il Partito delle croci frecciate. Sebbene l’Ungheria sia stata l’ultimo Paese dell’Europa centro-orientale a essere coinvolto nella deportazione[7], questa fu attuata e organizzata in maniera orribilmente ‘professionale’ e fu ‘ben funzionante’[8]. Era il periodo degli ‘ultimi trasporti’ ma questo non significa che fossero pochi: al contrario, furono numerosi e portarono allo sterminio di molte migliaia di individui e di famiglie[9]. Giorgio Perlasca[10] riuscì a salvare moltissimi ebrei a Budapest, ma questo non fu il caso di Kertész – nel giugno del 1944 ancora quattordicenne – che venne, con altri ragazzini della sua età, sequestrato durante una retata. Queste operazioni erano abbastanza frequenti e venivano messe in atto non dalle SS, ma dai gendarmi ungheresi i quali, in accordo con le autorità tedesche, dovevano raccogliere e condurre gli ebrei nei vagoni che li avrebbero portati nei campi di concentramento e di sterminio.
Kertész, arrivato ad Auschwitz, riuscì ad evitare la camera a gas mentendo, al momento della selezione, sull’età; inviato al lavoro forzato, rischiò di morire ma riuscì a sopravvivere, poi venne liberato nell’aprile del 1945 e tornò a Budapest. L’Ungheria, nell’immediato dopoguerra (prima, cioè, di essere sovietizzata con l’imposizione di un regime stalinista) conobbe un breve periodo in cui sembrò avviarsi verso la democrazia (quella che Sándor Márai[11] chiamò ‘democrazia rosa o color di rosa’) grazie all’esistenza di una forma di stato pluripartitismo. Fin dal 1946, la forte presenza dell’esercito sovietico lentamente cambiò la costellazione politica permettendo prima alla coalizione di sinistra e poi al Partito dei lavoratori di prendere il potere assoluto e di eliminare tutti gli altri partiti con processi farsa simili a quelli tipici dell’Unione Sovietica[12]. I dissidenti vennero eliminati e si creò un regime perfettamente in linea con le aspettative di Stalin.
In questo clima Kertész, diventato ormai giovane adulto, durante il servizio militare ebbe modo di conoscere la nuova situazione politica ungherese. Finito il servizio, si avviò subito ad un’attività semi-intellettuale collaborando con la rivista di filosofia “Chiarezza”, abbastanza affermata ma anche ‘pericolosa’ perché aveva avuto un inizio di tipo cattolico. Contemporaneamente Kertész lavorava come operaio: all’epoca, in un paese socialista, era permesso avere un’occupazione fissa in campo intellettuale solo a chi faceva parte delle varie associazioni, controllate dal partito, che riunivano gli artisti.
Nei primi anni ‘50 lo scrittore incontrò la futura moglie, Albina – donna perseguitata dal regime stalinista ungherese, il cui personaggio è presente in alcuni romanzi, per esempio in Fiasco (1988) – con cui conviverà fino alla morte di lei, avvenuta nel 1995. Furono anni molto impegnativi, a causa del vero e proprio regime stalinista il cui capo, il Segretario del Partito comunista Mátyás Rákosi[13] (citato spesso da Kertész non nei romanzi ma negli scritti), vero e proprio vassallo di Stalin, tenne in un pugno di ferro la politica ungherese (e la vita degli ungheresi) fino al 1953/54. Dopo la morte di Stalin, avvenuta nel marzo del 1953, riuscì a farsi largo una corrente meno radicale, quella rappresentata da Imre Nagy[14], che poi sarà il grande ‘eroe’ della rivoluzione di Budapest dell’ottobre del 1956. In quel momento, e per alcuni mesi, le frontiere vennero aperte e tutti coloro che ne ebbero la possibilità, fuggirono[15]. Anche il ventisettenne Kertész avrebbe potuto allontanarsi dall’Ungheria, vista la sua estrema avversione all’oppressione dittatoriale, coercizione peraltro già vissuta in maniera tragica durante il nazismo. Decise invece di non lasciare il Paese: come leggiamo nelle sue annotazioni, voleva restarvi per scrivere il romanzo riguardante la sua vita sotto il regime nazista.
Con la decisione di dedicarsi all’attività letteraria – e dato il particolare contesto politico – Kertész diventò quasi immediatamente una specie di clandestino, perché nei Paesi socialisti uno scrittore poteva vivere come tale solo se era regolarmente iscritto all’Associazione degli Scrittori, i cui membri erano dei veri e propri impiegati dello Stato, col compito di contribuire al mantenimento della politica culturale imposta dal partito. Kertész, che non era certo di questo avviso, visse per lunghi anni quasi da disoccupato, in una specie di limbo, cominciando a comporre (come ribadì spesso, anche nell’allocuzione per il Nobel 2002) partendo non dalla domanda “Per chi scrivere?”[16] ma dalla necessità di capire quale sia il rapporto tra chi scrive e la letteratura.
