Il trattamento psicoanalitico nell’istituzione: appunti.

di Dott. Gaetano Filocamo

Vorrei iniziare ringraziando il Centro Veneto di Psicoanalisi, per averci offerto questa opportunità di incontro e ai componenti del Gruppo “Ospitare per Conoscere” per il prezioso lavoro di riflessione fatto nei mesi scorsi in vista di queste serate.

Vorrei ringraziare la Fondazione San Gaetano Onlus, perché i pensieri che condividerò questa sera nascono dal lavoro svolto in questi ultimi dieci anni in Fondazione e per il sostegno ricevuto nello svolgimento delle mie mansioni.

Un ringraziamento speciale lo faccio infine, ai miei colleghi, con i quali ho condiviso quest’esperienza.

Questa sera proverò a raccontare il metodo di lavoro di due Comunità terapeutiche Doppia Diagnosi, una maschile (Integra) e una femminile (Il Colle) entrambe gestite dalla fondazione San Gaetano Onlus di Vicenza,  di cui sono stato per diversi anni il Responsabile Terapeutico. Metodo fondato sul sapere psicoanalitico.

In premessa a questo lavoro, vorrei ricordare che si tratta di appunti e che nessuno delle questioni messe in gioco è stata approfondita per come a mio avviso meriterebbe.

Per orientarci stiamo parlando di due Comunità (nell’immagine sono i rettangoli) situate una in Provincia di Padova, nel Borgo di Arquà Petrarca e l’altra in provincia di Vicenza nel Comune Val Liona, ex Grancona. E di due Gruppi di Appartamenti (cerchi nell’immagine) rispettivamente nel Comune di Monselice e di Lonigo.

Il termine “doppia diagnosi” nasce negli Usa agli inizi degli anni 90 ad indicare uno stato di comorbilità di diagnosi diverse e distinte tra di loro. In particolare si fa riferimento a soggetti con Disturbi Correlati a Sostanze (DCS) e disturbi da addiction e disturbi mentali severi. Precipitato di questa condizione psicopatologica è, di frequente, una significativa compromissione del livello di adattamento ed autonomia del soggetto, sul piano sociale, affettivo e lavorativo. Coopartecipano alla presa in carico di quest pazienti il Dipartimento delle Dipendenze (DD) e Dipartimento di Salute Mentale (DSM).

Le prime comunità riabilitative per pazienti tossicodipendenti sono nate negli USA e hanno proposto un modello di cura incentrato sulla rieducazione e sulla correzione di comportamenti, atteggiamenti e convinzioni disfunzionali che erano considerati alla base della tossicodipendenza. Questa impostazione epistemologica si è tradotta in strutture comunitarie in cui le regole e il loro rispetto è diventato il cardine della cura. L’italiana Sanpatrignano, fondata alla fine degli anni 70, si è inserita in questo contesto socio-culturale.

Il radicamento di un modello di presa in carico incentrato soltanto sul ‘fare’ ha probabilmente contribuito allo sviluppo di sistemi chiusi al cui interno si sono cristallizzate dinamiche gruppali per assunti di base (Bion, 1971). Il collasso della significazione delle dinamiche transfero-controtransferali, ha concretizzato e fatto agire fantasmi di natura aggressiva e sessuale.

L’emersione di questi agiti, vere e proprie derive del pensiero ha tuttavia permesso una rimessa in discussione del modello, anche grazie all’introduzione di figure specialistiche che hanno proposto interventi terapeutici di matrice più propriamente psicologica.

 

La coesistenza di queste due anime ( che potremmo definire ri-educativa e terapeutica) e il dialogo a volte conflittuale che tra di esse si è sviluppato, è stato il punto di partenza per il nostro lavoro riabilitativo e di cura. Ciò è stato possibile solo dopo esserci accorti che tra le linee di questa conflittualità si muovevano e prendevano forma i vissuti affettivi inconsci dei pazienti. (esempio, persona al letto che non si alza)

Il continuo lavoro di integrazione di queste due istanze, concorre alla creazione di quello che potremmo definire un sistema biassiale tra i bisogni assistenziali e le potenzialità riabilitative, andando a costituire un’area all’interno della quale dare forma ad un processo di cura che non si limiti alla sospensione del sintomo, ma ponga al centro la persona, la molteplicità dei suoi bisogni e i margini evolutivi.

