Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Antonio Alberto Semi
(Venezia), Membro Ordinario con Funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana.
*Per citare questo articolo:
Semi A.A., (2024). Soggettività e individualità nella cura, KnotGarden 2024/3, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp.21-36
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Cari Colleghi,
questo incontro che oggi è a distanza si teneva tradizionalmente in presenza a Venezia. Non vi stupite perciò se in omaggio a questa tradizione all’inizio vi ricorderò un detto popolare veneziano, al quale nella mia relazione cercherò di attenermi, detto secondo il quale “un zoto e un orbo no fa un gualivo”, ossia uno zoppo e un cieco, combinati assieme, non fanno un uomo sano. Dentro di me, questo ironico detto si collega alla massima attribuita a Guglielmo da Occam, secondo la quale entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. Come dire che le teorie non debbono essere moltiplicate se non è necessario farlo e, soprattutto, non ci si deve illudere che elaborando due teorie mancanti (un “zoto e un orbo”) e poi mettendole assieme diventino una buona teoria[1]. Non cercherò, perciò, consolanti concordanze tra teorie diverse, amalgami bizzarri tra elaborazioni che hanno presupposti o postulati o assiomi di base[2] – come volete chiamarli – diversi tra loro e in certo senso in concorrenza. Cercherò piuttosto, per chiarezza, di distinguere il livello osservativo e descrittivo da quello più propriamente teorico. E anzi, sempre a scopo di chiarezza, spiegherò subito l’accezione nella quale userò i primi due termini che costituiscono il tema di questa relazione: soggettività e individualità. Poi arriveremo alla cura, terzo termine del discorso.
Soggettività innanzitutto: è il termine che indica qualcosa che si contrappone alla oggettività, alla dimostrabilità, alla teoria basata su “evidenze” come si dice con una traduzione sbagliata di evidence, che invece vuol dire prova. Soggettività che si collega invece a arbitrarietà, all’affermazione di qualcosa solo perché la si sente e al di fuori, almeno all’inizio, di qualsiasi pretesa cosiddetta razionale. Soggettività intesa come somma momentanea di movimenti psichici assai diversi, che a livello conscio possono configurarsi come idee, fantasie, ricordi, sentimenti, emozioni con l’insieme dei quali contenuti e movimenti, al momento, nel presente, ci si identifica nel solo senso di ritenere giustificato l’uso della prima persona hic et nunc ma sicuramente non alibi et tunc, come dire che quel che si sta per dire o che si sta pensando è proprio, personale, anche se si tratta di una proprietà assolutamente effimera ma anche e proprio per questo essenziale. Soggettività è poter riconoscere che in questo momento io sono così, mi passano per la testa questi pensieri e questi sentimenti anche se so che certamente tra un po’ e anche tra pochissimo non sarò più quello lì, avrò inevitabilmente altri pensieri, come collegati o meno con i precedenti magari credo di sapere e però anche non so.
Soggettività dunque come fatto che topicamente si manifesta a livello conscio ma che, proprio per le proprie caratteristiche, segnala l’esistenza di qualcosa che conscio non è, che dunque è inconscio.
Soggettività infine – infine sì, ma last but not least – che non suppone o non implica alle proprie spalle alcuna ontologia e dunque alcun “soggetto” e che anzi ci ricorda e in qualche modo testimonia la necessità che le nostre costruzioni teoriche, ossia la loro forma conscia[3], conservino la consapevolezza di essere delle impalcature costruite da noi[4]. Voglio con ciò sottolineare che il concetto di ‘impalcatura’ di contro a quello di edificio non riguarda solo l’apparato psichico di contro al corpo o al sistema nervoso ma riguarda qualunque tipo di ‘sostanzializzazione’, in accordo del resto con la famosa affermazione di Breuer (peraltro condivisa da Freud) secondo la quale “È fin troppo facile cadere nell’abito mentale di supporre una sostanza dietro un sostantivo” (OSF, I, 372).