Mentre la moglie contribuiva al ménage familiare col proprio lavoro nel campo della ristorazione (cosa che le permetteva di conoscere persone che potevano fare dei favori), lui lavoricchiava scrivendo, insieme a due suoi amici, commedie di varietà. Ne compose molte, alcune anche di successo, ma non le troviamo nel suo curriculum vitae, perché non facevano certo parte della sua ricerca intellettuale. Tuttavia, questa attività gli permise di dedicarsi al suo progetto[17], quello di scrivere non un memoriale ma un romanzo sulla sua esperienza durante la Shoah[18].
Volendo allora conoscere e capire la relativa letteratura, Kertész cominciò a documentarsi su quella così detta ‘concentrazionaria’ (termine che per altro aborriva) notando che in Ungheria, come negli altri Paesi che avevano un regime simile (socialisti o comunisti, a seconda del caso), essa era al servizio della politica culturale dello Stato. Era una letteratura che faceva una chiara opera di propaganda, con armi retoriche abbastanza banali del tipo: “Noi siamo delle vittime, loro [i nazisti] sono i carnefici”. Per quel che riguarda il suo Paese, in molti scritti veniva omessa la responsabilità degli ungheresi[19], fatto che indirizzò la riflessione dello scrittore proprio sul discorso della responsabilità.
A causa della censura, in Ungheria il mercato proponeva un panorama letterario misero e Kertész dovette rivolgersi al mercato nero e agli antiquari perfino per recuperare autori e opere che sembravano non avere nulla a che fare con la Shoah (ma che lo interessavano per la sua riflessione filosofica) come, ad es., quelle di F. Nietzsche (La nascita della tragedia) e di F. Dostoevskij (Memorie dal sottosuolo). Lesse di J. Semprún Il grande viaggio (1963)[20], come pure gli scritti di Tadeusz Borowski [21], autore di racconti fortemente autobiografici, carichi di cinismo e di forte realismo, che Kertész apprezzava molto (finalmente la maschera era caduta), tanto che iniziò a indirizzarsi verso un tipo di letteratura non concepita come un’antologia di eventi ove vengono riportate (soltanto) le sequenze più interessanti: la vita, sosteneva Kertész, è fatta di una successione di momenti. In alcune situazioni (come ad es. l’arrivo ad Auschwitz – della durata di venti minuti – di Gyurka, l’adolescente protagonista di Essere senza destino) non c’è la possibilità di scegliere gli eventi: bisogna scrivere e ricordare ogni secondo. Questo tipo di scelta letteraria, definita come lineare (Kertész ne parla sia nel discorso di Stoccolma che in altri scritti), determinò anche il tipo di linguaggio usato nel romanzo[22]. Tutto, nell’opera, doveva essere ben ponderato: i personaggi, le situazioni, gli svolgimenti. Ma, soprattutto, il linguaggio doveva essere adeguato all’esperienza vissuta. Gyurka parla come un funzionario di medio-bassa categoria impiegando una lingua semi-ufficiale[23] che non poteva essere la lingua di un ragazzino di 15 anni. Proprio tale linguaggio, ai lettori della casa editrice a cui nel 1973 Kertész si rivolse per la pubblicazione del manoscritto, sembrò irrispettoso: era qualcosa che andava contro l’idea stessa di letteratura ‘concentrazionaria’ che, secondo loro, si doveva basare su schemi abbastanza semplici e, soprattutto, ben definiti. Il modo di esprimersi del protagonista, ciò che chiamavano ‘lo stile’, era al di fuori di ogni loro conoscenza. Per questo, e per altri motivi, il romanzo venne rifiutato[24] tramite una lettera che lo scrittore inserì nel libro successivo, (1988) Fiasco: “I lettori della nostra casa editrice hanno letto il Suo manoscritto e in base al loro parere concorde non approviamo la pubblicazione del suo romanzo. Riteniamo che la composizione artistica della materia derivante dalla Sua esperienza non sia riuscita nonostante il tema sia terribile e impressionante. Che il romanzo non diventi per il lettore un’esperienza impressionante, è dovuto in primo luogo alle reazioni del protagonista che sono a dir poco strane . Riteniamo comunque comprensibile che il protagonista adolescente non riesca a comprendere subito cosa stia succedendo intorno a lui (le chiamate dell’Arbeitsdienst, l’obbligo di portare la stella gialla eccetera) ma non riusciamo a spiegarci perché arrivando al campo di concentramento ritenga ‘sospetta’ la rasatura a zero dei prigionieri. Le frasi di cattivo gusto continuano: ‘neanche i loro volti sembravano ispirare fiducia: orecchie a sventola, nasi sporgenti occhi, incavati, delle luci minuscole e furbesche. Da ogni punto di vista sembravano comunque degli ebrei’.