 

In questa prospettiva quindi, della necessaria integrazione tra istanze in gioco, si comprende come  un’eccessiva parcellizzazione della rete di cura non può che essere di ostacolo al processo, e come ci ricorda Antonello Correale, non può che creare domande di aiuto disperse tra le istituzioni. Come ci ha ben ricordato la dr.ssa Compagno nel corso della prima serata, il lavoro di rete, tra Servizi pubblici e Privato accreditato, è o forse è più corretto dire, dovrebbe essere il punto di partenza per la presa in carico di pazienti così complessi. La realtà a volte però frustra questo bisogno.

 

Coerentemente, credo che, lo svolgersi di un processo di cura così organizzato debba tenere conto di una temporalità co-costruita, che includa necessari stimoli alla crescita ma anche il riconoscimento di un tempo soggettivo che ognuno ha. In altri termini potremmo dire che l’obiettivo è di aiutare il paziente a liberarsi dalla morsa del proprio assetto difensivo, che come sappiamo sostiene la sintomatologia. Questo movimento, di rimessa in gioco, produce processi di regressione funzionale, e dovrà quindi svolgersi all’interno di un contesto che possa accogliere i vissuti di angoscia conseguenti. Sarà inoltre necessario salvaguardare l’Io del soggetto da pericolosi disinvestimenti della realtà esterna, che cooncorrerebbero a sviluppi regressivi eccessivi. La “buca regressiva” di cui parla Stefano Bolognini (2009).

 

Credo che sia quello che è successo in passato ( e in alcune situazioni accade tuttora, quei pazienti che nessuno vuole e che non si sa dove metterli), in cui non si poneva alcuni limite temporale allo stare in comunità, di fatto creando una residenzialità regressiva ed alienante.

 

D’altro canto però la soluzione per cui il percorso in Comunità ha delle tempistiche pre-definite, rischia di essere non solo, a dirla con un proverbio popolare, una toppa che è peggio del buco; ma soprattutto rischia di far interrompere processi terapeutici in atto.

 

Se però noi sappiamo che la dimensione della residenzialità, che è si un elemento essenziale della cura, ma che allo stesso tempo potrebbe favorire lo sviluppo di  processi di dipendenza assoluta, causando l’inasturarsi di una dimensione cronicizzante atemporale; sapendo questo allora è necessario che la struttura interna, il funzionamento interno della comunità sia attrezzato con dispositivi che permettano al paziente di prendere parte ad un progetto evolutivo dinamico e in movimento, che possa contrastare la tendenza regressiva.

Sulla scorta di queste riflessioni si è pensato di incentrare il percorso terapeutico e riabilitativo su:

  1. La stipula di un Consenso Informato, e cioè di un accordo sottoscritto da paziente e curante, periodicamente aggiornato, sugli obiettivi generali del percorso di cura e su i conseguenti sotto-obiettivi.
  2. Una linea evolutiva di residenzialità: L’intero processo di cura è suddiviso in tre macro-fasi: Motivazionale, Avanzata e di Reinserimento. La fase Motivazionale ed Avanzata compongono la residenzialità in comunità, la fase di Reiserimento si svolge invece in gruppi appartamento, geograficamente distaccati dalla sede centrale e posti in un contesto cittadino. (Monselice e Lonigo)

Questo dinamismo delle fasi e dei luoghi del percorso di cura, si è visto che sostiene l’Io del soggetto e permette alleanze evolutive tra pazienti e curanti. Permette inoltre ai curanti di fornire stimoli ambientali via via più complessi a seconda delle risorse messe in gioco dal paziente nei diversi momenti della cura. Come ci ricorda Anna Freud (1968), infatti, “la paure arcaiche non sono superate se la madre non assolve la sua funzione di Io ausiliario del bambino. Le funzioni cognitive dell’Io del bambino non maturano se non è offerta una stimolazione appropriate nei periodi appropriati’.

 Concorre a mio avviso a questo tendenza che potremmo definire anti-regressiva uno o più colloqui iniziali finalizzati alla valutazione della pertinenza dell’inserimento in Comunità, colloqui svolti da me che ero il Responsabile Terapeutico che incontravo quindi inizialmente il paziente, ne valutavo l’adeguatezza dell’ingresso e definivo con lo stesso gli obiettivi generali del percorso. Una volta fatto l’ingresso seguivo in supervisione settimanale il gruppo di lavoro (Educatore referente Case Manager, Psicoterapeuta, Psichiatra) che era responsabile del caso. Di fatto rappresentavo il garante del processo.