Su questa soggettività che alla coscienza critica appare arbitraria, transitoria, effimera ma che evidentemente è necessaria e comunque ineliminabile, sulle sue crepe e sulle sue coloriture affettive, sulle sue coerenze e sulle sue cadute e deficienze si basa il nostro singolare lavoro, che utilizza questa fragile base per superarla. Ma fosse solo per il nostro lavoro, poco importerebbe. Il fatto è che su questa soggettività si poggia l’essere umano nella sua vita reale.
Come potete notare, non ho perciò parlato di “soggetto”. Al di là delle necessità grammaticali, che ovviamente vanno rispettate ma anche riconosciute per tali, mi chiedo infatti se parlare di soggetto in psicoanalisi abbia un senso. Certamente glielo si può attribuire, se si pensa alla mole dei contributi prodotti a questo proposito[5] ma, mi chiedo, c’è davvero la necessità di questa categoria? O, anche, non è che questa categoria sia sintonica ad un certo universo culturale, ad esempio quello delle scienze sociali o anche della filosofia, ma risponda allora più ad un’esigenza culturale che ad una scientifica e nostra propria? Insomma, l’interrogativo è anche qui quello di Guglielmo da Occam. E aggiungo che la soggettività è invece, per così dire, un fatto, constatabile e condividibile e soprattutto sperimentabile da ciascuno di noi anche se valutabile diversamente, molto diversamente ossia con diversi criteri, ma insomma la soggettività è comunque un fatto mentre il soggetto è una categoria. E io non sento la necessità di aggiungere questa categoria al nostro armamentario concettuale già fin troppo fornito.
Per restare ai fatti, veniamo allora al secondo termine di questa relazione: la individualità, termine difficile e in qualche misura inconsueto in psicoanalisi. La parola contiene il concetto di indivisibilità, di impossibilità di divisione di un oggetto, pena la perdita di quel che lo caratterizza. Vista poi da fuori, dall’esterno, l’individualità è ciò che consente la individuabilità: quel modo di camminare, quel tipo di accento, quello stile di vestiario, quel modo di parlare, perfino quel profumo, ci permettono di riconoscere un altro già da lontano. Si può individuare l’individuo, cioè l’intero, da una sua parte perché si sa che è individibile e dunque se ne percepisco una parte ci sarà anche tutto l’intero. “Ho sentito che di là c’era X che parlava”. La voce ha individuato X. Naturalmente con la possibilità di tutta una serie di errori conoscitivi o di incertezze. Eppoi, visto anziché udito da fuori, un individuo occupa uno spazio che nessun altro può occupare e uno spazio che l’individuo stesso sa di non poter condividere con un altro.
Voglio con ciò dire che ogni ipotesi di fusione, confusione, simbiosi, diade e così via è una costruzione astratta, non un dato percettivo ed è bene tenere presente costantemente questa differenza. Quando, già nel Progetto (1895) Freud stabilisce un quadro per l’intendersi, per la Verständigung, lo fa a partire da un dato percettivo: lì ci sono due esseri umani, il neonato e il soccorritore. Due individui. Questo è un dato concreto, percepibile. Come questi due poi possano intendersi e a partire da quale situazione individuale e interpersonale possano intendersi, questo è il problema che implica uno sforzo teorico non privo di rischi.
Viceversa, il problema delle costruzioni teoriche che partono dalla concezione di una unità (fusione, diade, simbiosi ecc.) dalla quale differenziare due unità è quello di correre il rischio del diniego del dato percettivo.