Poco credibile anche che la visione dei forni crematori susciti in lui la ‘sensazione di una sorta di scherzo goliardico’, di ‘certe beffe’, poiché sa di essere un campo di sterminio, e che il suo essere ebreo è sufficiente perché lo uccidano. Il suo comportamento, le sue annotazioni assurde disgustano e offendono il lettore, che con rabbia legge anche la fine del romanzo, visto che il comportamento fino ad allora tenuto dal protagonista non offre appiglio a un giudizio morale, l’individuazione delle responsabilità (per esempio, i rimproveri fatti alla famiglia ebraica che abita nella loro casa). E dobbiamo accennare anche allo stile. Le Sue frasi sono espresse per lo più maldestramente, con grande fatica e purtroppo sono frequenti ed espressioni del tipo ‘…per lo più insomma davvero…’; ‘molto naturalmente, e un attimino oltre a ciò…’. Per questo le restituiamo il manoscritto. Distinti saluti” (1988,48).
La lettera è interessante perché fotografa lo sconcerto dei lettori della casa editrice. Il romanzo non entrava nella loro concezione; inoltre, dovevano stare ben attenti a non far pubblicare opere mal viste dal Regime. L’anno è il 1973: rispetto al periodo stalinista e a quello della repressione seguita alla rivoluzione del 1956 (che durò dal ‘56 fino ai primi anni ’60) era già un periodo meno oppressivo, ma si trattava pur sempre di un Paese socialista in cui tutto quello che si scriveva, rimaneva. Anche se c’era la possibilità di far sparire tutto e subito, era molto pericoloso fare degli errori. Ad es., in un passo molto significativo Gyurka vede lì nel campo una persona che assomiglia al preside della sua scuola. Ricorda che, durante l’inaugurazione dell’anno scolastico, costui aveva citato una massima latina: “ ‘Non scholae, sed vitae discimus. Studiamo non per la scuola ma per la vita’. Dunque, io avrei dovuto passare tutto il tempo a studiare esclusivamente per Auschwitz, mi venne da pensare. Mi avrebbero spiegato tutto in modo schietto, onesto, ragionevole. Invece per tutti e quattro gli anni di scuola non era stata detta nemmeno una sola parola in materia” (1973, 98). Una frase del genere era, per dei funzionari editoriali aderenti a un sistema culturale ‘ingessato’, assolutamente sconvolgente. Ma quello che probabilmente portò definitivamente alla bocciatura del manoscritto fu sicuramente il passo seguente: “Perché persino lì, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualche cosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli ‘orrori’: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno” (ib., 220). Sembra una provocazione ma in realtà – ha osservato Sciacovelli – è il frutto di un lungo processo di assorbimento di istanze filosofiche e letterarie (nonché di esperienze) che portarono Kertész a ritenere che l’ essere senza destino – il fatto che un meccanismo totalitario ci tolga tutto e ci privi addirittura del nostro destino, cioè ci tolga il senso della tragedia, il senso della catarsi – comporta che tutto diventi una beffa, tutto diventi falso. Questo falso, in primis, era proprio la retorica di quei romanzi che Kertész tanto criticava.
Su consiglio di amici egli sottopose il manoscritto a un altro editore (Szépirodalmi) che invece lo trovò interessante e lo pubblicò nel 1975. L’Autore entrò così a far parte dell’Associazione degli scrittori e cominciò a godere di alcuni privilegi, primo fra tutti quello di essere considerato ufficialmente un ‘lavoratore dell’ingegno’: finalmente non doveva più temere di essere perseguitato per il fatto di non avere una occupazione fissa (cosa considerata dai socialisti un reato); iniziò a frequentare altri scrittori ed ebbe accesso a un tenore di vita più agiato.
Una volta pubblicato, Essere senza destino non ebbe né una grande promozione né una vera diffusione. Fu però notato da uno scrittore dell’underground budapestino – Péter Hajnóczy[25] – che lo lesse e lo propose a György Spiró[26] il quale, all’inizio degli anni ’80, scrisse un articolo al proposito, cosa che diede a Kertész nuova visibilità. In pratica, da quando il romanzo venne terminato a quando venne letto dal pubblico (a dir la verità ristretto), passarono ben otto anni.
