Il tempo fuori sesto nella cura analitica

di Marina Breccia

(Calci, Pisa), Membro Ordinario con Funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Psicoanalitico di Firenze

*Per citare questo articolo:

Breccia M., (2024). Il tempo fuori sesto nella cura analitica, KnotGarden 2024/3, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 54-62.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

“The time is out of joint; O cursed spite!
That ever I was born to set it right!”
Shakespeare, Amleto, atto I, scena 5

Nell’organizzare alcune riflessioni sul tempo nella cura analitica, riflessioni che si collocavano e si rianimavano a partire da varie distanze temporali se pur connesse tra loro, non ho potuto non imbattermi ancora una volta in Shakespeare e nella frase già usata da me e qui riproposta.

Se Amleto si interroga e ci interroga su come rimettere in sesto il tempo, un tempo dissestato dal trauma dell’uccisione, dell’inganno, del furto e dell’incesto, un tempo quindi terribilmente traumatico, come curanti, e come analisti curanti, possiamo riattraversare la sua costernazione interrogandoci intanto su how to play a time out of joint. Come cioè giocare nella cura questa realtà dissestata che Rusconi, nella sua traduzione dell’Amleto del 1901, chiama natura – “la natura è fuori de suoi cardini” – indicandoci, a mio modo di vedere, quanto il trauma sia trasversale alla condizione umana, per questo poco inquadrabile in categorie diagnostiche, ma anche quanto non sia meno impegnativo considerarlo su un piano clinico. L’opposizione temporale, out of joint, fuori di sesto (fuori di senno?), fuori cardini e fuori da ogni quadratura, nella clinica si caratterizza spesso in un’opposizione a procedere, ad andare oltre, a ristabilire una continuità con la vita e quindi con la morte, opposizione che può determinare, per conseguenza, lo stanziare in una morte senza fine e quindi inconclusa. Si installa allora una sorta di contro-temporalità psichica. La morte la vogliamo intendere in senso analitico, cioè in un senso multiplo ed eterogeneo, come pulsione di morte, come pulsione di distruzione e come lutto, e quindi anche, come accade nel lavoro del lutto, per una ricomposizione e una ripartenza alla vita. Un procedere che affianca inevitabilmente tutto ciò che dalla nascita accoglie o si oppone nella realtà psichica e che quindi si affianca ad una realtà esistenziale e storica nelle sue svariate declinazioni, secondo un procedere che tende a psichicizzare lo storico e a storicizzare lo psichico, pensiero questo che riflette quello sulla storia di André Green.

 Una mia prima ricerca si è orientata sulle diramazioni dalla centralità tematica del trauma, tenendo in conto che il tema del trauma in sé è spesso inflazionato e decomplessizzato, tanto quanto purtroppo la gran parte delle critiche ad esso, ed è stata anche uno sforzo per recuperare ulteriori possibilità di estensione e di dialogo. Il lavoro clinico in molte situazioni traumatiche, ma direi in fondo in tutte, ruota intorno al lutto, lutto, che è un arduo sforzo umano ricompositivo, come molte testimonianze storiche, religiose e antropologiche ci confermano, ed è stato trattato da Freud stesso a più riprese. Il “lavoro” del lutto, come quello del sogno, rappresenta infatti il tentativo irrinunciabile dell’uomo di uscire dalle tenebre e di far ripartire una temporalità vitale che avrà un fine ed una fine.

Indico così con il termine contro-tempo[1]un tempo fuori sesto e fuori squadra, che caratterizza nelle esperienze traumatiche l’opporsi strenuo e ostinato ad un tempo storico e soprattutto ad una sua visione lineare, che contamina in modo rassicurante chi ha già avuto modo di ricomporlo e rimetterlo in sesto, o, più tragicamente, chi continua con un ancora più ostinato diniego ad ignorarlo.

Controtempo si definisce in musica l’inserimento nel canto fondamentale di una voce che entra e si scandisce non nei tempi “forti” della misura, ma in quelli “deboli”, con l’effetto di un contrasto ritmico con le altre voci.

Sospensione e trattenuta temporale, spostamento da punti forti a punti deboli, contrapposizione nella insistita ripetizione, eterogeneità, incroci: tutti elementi simbolici forti e trasponibili alla temporalità dei contenuti traumatici e alla loro operatività nella clinica.