Quanto al dato “due individui”, più di vent’anni dopo il Progetto, Wittgenstein, all’inizio della prefazione del Tractatus logico-philosophicus (1921) scrive: “Questo libro, forse, comprenderà solo colui che già a sua volta ha pensato i pensieri ivi espressi – o, almeno, pensieri simili –. Esso non è dunque un manuale. Conseguirebbe il suo fine se piacesse [sottolineo questo richiamo al piacere] ad uno che lo legga e comprenda”[6]. Mirabile descrizione e insieme mirabile delimitazione: due persone, l’autore e il lettore, possono comprendersi solo se entrambi hanno in qualche modo già pensato i pensieri contenuti nel libro. Ecco dunque qui la questione, che ho appena indicato, del “a partire da quale situazione due esseri umani possano intendersi”. Il Nebenmensch deve avere pensato pensieri simili, per poter comprendere l’attività di pensiero del neonato urlante. E, di più, il fine del libro di Wittgenstein è quello di procurare piacere al lettore in grado di comprenderlo. L’esperienza di soddisfacimento che Freud descrive e cerca di spiegare[7]. Ossia mi sembra che la descrizione di Wittgenstein sia in qualche modo sovrapponibile a quella dell’Entwurf, anche se evidentemente si colloca tra due adulti e in un contesto diversissimo. La riporto perché mi aiuta a mettere in evidenza il fatto che l’intendersi tra due individui è dunque una possibile condizione umana svincolata da considerazioni temporali. Che si tratti di un neonato con un Nebenmensch possibile soccorritore o di un filosofo con un lettore colto, il processo è il medesimo e la finalità è quella dell’ottenimento del piacere.
Freud, rispetto a Wittgenstein, aveva sottolineato però un elemento in più: l’intendersi è una necessità umana provocata dal bisogno insoddisfatto di uno dei due individui.
Come vedete mi mantengo sul terreno dei fatti percepibili: l’individuo, ossia un essere delimitato anche spazialmente, può avere e di fatto ha bisogno dell’altro e questo bisogno è anche duplice, nel senso del bisogno di trovare qualcun altro che soddisfi i suoi bisogni individuali. Insomma l’individuo, con tutte le caratteristiche che ho indicato, non è autosufficiente e la non-autosufficienza si manifesta in modo drammatico tramite il bisogno. Però i due bisogni sono differenti. Cercherò di pensare come si possa pensare la questione del bisogno individuale.
E qui, visto che il tema mio di oggi è quello di “Soggettività e individualità nella cura” sto entrando nella osservazione del terzo termine e sto ponendo l’interrogativo relativo al bisogno nel nostro lavoro: quale bisogno deve poter essere soddisfatto nella cura perché ci si possa intendere? Che rapporto si costituisce tra il bisogno e il desiderio? E a questo proposito che ne è della famosa ‘regola’ della frustrazione? Riguarda, questa regola, anche i bisogni o invece è legata alla dinamica dell’espressione e della ricercata soddisfazione del desiderio sessuale? Insomma mi sto ricollegando ad un filo di pensieri che riguardano la psicoanalisi come metodo realistico[8]. E la realtà è che l’essere umano non è solo un essere desiderante ma anche un essere bisognoso e non autosufficiente.
A pensarci, è un ben strano destino, quello del bisogno in psicoanalisi. Ab initio, sia nel senso evolutivo (l’inizio dell’individuo) sia nel senso dell’inizio della storia della teoria, esso ha un ruolo contemporaneamente importante e secondario, importante perché su di esso si appoggia l’operazione di differenziazione che ad esempio il neonato compie, passando dalla fame (cioè il bisogno di cibo) al piacere conseguente alla soddisfazione del bisogno e poi dal piacere all’amore e man mano alla costituzione dell’oggetto e anche all’autoerotismo e così via. Ma, finita questa operazione che inizialmente è di appoggio, dove va a finire il bisogno? È un interrogativo legittimo perché, presi come siamo stati tutti – un raro caso di unanimità psicoanalitica – dalle vicissitudini del dispiegarsi dell’attività psichica, sembra quasi che il bisogno sia passato in seconda fila, relegato magari in quell’universo controverso che è il ‘corpo’. Ancora nel 1938, nel Compendio, Freud scrive così: “Il primo organo che si manifesta come zona erogena e avanza alla psiche una richiesta libidica è, fin dalla nascita, la bocca. All’inizio ogni attività psichica è preposta a procurare soddisfacimento ai bisogni di questa zona. Essa serve naturalmente in prima istanza all’autoconservazione attraverso il nutrimento; ma non è lecito scambiare la fisiologia con la psicologia.” (OSF, XI, 580-581) E prosegue così: “Assai per tempo, nella caparbia ostinazione con cui il bambino continua a ciucciare si palesa un bisogno di soddisfacimento che, nonostante provenga e sia stimolato dall’assunzione del cibo, persegue tuttavia il piacere indipendentemente dalla nutrizione; per questo motivo deve e può esser chiamato sessuale.” (p. 581). Si noti che qui Freud parla – ed è importante – di un bisogno di soddisfacimento. Dunque da un bisogno si passa allo stato di due bisogni. Ossia, notate, anche quello sessuale è un bisogno.[9]
Nel frattempo, cioè dal ’95 al ’38, il ‘destino’ teoretico del bisogno si era però andato assestando all’interno della discussione del problema delle pulsioni di autoconservazione e di quello delle pulsioni dell’Io[10].