Tanto per dare qualche numero, in quasi 5 anni in cui ho svolto questa funzione di Responsabile Terapeutico ho valutato circa 200 persone, circa 70 dei quali sono stati ingressi.

 

Il percorso terapeutico e riabilitativo era quotidianamente realizzato attraverso:

 

1- Il mantenimento di una quotidianità condivisa, sul piano delle responsabilità legate alla cura del sé e degli ambienti, della cucina, della lavanderia, del verde esterno, dell’orticoltura.

2- La partecipazione alle attività terapeutiche ed educative, nella dimensione sia individuale che gruppale.

L’utilizzo di questi dispositivi permette agli operatori di realizzare quelle funzioni di Io ausiliario, nell’intrapsichico e nell’inter-psichico, e concorre alla creazione di una matrice relazionale con l’interno e l’esterno quanto più sostenibile. Tutto ciò perché il paziente possa sentirsi emergere come Soggetto.

Perchè ciò possa avvenire è necessario che il paziente possa sentirsi sufficientemente sicuro di reinvestire l’Altro, come oggetto affidabile e di speranza.

In molti casi, siamo di fronte a pazienti che proprio sull’asse relazionale hanno avuto i maggiori traumatismi, in conseguenza dei quali proprio dalla relazione, si sono a diverso titolo ritirati. Ritiro quest’ultimo che quando viene intercettato può già essere una difesa strutturante la persona, ma che in alcune situazioni (pensiamo ad esempio agli esordi) è ancora una modalità difensiva mobile e appena sperimentata.

L’esperienza relazionale che si svolge all’interno della comunità ha l’obiettivo di ritessere le trame dei legami interrotti.

Siamo di fronte in queste situazioni a traumatismi relazionali precoci, che hanno lasciato aree pre-verbali, non integrate nel Sé. Siamo ad un livello in cui si manifesta potentemente la coazione a ripetere, nella sua forma più distruttiva, e alla quale è parzialmente preclusa la componente di speranza, che è poi sostanza del transfert. Sono soggetti questi che hanno dis-investito la relazione con l’oggetto, e per i quali è necessario una prima fase finalizzata ad animare il contatto, a riallacciare il legame. Motore e alimento di questo processo, è lo sguardo dell’Altro. Unico elemento vivificante uno stato psichico in cui lo slegamento prevale sul legamento. Lo sguardo dell’operatore compone nel qui ed ora un qualcosa assimilabile al “viso della madre”, così come Winnicott (1967 la funzione di specchio) ce ne ha parlato:

 

Quando guardo, vengo visto, quindi esisto

 

Siamo in contesti, in cui l’oggetto fa i conti con la potenza vivificante della sua presenza. Il paziente c’è se l’operatore c’è; il paziente fa se l’operatore fa. Ed è questo continuo processo di rispecchiamento, che pone le basi per un primo abozzo di soggettività, o direbbe Winnicott sviluppare il senso di Sé.

 

È solo a quel punto che la relazione potrà riprendere vita e diventare contenitore di transfert. Un transfert molto intenso, estremo, a volte distruttivo. Ed è forse proprio questa violenza veicolata nel transfert, che ha portato il curante, in queste situazioni cliniche, a farsi sordo ai suoi richiami, a cedere alla lusinga dei protocolli, della divisione di competenze, della temporalità pre-ordinata a livello istituzionale. A mio avviso tutte azioni difensive, rispetto ad una tempesta potenziale percepita come troppo pericolosa, troppo scottante.

Ma se disperdiamo il transfert, disperdiamo la cura, e finiamo per relegarci al ruolo di tecnici della psiche. Rincorriamo espressioni sintomatologiche, di per sé inafferrabili.

Credo, invece, che sia necessario creare le condizioni perché il transfert possa riprendere vita; assumendoci il compito di co-costruire insieme al paziente le condizioni per un legame sostenibile per sé e per l’altro.