Noi analisti, soggetti ma anche oggetti di transfert in questa realtà storica, viviamo un tempo traumatico e siamo costretti ad interrogarci su quanto riusciamo a pensarlo, insieme ai tempi traumatici dei nostri pazienti, secondo una modalità tanto complessa, e inevitabilmente variabile, quanto necessaria. Ma se tutto ciò ci interroga nella nostra specificità formativa, ci convoca inevitabilmente anche ad un confronto umile, attento e continuativo con altre discipline e con le diverse teorie che appartengono alla psicoanalisi, secondo quel conflitto cooperativo proposto da Amartia Sen (2000), economista che mette in guardia dalle gruppalità non cooperanti, ma solo faziose; la loro pericolosità, a suo modo di vedere, sta nel difendere valori identitari con una cecità ideologica che va a costruire identità che uccidono.

La ripetizione, che caratterizza la contrapposizione temporale nel trauma, la possiamo allora vedere con una varianza rispetto ad un prevalere della pulsione di morte, al servizio di un Super-io sadico che in svariate forme cliniche (Freud, Introduzione al narcisismo, 1914; Al di là del principio di piacere, 1920; L’Io e l’Es, 1922), attacca e appiattisce l’Io estenuandolo fino all’impotenza, evenienza quest’ultima fortunatamente rara. Possiamo cercare e trovare invece nella ripetizione, che innanzitutto agli occhi del paziente appare come inesorabilmente uguale, quella piccolissima varianza che corrisponde alla forza della spinta vitale in opposizione. Stare nel conflitto non è uno stallo, anche quando appare inavvicinabile. La contro-temporalità del trauma ci fa sperimentare proprio questo contrasto: da un lato l’evitamento del conflitto attraverso la ripetizione, spesso agita, nel suo movimento ripetitivo, pendolare o circolare, a volte estenuante, dall’altro la possibilità di cogliere che essa mantiene anche un sottile movimento sotterraneo che avanza in progressione e di cui emergono solo granelli che potrebbero essere tuttavia punte di iceberg e insieme pietruzze per la traccia di un nuovo sentiero. Quindi la questione è come noi analisti ci sintonizziamo sul raccogliere queste pietruzze di dimensioni a volte infinitesimali che potranno divenire aggregandosi nuova traccia di pensiero e di vita.[2]

 In questo sforzo è anche importante mantenere uno sguardo più lungimirante, come lo sguardo che ha il piccolo Ernst, nipotino di Freud, nel gioco del rocchetto. Secondo una mia riflessione lo sguardo di Ernst propone una lungimiranza più nel fort che nel da (Freud, 1920), poiché è uno sguardo che cerca di non perdere mai di vista l’impegno affinché le nuove difese siano sufficienti a garantire una capacità di previsione. Lo sguardo che propongo è dunque uno sguardo bidirezionale più che binoculare, forse una vera diplopia, in modo che si assolva la controtemporalità dell’esperienza traumatica ma anche ciò che cerca di andare oltre ad essa.[3] Credo vada ricordato che i pazienti con difese psicotiche hanno due fronti di lotta: uno volto a controllare le spinte disorganizzanti di una pulsionalità da tempo mal governata, l’altro volto alle pretese del nucleo familiare, che forse non è stato capace transgenerazionalmente di consentire una buona dialettica con il mondo esterno, e, come ricorda Kaës, con i garanti sociali (2012), rimanendo così inevitabilmente chiuso in una visione autarchica e paranoicale della vita sociale esterna. Questo può diventare un’altra fonte di attacco, non consentendo ai figli quell’espressività che contrasta le aspettative genitoriali e che anche Aulagnier ricorda essere invece indispensabile. Possiamo trovare molte analogie a tutto questo in diverse espressioni patologiche.