Sennonché in tal modo si è rischiato, a mio parere, di sorvolare sulle minute dinamiche psichiche del bisogno in quanto tale. Mi sembra lecito infatti interrogarci sul percorso e sul lavoro psichico che consente, a partire dall’inconscio, di costituire nel preconscio e nella coscienza la rappresentazione “fame” o “sete” o “bisogno di evacuare” e così via, con il correlato lasciapassare alla attività motoria. Che cosa è accaduto, che lavoro ha svolto l’apparato psichico perché alla coscienza appaia questa rappresentazione? E quali affetti si collegano ad essa?
Si tratta di domande che hanno un presupposto teorico importante, che voglio segnalare e che è appunto quello della individualità. L’individuo è uno e non vale spostare l’attenzione sulla ‘fisiologia’ o sul corpo, come viene spontaneo di fare a tutti. È “dentro” l’individuo che si sviluppa un lavoro psichico che porta alla costituzione della rappresentazione “fame”, non dentro due realtà diverse. Mi rifaccio, se volete, all’ovoide disegnato da Freud in L’Io e l’Es (1922) che, come vedete, è una unità, senza aperture o aree che implichino altre realtà. Del resto, lo stesso Freud, per illustrare la cosa, sostiene che questo disegno rappresenta un individuo, non – notate – un apparato, cioè una parte di un individuo[11].
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[1] Gulielmi Occhami, Summa Totius Logicae, Oxonii, MDCLXXV (è l’edizione di cui dispongo)
[2] Si veda, per le implicazioni del rapporto tra assiomi di base e metodo osservativo, F. Riolo, Metodologia della ricerca, in Riv. Psicoanal., 2018, LXIV, 2, 253-267.
[3] Come sappiamo, le teorie sono poi anche conseguenze di complessi equilibri endopsichici.
[4] “Ich meine, wir dürfen unseren Vermutungen freien Lauf lassen, wenn wir dabei nur unser kühles Urteil bewahren, das Gerüste nicht für den Bau halten.” (Freud, G.W. II/III, p.541).
[5] Una discussione ampia del problema in Cahn R (2016), Le sujet dans la psychanalyse aujourd’hui. Presses Universitaires de France, Paris. Questo testo andrebbe a sua volta ampiamente discusso e contiene comunque anche una riflessione dell’autore a partire dal suo rapporto Du sujet del 1991 per il Congresso degli psicoanalisti di lingua francese.
[6] “Dieses Buch wird vielleicht nur der verstehen, der die Gedanken, die darin ausgedrückt sind — oder doch ähnliche Gedanken— schon selbst einmal gedacht hat.— Es ist also kein Lehrbuch.—Sein Zweck wäre erreicht, wenn es Einem, der es mit Verständnis liest Vergnügen bereitete. [Questo libro, forse, comprenderà solo colui che già a sua volta ha pensato i pensieri ivi espressi- o, almeno, pensieri simili-. Esso non è dunque un manuale-. Conseguirebbe il suo fine se piacesse ad uno che lo legga e comprenda.] L. Wittgenstein (1921) Incipit della Prefazione al Tractatus logico-philosophicus, tr. It. Einaudi, Torino, 1964.