Nel frattempo – verso la fine degli anni ’70 – anche per motivi economici Kertész (che aveva studiato il tedesco a scuola e poi aveva vissuto nei campi nazisti) entrò nel circuito degli scrittori/traduttori. In realtà il suo tedesco era abbastanza lontano dal tedesco letterario e le prime traduzioni gli posero parecchi problemi che stimolarono sia la sua ricerca sul linguaggio (quando si traduce, ha sottolineato Sciacovelli, vi è quel momento del tutto particolare in cui si devono scegliere le parole da impiegare[27]), sia la sua sensibilità letteraria, poiché incontrò una serie di altri modelli linguistici. Egli tradusse, tra gli altri, opere di F. Nietzsche[28], H. Von Doderer [29], E. Canetti [30], J. Roth[31] [e, lo ricordo, S. Freud[32]]. L’ immersione in questa nuova vicenda ebbe, per la sua scrittura, una grande importanza.
Sciacovelli, nel suo discorso, ha citato dunque Hajnóczy: questo autore, verso la fine degli anni ’70, scrisse un interessante racconto – A halál kilovagolt Perzsiából (La morte è uscita cavalcando dalla Persia) – in cui il protagonista, un uomo in età abbastanza avanzata, è intento a scrivere un romanzo che si riferisce al sé stesso di dieci anni prima. Si tratta di una sorta di romanzo nel romanzo: il narratore, in terza persona, racconta il romanzo che sta scrivendo e noi lettori in pratica leggiamo un doppio romanzo.
Ebbene, Kertész usò questa particolare tecnica (mise en abyme ) nel suo secondo libro, Fiasco, pubblicato nel 1988[33] e ambientato nel periodo in cui János Kádár[34], il Segretario del Comitato centrale del Partito Comunista Ungherese, era il ‘grande padrone’ dell’Ungheria (a partire dalla repressione del ‘56 fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989). Il titolo si riferisce al ‘fiasco’ che, come sappiamo, è termine teatrale e indica uno spettacolo che non ha avuto successo, che non ha funzionato. In Fiasco Kertész riflette sul fatto che un secondo regime totalitario (quello kadariano per l’appunto) può ricostituire ciò che era successo in un precedente regime totalitario (quello nazista): può, cioè, togliere il destino.
Nel libro – facendo ampio riferimento a Essere senza destino perché ne vengono ricostruite le vicende – viene raccontata la storia di uno scrittore (chiamato ‘vecchio’) che decide di scrivere un romanzo[35] il cui protagonista – Köves – viene proiettato in una realtà parallela, trasformata, che pensa di conoscere ma che non è quella che immagina. Il lettore si trova così coinvolto in entrambe le storie.
Fiasco, rispetto a Essere senza destino, da un punto di vista linguistico è innovativo: Kertész questa volta usa un linguaggio ripetitivo e talmente attento ai dettagli da far innervosire, a volte, il lettore. Ciò comporta che ci si senta immersi in un’atmosfera molto particolare (creata ad arte ‘da’ e caratteristica ‘de’ i romanzi di Kertész): quella dell’oppressione indotta dal totalitarismo, una atmosfera che, ha ricordato Sciacovelli, ‘spinge’ sulle persone. Fiasco, inoltre, volle essere una ‘nuova provocazione’: parlare di che cos’è la scrittura, di che cos’è l’editoria.
Fiasco è anche un esempio di come Kertész utilizzò continuamente, per l’opera narrativa, le proprie annotazioni diaristiche[36]: è un ‘romanzo di annotazione’, tecnica che egli usò anche in opere successive quali (1992) Diario dalla galera (in questo caso le annotazioni sono messe insieme con un movimento narrativo) o (2016) Lo spettatore, il cui sottotitolo è proprio Annotazioni 1991-2001.
Poco dopo Fiasco, nel 1989 – l’anno dei grandi cambiamenti – lo scrittore diede alle stampe Kaddish per il bambino non nato. Kaddish è ancora una volta un romanzo di cambiamento: si tratta di una sorta di lunghissimo monologo in cui viene raccontato perché, dal protagonista, non nascerà un figlio dopo Auschwitz. Libro molto complesso, richiamò sull’Autore (che già iniziava ad essere conosciuto sia per Essere senza destino sia come traduttore[37]) l’attenzione dell’editoria tedesca[38].
Con il mutamento di regime Kertész iniziò a vivere un momento di ‘celebrità’ al negativo: emersero infatti forze dichiaratamente antisemite con cui si trovò a dibattere su un palcoscenico molto ingrato[39] anche se dalla sua parte si schierarono anche intellettuali non ebrei, come lo scrittore Péter Esterházy (Budapest 1950-2016). Tuttavia, la fama che l’Autore incominciava ad avere in Germania (anzi, era più letto là che in patria) gli consentì, per uno strano intreccio tra politica e cultura, di avere una certa forza: in quegli anni lo stato tedesco era un partner economico privilegiato dell’Ungheria e quest’ultima non poteva permettersi di essere ‘scorretta’ nei confronti di un Paese che stava appoggiandone la ricostruzione dopo la caduta del socialismo.