 

Ambiente e psicoterapia

Non mi soffermerò sul ruolo dell’ambiente nel processo di cura, perché credo che sia stato ben affrontato dal collega Sancandi nella sua relazione.

Vorrei invece spendere qualche parola sul tema della Psicoterapia nel contesto comunitario, che è poi lamento più caratteristico delle comunità di cui ho finora parlato. Intanto i numeri, parliamo di due psicoterapeuti presenti per ogni struttura con un totale di 56 ore settimanali. La psichiatra è presente in struttura per 10 ore settimanali.

Come dicevo prima, ad ogni paziente all’ingresso viene assegnato un educatore referente Case Manager, uno psicoterapeuta, e la psichiatra con compito di valutazione, prescrizione e modifica della terapia farmacologica in itinere e a seconda della fase e dei bisogni.

Ogni settimana queste figure si riunivano, supervisionate dal Responsabile Terapeutico, per discutere sui pazienti e sui loro percorsi.

Oltre a questi momenti vi era un momento mensile di supervisione, a cui partecipava l’intera equipe ( che comprendeva tutti gli altri educatori) con un professionista esterno.

Accenno queste informazioni per riaffermare quel bisogno, ormai quasi andato perso in alcuni ambienti psichiatrici, che è del parlare dei pazienti: di come stanno, di cosa fanno e degli snodi terapeutici che via via si affrontano.

Oltre che come dice Raymond Cahn (lavoro a partire dalla sua esperienza istituzionale con pazienti adolescenti)  a proposito del “ruolo delle interrelazioni fra terapeuti e adolescenti” che porterebbe a “ripetere senza rendercene conto i conflitti e i sentimenti più patogeni così come si erano sviluppati nell’ambiente familiare fin dall’origine della confusione del Sé (…) dove solo l’elaborazione collettiva dei vissuti di ognuno in seno alla realtà istituzionale e quindi anche il rendersi conto di quanto era accaduto di tanto intollerabile e alienante (…), apriva la strada a un modo di essere e a una risposta diversa da parte nostra, rompendo così la ripetizione e quindi suscettibili da soli di effetti di cambiamento, al di fuori di qualsiasi interpretazione, del resto molto spesso non udibile. Sarà dunque il lavoro di chiarimento del controtransfert piuttosto, a un livello più primitivo, dei contro-atteggiamenti di ognuno di noi a rivelarsi determinante”.

È questo chiarimento di cui parla Cahn, a veicolare trasformazioni, prima di tutto tra i curanti, che solo allora potranno offrirsi al paziente con una consistenza più malleabile (Roussillon), più adatta ai suoi bisogni di crescita. Quella malleabilità di cui è fatto il capezzolo, abbastanza morbido, abbastanza duro.

Questo lavoro del gruppo permette ai curanti di cogliere quelle che Roussillon definisce “forme polimorfiche di associatività”, ad indicare una vasta gamma di sintomi ad espressione corporea e/o di agiti.

Per tornare più strettamente al tema della psicoterapia in Comunità, partirei dal tema del setting che come sappiamo ha una “funzione limitante e organizzante (…) nei confronti dei fenomeni di traslazione” (Pierri, 2008).

Ponendo il transfert come imprescindibile elemento della cura, dobbiamo interrogarci su quale forma prenda all’interno di un contesto in cui esistono almeno due set, distinti ma interaggenti: lo spazio/tempo della seduta e lo spazio/tempo della comunità. Si pone così uno scambio dialettico tra l’interno ( alla seduta) e l’esterno (l’ambiente) che di fatto sostanzia gran parte della psicoterapia stessa.

Lo psicoterapeuta non è solo soggetto/agente all’interno della seduta, ma lo diviene anche nell’ambiente esterno, non solo come garante della cura, ma dovendo anche agire in questa direzione.

Prende così forma uno stretto legame tra il fare e il pensare che potremmo rappresentare attraverso l’immagine della famosa striscia di moebius, in cui una faccia confluisce nell’altra e viceversa. Un fare pensato e un pensato da fare, potremmo dire.

 

Il gruppo che cura

Vorrei dedicare qualche riga finale di questo mio intervento per raccogliere uno stimolo emerso nel corso della prima serata a proposito della cura dei curanti. Chi si prende cura di coloro che curano questi pazienti, potremmo dire.