[7] Cfr. Freud S. (1895) Progetto di una psicologia. OSF, II, parte 1, § 11, 222 e seg..
[8] Cfr. per questo concetto i miei rilievi in Il metodo delle libere associazioni (Cortina, Milano, 2011), Metodo psicoanalitico e controtransfert. Rivista di Psicoanalisi, 2012, LVIII, 2, 313-333 e Il metodo e il corpo. Rivista di Psicoanalisi, (2019) LXV, 1, 83-88.
[9] Ibid.
[10] Si veda la voce, particolarmente accurata, “Pulsioni dell’Io, pulsioni di autoconservazione” in Le Guen Cl. (2008) Dizionario freudiano, Roma, Borla, 2013 alle pp.1007 e seg..
[11] “Un individuo è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio, sul quale poggia nello strato superiore l’Io, sviluppatosi dal sistema P come da un nucleo.” (Freud, OSF IX, 486-87, corsivo mio). Qui insomma Freud indica una totalità, un in-dividuo appunto, tant’è che nella rappresentazione grafica, oltre che nel testo, raffigura appunto un ‘tutto’.
Come vedete siamo passati dalle caratteristiche dell’individuo alla questione del bisogno e ora stiamo tornando all’individuo e alla individualità tramite le domande relative alle dinamiche del bisogno. Queste domande hanno sì allora un presupposto teorico ma poi anche varie implicazioni cliniche, in parte anche molto attuali.
Stando sul piano osservativo e descrittivo, infatti, dobbiamo innanzitutto notare che molti adulti oggi non hanno alcuna esperienza di svariati tipi di bisogno. Prendo come primo esempio la fame, perché è più probabile che molti di noi l’abbiano provata almeno episodicamente quand’erano neonati. Ma poi, l’hanno più provata? E non parlo, evidentemente, dell’appetito o del “buco nello stomaco” per un pasto saltato – che hanno certo anche a che fare con la fame ma solo alla lontana, cioè come segnali e non come bisogni veri e propri – ma dico invece la fame vera e propria, quella che fa sentire che non solo c’è un bisogno urgente di cibo ma che quel bisogno ha a che fare con la vita: se non viene soddisfatto, non solo non c’è il piacere, ma c’è la morte ossia non ci sarà più l’individuo.
Quanto alle possibili implicazioni cliniche attuali, penso che molti dei nostri futuri o attuali pazienti, provenienti da altre aree umane del globo, abbiano sperimentato duramente anche da adolescenti e da adulti cosa significhi aver fame: ma noi, che non l’abbiamo più provato, saremo in grado di riconoscere e riprovare con loro la drammaticità del bisogno? E, badate, non per una pur apprezzabile solidale condivisione ma per poter comprendere davvero che spazio occupa e di che vicende sia per così dire protagonista il bisogno nell’attività psichica (di costoro e non solo). A proposito di clinica, ricordo ma non mi soffermo qui sui bisogni dei pazienti nevrotici in analisi e sul problema che spesso si pone relativamente alla loro soddisfazione, ad esempio anche a proposito dell’uso del bagno che talora pone appunto al terapeuta l’interrogativo relativo: si tratta di un segnale con contenuto simbolico o “solo” di un bisogno o, come capita più spesso trattandosi di entrambe queste possibilità, come interpretare l’una senza negare l’altra?
Poi, naturalmente, bisogna dire che c’è bisogno e bisogno. Non posso qui fare tutta una tipologia dei bisogni e quindi mi limiterò a sostenere che, per così dire, ci sono bisogni con direzione dell’oggetto da fuori a dentro e altri da dentro a fuori. Aria cibo e liquidi richiesti dall’esterno o prodotti da esternare. Con la differenza fondamentale che i primi, quelli che necessitano un intervento dall’esterno, implicano una dipendenza dall’ambiente, i secondi invece non la implicano necessariamente. Si tratta in ogni caso di mantenere una certa stabilità.