Invitato spesso nei paesi germanofoni nel corso degli anni ‘90 e poi sempre di più nei primi anni 2000, lo scrittore, divenuto estremamente insofferente alla politica ungherese e alle associazioni con tendenze antisemite più o meno nascoste, iniziò ad allontanarsi dall’Ungheria spostandosi verso la Germania, tanto che arriverà a dire provocatoriamente di essere uno scrittore tedesco magiarofono. La provocazione era dovuta all’amarezza nel constatare che tutto quello che aveva portato alla sua deportazione da giovane stava in qualche modo ritornando. Kertész si propose allora di riflettere sul perché di questo ritorno riaffrontando una questione per lui fondamentale, quella della responsabilità o, meglio, della fuga dalla responsabilità, cosa che aveva già vissuto al suo ritorno dai campi di concentramento (‘Ungheresi brava gente’). Dopo la caduta del socialismo si stava ripetendo lo stesso processo: tutti volevano ‘tirarsi fuori, figurare come vittime’. Da qui nacque Liquidazione, romanzo in cui Kertész ritornò ancora una volta sul discorso del fallimento (liquidazione nel senso proprio del termine) che questa volta riguardava il post-1989. Il romanzo venne pubblicato nel 2003, dopo il Nobel – arrivato nel 2002 anche grazie all’editore tedesco Siegfried Unseld [40], strenuo sostenitore di Kertész – ma la sua scrittura era iniziata tempo prima.
Il Premio Nobel, dunque. Il primo della letteratura ungherese. Ebbene, tale conferimento venne considerato da alcuni elementi della pubblicistica e della politica ungherese, che in questo modo rivelavano le proprie idee antisemite, come una specie di affronto. Si propalò l’idea che non avesse senso aver dato un simile riconoscimento ad uno scrittore ‘quasi sconosciuto in Ungheria”; inoltre, poiché i suoi libri erano tradotti in tedesco, si fece circolare l’opinione che i tedeschi favorissero “i nostri scrittori peggiori: gli ebrei, i liberali e così via”. Gli anni dopo il Nobel pertanto furono, per Kertész, molto impegnativi, cosa che lo spinse a riflettere ancora sulla letteratura e sul valore delle opere letterarie.
Il Premio, tuttavia, diede all’Autore un benessere economico che gli consentì di trasferirsi con la seconda moglie a Berlino; non molto tempo dopo si evidenziarono i sintomi del morbo di Parkinson[41] e lo scrittore si trovò a dover fronteggiare problemi fisici sempre più seri tanto che, su consiglio di Magda, ritornò in Ungheria, dove morì il 31 marzo 2016, all’età di 86 anni. Negli ultimi suoi scritti il riferimento al corpo fu frequente, come peraltro lo era stato anche in Essere senza destino, dove affrontò in maniera magistrale la questione del corpo adolescenziale. Osservando e descrivendo molto onestamente la sua vecchiaia malata e il proprio decadimento fisico[42], egli non volle celare neanche questa verità: non intendeva, scomparendo dagli schermi, dare di sé una rappresentazione abbellita e falsa, quella di uno scrittore vecchio, canuto ed elegante.
Bibliografia
Kertész I. (1975). Essere senza destino, trad. dal tedesco di B. Griffini, Milano, Feltrinelli, 1999.
(1988). Fiasco, trad. di A. Sciacovelli, Milano, Feltrinelli, 2003.
(1990). Kaddish per il bambino non nato, trad. di M. R. Sciglitano, Milano, Feltrinelli, 2006.
(1991). Il vessillo britannico, trad. di G. Pressburger, Milano, Bompiani, 2004.
(1992). Diario dalla galera, trad. di K. Sándor, Milano, Bompiani, 2009.
(1997). Io, un altro: cronaca di una metamorfosi, trad. di G. Pressburger, Milano, Bompiani, 2012.
(1998). Il secolo infelice, trad. di K. Sándor, Milano, Bompiani, 2007.
(2003). Liquidazione, trad. di A. Sciacovelli, Milano, Feltrinelli, 2005.
(2003). «Eureka – Discorso per il Nobel», trad. di B. Tottossy, in «Lettera Internazionale», n. 76, 59-62.
(2004). Storia poliziesca, trad. di M. R. Sciglitano, Milano, Feltrinelli, 2007.
(2006). Dossier K . Milano, trad. di Marinella d’Alessandro, Milano, Feltrinelli, 2009.
(2016). L’ultimo rifugio. Romanzo di un diario, trad. di M. R. Sciglitano, Firenze-Milano, Giunti/Bompiani, . 2016.