Il lavoro psicoanalitico ha lo scopo di cercare strade per la simbolizzazione e il pensiero, ripristinando la traccia per un percorso anche dove sembrano esserci voragini incolmabili. La rimozione è infatti in questi casi già fallita ed il passato a volte va costruito prima che ricostruito in una sua risignificazione possibile, e questa sorta di protesi storica non è solo completiva o soddisfacente un ordine idealizzante senza apparenti conflittualità, essa ha al contrario il senso profondo di un lavoro per una riorganizzazione psichica che possa far ripartire il tempo messo in stallo. Poiché la vera caratteristica psichica del trauma è in fondo l’impossibilità di risignificazione trasformativa dell’evento traumatico.[4]

Nel nostro registro la costruzione e riconnotazione storico-temporale del processo psicoanalitico assume caratteristiche molto faticose e opache, poiché traccia la bozza di una soggettività che si racconta autobiograficamente mentre si ricostruisce, e così facendo si restituisce una donazione di senso, oltre che di significato, come eredità rielaborativa che ricongiunge ad un passato ed è insieme investimento nel futuro. I pazienti spesso non sanno di essere pazienti perché non sanno nemmeno chi sono come soggetti, e questo ci dà la misura dell’impresa pionieristica che a volte intraprendono con noi psicoanalisti.

Ho pensato così di definire possedere il trauma quella sorta di padroneggiamento autobiografico del trauma da parte dell’Io caratterizzato inizialmente dall’illusione di non subirlo e poi, nel corso del lavoro analitico, di poterlo ricondurre ad un miglior governo, libero dalla ripetizione, nella quale vengono introdotte passo-passo piccolissime trasformazioni. Sembra instaurarsi una priorità che l’Io inconsciamente stabilisce per garantire la sopravvivenza – tanto repentina quanto progressiva – pur non essendo in grado a volte di controllare la comparsa in contemporanea di un’attivazione pulsionale sadica.

L’impasse non si colloca dunque sull’asse del desiderio, ma su quello della sopravvivenza. Anche perché l’eccitazione del trauma prevale e oscura il desiderio, quando non arriva a sopprimerlo, riattivando bisogni primari mai soddisfatti, e sui quali non c’è stata mai capacità, aiuto o cura per fare il lutto di queste mancanze, compromettendo così variamente l’Io secondo quegli aspetti destinali che rimandano al trauma originario e all’Hilflosigkeit, l’angoscia primaria, che così si riattualizza senza sosta.

Si tratta della condivisione per paziente e analista di una sorta di coprifuoco narcisistico.

Il termine coprifuoco, anche nel suo uso metaforico, rappresenta bene quindi lo stato di guerra-conflitto in atto (su più fronti, interno-esterno), così come la necessaria difesa per una sopravvivenza comune, che può accomunare analista e paziente e farli sopravvivere ai lunghi tempi di attesa. È anche un’espressione che rende conto del ridimensionamento delle forze. Un analista troppo forte, troppo difeso, è come un muro su cui l’ondata del paziente rimbalza ricadendo rovinosamente su lui stesso, come Green stesso ci ricorda sia nello studio degli stati limite (Psicanalisi degli stati limite. La follia privata, 1991), che ne Il tempo in frantumi (2000). È una condizione comunque di condivisione e non di reciprocità. Infine, ma non lo riterrei irrilevante, il coprifuoco è sempre imposto da un’autorità -come per il lockdown imposto a contenimento della pandemia- in questo caso e ancora in metafora: la regola analitica? Il setting? Entrambi? In ogni caso si tratta di elementi di forte evocazione edipica riguardo alla sottomissione alla Legge.

Si possono ritrovare, dopo una lunga attesa, investimenti libidici residuali, o sopiti, o dispersi. Evidenziarli non è comunque cosa facile. Questa è però la strada per una tessitura parallela al trauma, che consenta di attingere ad un mondo fantasmatico portatore di risorse soggettivanti e che consenta di spostarsi al di là della sopravvivenza, per non lasciare il soggetto nello stallo di un differimento al vivere che può diventare senza fine. La tessitura di questi aspetti nel tempo ha di per sé una funzione contenitiva sulla ripetizione e sulla riattualizzazione traumatica, ed è così che l’aspetto contenitivo potrà diventare anche strutturazione di limite, di confine alternativo e di luogo di scambio, quindi trasformativo. Ma tutto ciò può configurarsi solo come un lontano punto di arrivo.

Il lungo e lento movimento parallelo è corrispondente alla necessità che si possa ripetere il trauma in seduta. Il decorso è necessariamente parallelo alla melma del trauma, non la ostacola e non se ne fa travolgere evidenziando i confini del mondo fantasmatico che a volte rimane sopito e distanziato solo da pochi passi. L’analista, che condivide la drammaticità del trauma, diventa così una proposta implicita al paziente per tenersi fuori dalla melma che è già stata sperimentata nel suo potere travolgente, ma l’analista, pur standone fuori, non abbandona mai la sua postazione per seguirne il decorso.