Però il nostro problema è quello dello stimolo, sempre interno, che attraversa l’individuo fino a giungere alla coscienza e, appunto, all’attività motoria. Grosso modo, possiamo notare in prima approssimazione che questo tragitto avviene per lo più senza grandi grattacapi apparenti, nel senso che l’individuo arriva comunque a sapere cioè a esperire consciamente, che ha fame, sete, bisogno d’aria, bisogno di evacuare o di mingere, anche se come sappiamo lo stimolo non diventa mai una endopercezione pura, ma questa è sempre anche caratterizzata da quel che chiamiamo uno stile personale. In ogni caso, si tratta di percezioni che implicano una attività conseguente per lo più senza che, coscientemente, questa attività venga avvertita immediatamente come necessaria per la vita[1]. Infatti, come avevo annotato poco fa, solo nei casi estremi il binomio bisogno-vita (o morte) si impone all’osservazione. Eppure, tutte queste attività sono condizioni necessarie alla prosecuzione della vita e l’interruzione di una sola di esse provoca la morte, ossia l’interruzione di una sola di esse provoca la scomparsa dell’individuo. E, ancora bisogna notare come queste percezioni si costituiscano alla coscienza dopo percorsi che in qualche modo possiamo attribuire a quella parte dell’apparato psichico che ora chiamiamo “inconscio non rimosso”: intendo dire che, in ogni caso, la percezione è sufficientemente chiara da per così dire prescrivere all’individuo un’attività finalizzata a modificarla, quasi che non fosse determinante l’interazione con i vari meccanismi di difesa dell’Io che costituiscono per ciascuno quella che viene chiamata “equazione personale”. Certo, la fame e anche il semplice appetito, potrà essere collegata in vario modo a vicende individuali in massima parte inconsce perché soggette al lavorio dell’inconscio rimosso ma, a differenza dei desideri espressione di una dinamica sostanzialmente investita di energia dalle pulsioni di vita, non subirà – e altrettanto accade per gli altri bisogni – un camuffamento tale da impedire all’individuo di riconoscerla. Semmai esiste tutta una patologia delle funzioni vitali e dei bisogni che le esprimono per poterle continuare, che è caratterizzata dalla contemporanea presenza alla coscienza del bisogno e delle reazioni ad esso. Che si tratti dell’anoressia o dell’asma, della stipsi cronica o del globo vescicale, cioè che si tratti di patologie gravi o di sintomi anche per così dire tollerabili. Questo è il campo che mi sembra possa essere definito come quello della patologia della individualità e che mi sembra conseguente al conflitto tra dinamiche caratteristiche della soggettività (e tipicamente affrontate nel nostro lavoro) e dinamiche della individualità. Come se, ritornando per comodità all’ovoide del 1922, i contenuti delle due aree potessero, per così dire incontrandosi, generare dei conflitti ma anche potesse accadere la dilatazione di un’area a spese dell’altra.
Sto indicando, come vedete, delle prospettive, dei punti di vista teorici chiedendomi e chiedendovi se questi punti di vista possano aprire delle linee di ricerca. Mi sembra che questo modo di pensare consenta di essere abbastanza realisti.
Ma, prima di concludere, voglio soffermarmi brevemente su due bisogni particolari, che a mio parere debbono attrarre la nostra attenzione: il bisogno sessuale e il bisogno di pensare. Sono bisogni ai quali in generale non pensiamo in questi termini. Ad esempio parliamo spesso di sessualità e di psicosessualità ma in generale non si considera, come invece faceva Freud ancora nel ’38 (è il passo che vi avevo citato prima) quello sessuale come un bisogno. Quanto al pensiero, assai raramente viene considerato come un bisogno. Eppure l’individuo non potrebbe esistere se non avesse un’attività di pensiero e, anzi, tutti consideriamo questa attività quella che ci qualifica come esseri umani viventi. Infatti pensiamo sempre, giorno e notte. Anzi: non possiamo non pensare, così come non possiamo non respirare, non mangiare, non bere e così via. L’assenza di un’attività di pensiero ci fa dire che siamo in presenza di un cadavere.