(2016). Lo spettatore. Annotazioni 1991-2001, trad. di A. Sciacovelli, Firenze-Milano, Giunti/Bompiani,2017.
Royer C. (2017). Imre Kertész : “L’histoire de mes morts ». Acte Sud, Arles.
Radvánszky A. (2017). “«L’epoca della tonalità si è conclusa una volta per sempre» – Alcune connessioni tra la critica della lingua e la critica dell’ideologia nell’opera di Imre Kertész”, in «Rivista di Studi Ungheresi» 2017/16, 35-44.
Sciacovelli A. (2006). “Translatio benevolentiae: traduzione e letteratura ungherese”, in: Giorgio Colombo (a cura di), Quaderni del Premio Letterario Giuseppe Acerbi. Letteratura dell’Ungheria, Verona 2006, 200-208.
Sciacovelli A. (2006). “L’inventore della sopportazione gratuita: Imre Kertész”, in «Quaderni Vergeriani» 2006/2, 53-79.
Interviste a I. Kertész
(2003/4, data incerta). TV5 Monde, intervista televisiva, trasmissione TV5L’invité a cura di Patrick Simonin.
(2010). France Culture, intervista radiofonica, trasmissione Hors-champs a cura di Laure Adler.
Filmografia
(2005) Senza destino. Regista L. Koltai, sceneggiatore I. Kertész. Milano, DVD Medusa Video.
Note:
[1] Il secondo incontro si terrà il 31 marzo 2025, alle ore 21 sempre via Zoom: lo scopo sarà quello di condividere le riflessioni dei partecipanti – utili anche per il lavoro clinico – a partire dalla lettura di una o più opere di Kertész.
[2] Cfr. Capitanio, M. (2024) Imparare dagli scrittori che furono adolescenti durante la Shoah e che sono sopravvissuti. Giorno della Memoria/Ricorrenze di Umanità Padova, Centro Veneto di Psicoanalisi, 25 gennaio e 9 febbraio 2024. Rivista di Psicoanalisi 70:969-974.
[3](2003/4 data incerta). TV5 Monde, intervista televisiva, trasmissione TV5L’invité a cura di Patrick Simonin, in linea; (2010). France Culture, intervista radiofonica, trasmissione Hors-champs a cura di Laure Adler, in linea.
[4] Il prof. Sciacovelli si è laureato nel 1992 in Filologia e Storia dell’Europa Orientale nell’Istituto Universitario Orientale di Napoli e, dal 2005, è Dottore in Scienze letterarie (ELTE, Budapest). Ha insegnato in alcuni atenei ungheresi dal 1993 al 2016 fino all’incarico di professore associato nell’Università di Turku (Finlandia) e attualmente è professore associato presso il Dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia dell’Università degli Studi di Firenze. Ha al suo attivo circa 200 contributi scientifici. All’impegno di ricercatore affianca, come già ricordato, quello di traduttore di letteratura ungherese del Novecento: ha pubblicato con Adelphi, Bompiani, Feltrinelli, Rizzoli, Salani.
[5] In Italia, nel 1929, vigeva il regime mussoliniano in uno stato avanzato di evoluzione totalitaria, la dittatura era fortemente affermata e in Europa si stava creando un certo consenso nei suoi confronti.
[6] La regione dell’Ungheria storica da cui proveniva la famiglia paterna dello scrittore è la Transilvania (una regione culturalmente molto importante per gli ungheresi, per gli ebrei, per i romeni, gli armeni, i sassoni), zona molto peculiare perché là molti ebrei si erano dati cognomi particolari, facilmente individuabili. Sciacovelli ha sottolineato questo aspetto perché i nomi e cognomi che troviamo nei romanzi dell’Autore – che per il lettore italiano non sono indicativi – rivelano subito a quello ungherese l’identità della persona, permettendo facilmente a persone di sentimenti antisemiti, la possibilità di fare delle discriminazioni.
[7] Su questo argomento gli storici sono divisi: da un lato c’è chi dà il merito a Horthy di aver aspettato fino all’ultimo prima di passare il potere ai tedeschi, dall’altro c’è chi osserva che in ogni modo il potere passò a forze di ispirazione nazionalsocialista, ragion per cui molto velocemente gli ebrei vennero dapprima confinati nei ghetti, soprattutto in quello di Budapest, e poi deportati. Anche nel resto dell’Ungheria, purtroppo, queste operazioni avvennero con grande efficacia.
[8] Purtroppo – ha ricordato Sciacovelli – bisogna usare questi termini anche per i trasporti della morte.