In questi passaggi paralleli, non ci sarebbe tuttavia l’apertura al nuovo (latino: pateo) se non ci fosse stata l’incisività di una parola anche perpendicolare al trauma, che da fuori penetrava provocando un altro decorso, favorendo una comune e accettabile convivenza mente-corpo. Una parola interpretativa che si spalma in più tempi, con rimando alla “drammatizzazione della parola” di Donnet, 2016.

Ma il pateo, l’apertura al nuovo, che attraversiamo con i nostri pazienti, dove trova anche in noi le risorse? Riprendendo la forte immagine de La Recherche di Proust in cui il sarto di Albertine riproduceva sulle stoffe degli abiti, che la protagonista indossava, temi di antichi quadri ed affreschi, penso che il nostro lavoro di studiosi è in fondo un ritessere la nostra esperienza sull’ordito e sulla trama di antiche tessiture, della nostra vita, della nostra disciplina e di altri saperi, e di far sentire questo piacere, vasto e umile insieme, perché altri lo possano coltivare in nuove tessiture.

 

[1] Breccia M., Contro-tempo. La temporalità del pensiero e della storia nella clinica e nella letteratura, Milano, Mimesis, 2022.

[2] Voglio precisare, riguardo alle varianze nella ripetizione, raccolte e aggregate fino alla composizione-ricomposizione di tracce, che tutto ciò che ipotizzo non immagino possa accadere secondo la similitudine con il clinamen degli atomi epicurei che acquisiscono una deviazione spontanea nel corso della loro caduta verticale in linea retta. Tutto ciò accade all’interno di un movimento transfero-controtransferale nel corso del processo analitico e di tutti i movimenti secondari da questo indotti.

[3] È certo comunque anche il fatto che la lotta contro la soluzione tragica, quella che salta il conflitto inesorabilmente, anche nelle forme più tragiche del diniego, non è né semplice né clinicamente poco impegnativa, e la sua proposta nella clinica non è poco frequente.

[4] La teoria dei buchi neri di Einstein, recentemente confermata dall’esperienza scientifica, rimanda tanto al risucchio dall’esperienza esistenziale quanto ad un rallentamento temporale fino ad un arresto senza fine del tempo e della materia che sembra dissolversi. Sia questa, sia la recente teoria dei buchi bianchi di Rovelli (2023), per ora solo ipotetica, sarebbero utili termini di confronto analogico sulle possibilità di risignificazione trasformativa traumatica.

Bibliografia

 

Breccia M. (2022). Contro-tempo. La temporalità del pensiero e della storia nella clinica e nella letteratura. Milano, Mimesis.

Donnet J.-L. (2016). « L’agir de la parole ». In Aa.Vv., Des psychoanalystes en séance. Glossaire clinique de psychoanalyse. Paris, Gallimard.

Freud S. (1914). Introduzione al narcisismo. O.S.F., 7. Torino, Boringhieri.

Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere. O.S.F., 9. Torino, Boringhieri.

Freud S. (1937). Analisi terminabile e interminabile. O.S.F., 11. Torino, Boringhieri

Green A. (1991). Psicoanalisi degli stati limite. La follia privata. Milano, Raffaello Cortina, 1991.

Green A. (1993). Il lavoro del negativo. Roma, Borla,1996.

Green A. (2000). Il tempo in frantumi. Roma, Borla, 2001.

Kaës R. (2012). Le malêtre. Paris, Dunod.

Laplanche J. (1992). Il primato dell’altro in psicoanalisi. La rivoluzione copernicana incompiuta. Milano, Mimesis, 2021.

Proust M. (1913-1927). À la recherche du temps perdus. Paris, Bibliothèque de la Pléiade, 2005.

Rovelli C. (2023). Buchi bianchi. Milano, Adelphi.

 

Marina Breccia, Calci (Pisa)

Centro Psicoanalitico di Firenze

marinabreccia55@gmail.com

*Per citare questo articolo:

Breccia M., (2024). Il tempo fuori sesto nella cura analitica, KnotGarden 2024/3, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 54-62.

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