Ebbene: se consideriamo questi due bisogni per quel che sono, possiamo riflettere sulla prospettiva che prima ho indicato: cosa può accadere, ad esempio, se il bisogno sessuale non si intreccia e non si informa con le dinamiche pulsionali che portano alla formulazione del desiderio psicosessuale? Non diventerà in questo caso il bisogno sessuale qualcosa di avvertito a livello della coscienza come gli altri bisogni e dunque come qualcosa non solo di imperioso ma anche di obbligatorio e dunque indifferente alle caratteristiche dell’oggetto che potrebbe soddisfarlo ma anche relativamente indifferente rispetto al tipo di soddisfazione ottenuta? Noi, spesso, pensiamo alle dinamiche narcisistiche che possono condizionare le scelte e le attività sessuali ma se invece pensiamo a dinamiche di bisogno non ci potrebbe essere addirittura un possibile e grave conflitto tra dinamiche narcisistiche e dinamiche di bisogno? Le descrizioni delle proprie condotte sessuali che ci fanno spesso oggigiorno i nostri pazienti non sono anche descrizioni di vicende legate alla soddisfazione del bisogno a proposito delle quali letteralmente non ha senso interpretare delle dinamiche inconsce che non hanno avuto luogo?
E, fin qui, credo che ne potremmo discutere abbondantemente. Ma quando invece ci volgiamo a prendere in considerazione l’altro bisogno, il bisogno di pensare, le cose si complicano. Perché questo bisogno può avere solo una soddisfazione soggettiva e, per giunta, non una soddisfazione tramite un oggetto concreto ma tramite una relazione, che si tratti di una relazione con un Nebenmensch o di una relazione tra catene rappresentazionali presenti nell’inconscio. Le vicende della costituzione delle relazioni con gli oggetti possono anche essere lette da questo punto di vista, chiedendoci cioè come e in che misura esse soddisfino il bisogno di pensare o viceversa chiedendoci quando questo bisogno viene davvero soddisfatto. In questa prospettiva, la pulsione di vita, Eros, nella misura in cui costringe a stabilire legami è anche garante della possibilità di soddisfazione del bisogno di pensare.
Tutto questo penso ci possa fertilmente interrogare circa l’uso del nostro metodo psicoanalitico e circa la tecnica che ne discende. Ci sarebbe qui spazio per tutta un’altra relazione ma mi limiterò all’indicazione di alcuni interrogativi che questa prospettiva di pensiero può porre nella e alla nostra attività clinica.
Come percepiamo la realtà del nostro cliente, paziente possibile? Come possiamo rispettare e riconoscere la sua individualità e contemporaneamente la sua soggettività? Come può, lui e noi con lui, riconoscere davvero i propri bisogni per quel che sono – e anche per quel tanto di umiliante che può implicare, a livello dell’equilibrio narcisistico, lo stato di necessità, la impossibilità di alternativa – e contemporaneamente avvertire la grandiosità che è implicita nella capacità di rispettare davvero quel che si è? O, interrogativo rivolto a noialtri stessi, non è forse più economico pensare in termini di corpo-e-mente e collocare nel corpo i bisogni, con ciò allontanandoli un po’ o per un po’ di tempo dai nostri pensieri?
Sono, come vedete, tutta una serie di pensieri che non hanno una risposta diretta. Mi scuserete se li ho proposti così come mi girano per la testa da un bel po’. E vi ringrazio di avermi ascoltato.
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[1] Ho in parte discusso questo punto nella comunicazione al Congresso nazionale della SPI: “Quale inconscio non rimosso?” del 5 febbraio 2021, comunicazione con la quale questa relazione è in continuità.
*Per citare questo articolo:
Semi A.A., (2024). Soggettività e individualità nella cura, KnotGarden 2024/3, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp.21-36
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
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