[9] [Tra il 15 maggio e il 9 luglio 1944, oltre 434.000 ebrei furono deportati su 147 treni, la maggior parte destinati ad Auschwitz. Qui circa l’80% dei deportati venne gasato all’arrivo. Da WIKI]
[10] [Giorgio Perlasca (Como, 31 gennaio 1910 – Padova, 15 agosto 1992) era un commerciante italiano che nell’inverno del 1944, fingendosi console generale spagnolo, salvò la vita di oltre cinquemila ebrei ungheresi].
[11][La fama di Sándor Márai (Košice, 1900 – San Diego 1989), scrittore e giornalista ungherese naturalizzato statunitense, è legata in particolare ai romanzi (1942) Le braci (Milano, Adelphi, 1998) e (1939) L’eredità di Eszter (Milano, Adelphi, 1999)].
[12] In Ungheria, per esprimere questo processo, si usa l’espressione “salamizzare”, cioè tagliare a fette i vari partiti.
[13] [Mátyás Rákosi (Ada, 1892 – Gor’kij, 1971) fu, dal 1945 al 1956, il segretario generale del Partito Comunista Ungherese , del Partito dei Lavoratori Ungheresi e leader della Repubblica Popolare d’Ungheria. Il regime stalinista di Rákosi collettivizzò forzatamente l’agricoltura e puntò all’industrializzazione pesante, senza però ottenere rilevanti successi economici. Nell’agosto 1952 egli divenne primo ministro ma il 13 giugno 1953, convocato a Mosca, pur mantenendo la carica di segretario generale del Partito, fu costretto a dimettersi a favore di Imre Nagy].
[14][Imre Nagy (Kaposvár, 1896 – Budapest, 1958) fu il punto di riferimento di un movimento che, all’interno del Partito dei Lavoratori Ungheresi (marxista-leninista), mirava all’apertura all’Occidente proponendo, nel 1956, l’uscita dal patto di Varsavia, fino a sostenere i principi della liberaldemocrazia. L’azione del movimento culminò nella rivoluzione del 1956, repressa dall’intervento delle forze armate sovietiche. Nagy fu imprigionato e nel 1958 venne condannato a morte, per poi essere riabilitato nel 1989, dopo la fine del comunismo in Ungheria].
[15]Sciacovelli ha ricordato il regista, scrittore e drammaturgo ungherese naturalizzato italiano Giorgio Pressburger (Budapest, 1937 – Trieste, 2017), espatriato da studente liceale nel 1956 e rifugiato in Italia. Per lungo tempo, anche in qualità di direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Budapest, fece da ponte tra le culture ungherese e italiana.
[16]Questa è domanda abbastanza naturale per gli scrittori. Pensiamo ad es. agli scrittori per l’infanzia o a quelli che scelgono una lingua particolare i quali, quando si chiedono per chi scrivere, cercano di identificare il loro pubblico con una scelta di lingua.
[17] Il progetto nacque probabilmente già a metà degli anni ’50 e iniziò a concretizzarsi più o meno negli anni ‘60/ 61.
[18] Il termine Shoah in ungherese viene espresso con l’espressione veszély korsa che significa il ‘periodo del pericolo’, il ‘periodo del terrore’, il ‘periodo dell’indicibile’. In tale espressione, ha sottolineato Sciacovelli, è insito un forte riferimento al concetto temporale: korsa significa era, epoca; veszély (parola molto complessa) veicola l’idea di perdita nel senso di sconfitta, di debacle. Veszély è collegata, ad esempio, alla grande sconfitta del 1526 a Mohács, quando l’esercito ottomano sbaragliò quello ungherese dando inizio alla dominazione.
[19] Così è stato, ha ricordato Sciacovelli, anche In Italia: solo negli ultimi decenni si è iniziato a sfatare il mito degli ‘Italiani brava gente’. Cfr. Capitanio, M. (2022) Shoah e ‘Italiani brava gente’, Centro Veneto di Psicoanalisi, Ricorrenze di Umanità, 27 gennaio 2022. Rivista di Psicoanalisi 68:597-602 . Gli storici invitati furono: F. Focardi e S. Levis Sullam.
[20] [In questo libro Semprún racconta il viaggio di cinque giorni che fece, insieme ad altri 119 prigionieri stipati in un vagone merci, verso il campo di concentramento di Buchenwald. Semprún parlerà della sua esperienza a Buchenwald anche in La scrittura o la vita (1994)].
[21] [Tadeusz Borowski (Žytomyr,Ucraina sovietica, 1922 – Varsavia, 1951; di famiglia polacca)è, tra l’altro, autore di (1946) Da questa parte, per il gas. Ed. it. L’Ancora del Mediterraneo, 2009. Da WIKI].