Nel corso di questi anni ho potuto rendermi sempre di più conto che esiste un certa simmetria di benessere tra il gruppo dei curanti e il gruppo dei curati. Sembra banale detto così, ma in alcuni contesti seppur banale ma è un principio spesso dimenticato.

Negli anni insieme al dr. Banon abbiamo pensato continui interventi rivolti al gruppo dei curanti.

“La metodologia con la quale si è approcciato il compito di sostenere il personale operante presso le due Comunità terapeutiche dedicate ai pazienti con comorbidità psichiatrica della fondazione “S.Gaetano” (Il Colle e Grancona)si fonda sui contributi di alcuni Psicoanalisti affiliati alla Tavistock Clinic, ed in particolare al gruppo che si occupa di consulenze istituzionali, coordinato da Anton Obholzer (1998).

In breve, secondo tali Autori, nei gruppi di lavoro istituzionali che si occupano di pazienti gravi (anche se in realtà fenomeni simili si verificano in tutti i gruppi di lavoro) gli operatori sono esposti ad intensi movimenti pulsionali, per lo più inconsci, sia da parte dei pazienti sia da parte dei colleghi . Questi movimenti pulsionali, danno anche luogo ad intensi processi difensivi che hanno lo scopo principale di proteggere i singoli soggetti dal dolore e da emozioni troppo intense da sopportare. Questi processi difensivi possono tuttavia ostacolare lo svolgimento dei compiti sia di ciascun operatore sia dell’intero gruppo di lavoro che, come si può osservare soprattutto in ambienti laddove o la formazione degli operatori è carente, o i compiti istituzionali sono soverchianti rispetto alle risorse umane disponibili,  si può osservare la presenza, accanto al compito manifesto dell’istituzione, la presenza di un anti-compito, per lo più inconscio , che ha a che fare con la autotutela del benessere personale e con l’evitamento di tensioni o emozioni vissute come poco sopportabili.

 

Sulla base di questi principi, descritti  in modo succinto e molto schematico, ci si è posti ad osservare i gruppi di lavoro delle due comunità nei vari momenti in cui discutono dei casi clinici, dell’organizzazione, della risoluzione dei problemi clinici posti dai/dalle pazienti, cercando di cogliere appunto i momenti in cui venivano messi in atto agiti difensivi, anti-compiti, fenomeni di negazione, o quando i gruppi avevano dei momenti di funzionamento per assunti di base (Bion).

La tempistica e le modalità di restituzione di queste osservazioni non è certo semplice e priva di pericoli, ed è necessario che l’osservatore-supervisore organizzativo sappia costruire una buona alleanza con i gruppi di lavoro. Tali forme di supervisione vanno ripetute a nostro avviso periodicamente, in quanto non sono mai definitive, ma possono costituire la base per una manutenzione periodica dell’istituzione a tutto vantaggio della sua efficienza e del benessere degli operatori. Nel lavoro che presentiamo qui, al termine di ciascun ciclo di supervisione, sono stati somministrati questionari anonimi agli operatori per saggiare l’effetto del lavoro svolto”. (Banon, 2021)

 

Qualche dato:

Il benessere percepito da coloro che lavoravano, al tempo della somministrazione dei questionari nella Comunità Il Colle, era definito in una scala Likert da 0 a 10 in valore medio 7,6. Analoghi risultati si ottenevano per le variabili:

1- soddisfazione per il funzionamento della comunità;

2- senso di appartenenza all’equipe.

 

Medesimo lavoro ad Integra, sempre scala Likert 0-10, in valore medio risultava:

1- soddisfazione per il lavoro svolto 6,7

2- compiti assegnati adeguati alla professionalità 8,2

3- quanto mi sento sostenuto dai colleghi nello svolgimento dei miei compiti 6

4- quanto mi sento supportato e protetto nello svolgimento dei miei compiti dai miei responsabili 7

 

Il senso di appartenenza al contesto, la percezione di sostegno e protezione da parte dei colleghi e la sensazione di essere inseriti in un progetto che risulti nutriente sia dal punto di vista umano che professionali, sono a mio avviso alcune tra le condizioni più importanti, perché un gruppo di lavoro possa sopportare i carichi affettivi consci ed inconsci che questi pazienti impongono.

 

Grazie per l’attenzione

 

Gaetano Filocamo, Padova

 

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