[22] (1973] Essere senza destino, ha ricordato Sciacovelli, è il primo romanzo della quadrilogia che nel tempo comprenderà (1988) Fiasco; (1990) Kaddish per il bambino non nato, (2003) Liquidazione.
[23] I. Calvino, ha ricordato Sciacovelli, nel 1965 scrisse un noto articolo riguardante l’anti-lingua: L’anti-lingua, ovvero l’arte di complicare una lingua semplice [in Saggi 1945-1985, Milano, Mondadori].
[24] Sciacovelli ha ricordato che anche in Italia ci sono stati casi del genere (anche se con motivazioni diverse), come ad es. fu per il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
[25] [Péter Hajnóczy (Budapest 1942 – Budapest , 1981). Autore fra l’altro di (1979) A halál kilovagolt Perzsiából (La morte è uscita cavalcando dalla Persia), Budapest, Szépirodalmi]. Cfr. al proposito Sciacovelli A. (2021). Quarant’anni senza Péter Hajnóczy. In RSU (Rivista di Studi Ungheresi, p.149-164). Consultabile c/o link .
[26] [György Spiró (Budapest, 1946): pluripremiato drammaturgo, romanziere e traduttore ungherese, è una delle figure letterarie più importanti del dopoguerra. È autore, tra l’altro di (2012) Collezione di primavera. Milano, Guanda, 2012].
[27] Una cosa – ha sottolineato Sciacovelli che, lo ricordo, è traduttore – è leggere in una lingua straniera (Kertész amava molto leggere in tedesco) e un’altra è tradurre una lingua straniera in quella che è la nostra lingua madre o, comunque sia, la lingua con cui abbiamo un rapporto di frequentazione culturale molto lungo, intenso, profondo.
[28](1872). La nascita della tragedia.
[29] [H.Von Doderer (Hadersdorf-Weidlinga, un distretto di Vienna, 1896 – Vienna, 1966). Autore di (1951) La scalinata; (1956). I demoni. Dalla cronaca del caposezione Geyrenhoff. Da WIKI].
[30][ E. Canetti (Bulgaria, 1905 – Svizzera, 1994), Nobel per la letteratura nel 1981; autore tra l’altro di (1935) Auto da fé; (1960) Massa e potere; (1977) La lingua salvata].
[31] J. Roth (Galizia, Ucraina, 1894 – Parigi 1939 ) autore, tra l’altro, di (1932) La marcia di Radetzky e di (1938) La cripta dei Cappuccini. Sciacovelli lo ritiene uno dei più grandi esponenti della corrente galiziana e uno dei più grandi scrittori del primo Novecento.
[32] (1934-38) L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi.
[33] Il romanzo venne scritto in base ad alcune idee presenti fin dal 1976.
[34] [János Kádár (Fiume, 1912 – Budapest, 1989) fu a capo della Repubblica Popolare d’Ungheria dal 1956 al 1988. Da WIKI].
[35] Con inizio a pagina 95 della edizione Feltrinelli 2003.
[36] Kertész – ha ricordato Sciacovelli- era un ‘annotatore maniacale’. Egli donò i suoi diari (23 agende piene di annotazioni) all’Accademia tedesca delle arti.
[37] Negli anni ‘80 Kertész firmò una ventina di traduzioni letterarie dal tedesco.
[38] Gli agenti delle case editrici tedesche in quel periodo andavano alla ricerca dei ‘fenomeni’ letterari dell’Europa centrale: l’apripista per l’Ungheria fu Péter Esterházy.
[39] Un dibattito tra tutti: quello con lo scrittore ungherese Sándor Csoóri (1930-2016) che precedentemente si era complimentato con Kertész per alcuni suoi scritti ma, successivamente, proferì discorsi antisemiti quali: “Gli ebrei in Ungheria hanno sempre monopolizzato la cultura, la politica” e così via. Per un profilo di Csoóri consultare Treccani . Per la assai complessa questione della rinascita dell’antisemitismo dopo il 1989, consultare www.Jmberin.de , p. 18.
[40] Siegfried Unseld (1924-2002) dal 1959 prese le redini della Suhrkamp Verlag di Francoforte, fondata nel 1950 da Peter Suhrkamp a Berlino. Fu proprio Unseld a spingere Kertész a scrivere Liquidazione. Dal 2009 la casa editrice è tornata a Berlino.
[41] [Il morbo si manifestò per la prima volta nel 1997; nei suoi diari lo menziona nel gennaio 2000. Già nell’aprile del 2001, un anno prima del conferimento del Nobel, Kertész non era più in grado di scrivere a mano].
[42] Kertész parlò del suo decadimento fisico in (2016) Lo spettatore e in (2016) L’ultimo rifugio. Ne accennò anche in (2011) Mentés másként (Magvető, Budapest), opera non tradotta in italiano.
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