L’arte della gioia

Recensione di Mirko Trivisani

L’arte della gioia

Goliarda Sapienza

(1998)

Einaudi Editore, 2008

pagg. 511

Quando lessi L’arte della gioia di Goliarda Sapienza avvertii l’impulso a condividere i pensieri e le sensazioni che quella lettura, irrefrenabile, un po’ convulsa, a tratti inquieta, aveva suscitato in me. L’idea di una recensione mi sfiorò ma qualcosa mi fece desistere. La condivisione, tuttavia, avvenne con alcuni amici e colleghi con i quali potemmo, inoltre, reciprocamente svelare le rimozioni che, direi puntualmente, ciascuno applicava a particolari sezioni del testo, constatando quindi che L’arte della gioia suscitava, persino in quelli che come noi avevano amato il romanzo, una violenta attività difensiva. Alcuni anni sono trascorsi da allora e, nel giugno 2024, scopro che Valeria Golino si è cimentata nell’ardua impresa di mettere in scena il romanzo di Goliarda Sapienza. Con un misto di desiderio e timore mi accingo a vedere il film, sarà proprio la fruizione del film, quindi la potenza delle immagini, ad arricchire i pensieri scaturiti in me dalla lettura e rilettura del libro.

Il romanzo ha avuto una travagliata storia di pubblicazione. Goliarda Sapienza dà avvio alla sua stesura nel 1967. A quel tempo aveva già terminato Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno, che vedrà la luce due anni dopo, il quale, usando le parole di Angelo Pellegrino, è «un libro d’amore. D’amore per l’analisi» (2019, 7), quell’analisi a cui Goliarda aveva avuto accesso quasi per caso, dopo un infruttuoso ricovero in una clinica romana prodiga di elettroshock. Il filo di mezzogiorno segue, dunque, Lettera aperta, cui direttamente si ricollega, e doveva far parte di un ciclo autobiografico, un’autobiografia costantemente in fieri, man mano che la vita fluiva. Periodicamente una nuova Lettera aperta, dove ogni volta dovevano entrare in scena i vecchi personaggi aggiunti ai nuovi, ai nuovi amici, ai nuovi incontri, alle nuove avventure. La scrittrice intendeva mostrare così, di contro alla rigida autobiografia tradizionale che di necessità appiattisce fatti e persone, il continuo, inarrestabile mutamento della coscienza e dei suoi giudizi (Pellegrino, 2017). Il progetto si interruppe a causa dell’urgenza irrefrenabile di dar vita a Modesta, la potente protagonista de L’arte della gioia. La stesura di quest’ultimo impegnò Goliarda per quasi dieci anni; fu infatti ultimato nell’ottobre del 1976. La sua pubblicazione fu più volte rifiutata dai principali editori e il manoscritto restò per vent’anni nello studio di Goliarda in attesa di tempi migliori, che non vennero mai, finché Goliarda morì. Attraverso Angelo Pellegrino sappiamo il responso, interessante per i nostri fini, di due dei maggiori critici italiani a cui fu inviato il manoscritto; il primo: «È un cumulo di iniquità. Finché io sarò vivo non permetterò la pubblicazione di un libro simile». Il secondo critico, per giunta amico di Goliarda, sollecitato da lei al telefono rispose un po’ alterato: «Ma che c’ho a che fare io con questa roba!?» (cit. in Pellegrino 2017, VII). Il manoscritto ha suscitato in entrambi, dunque, una ripulsa, una necessità di allontanare da sé, di collocare fuori di sé, ciò che, evidentemente, aveva toccato in loro. Nel 1996, quando balenò una possibilità di pubblicazione poi rivelatasi infruttuosa, Goliarda scrisse per sé una sorta di promemoria: «Sono passati trent’anni dal primo appunto su Modesta. Attenta, Goliarda, a non cadere nel tranello dell’autocensura» (cit. in Pellegrino, 2017,  VI). Il libro sarà finalmente pubblicato, postumo, a spese di Angelo Pellegrino, in una manciata di copie attraverso un piccolo editore nel 1998. Passò sotto silenzio. Dopo alcuni anni, fu dedicato a Goliarda Sapienza una puntata di un programma di Rai Tre chiamato, nome interessante, Vuoti di memoria. La puntata servì a destare gli interessi dei distributori, i quali caldeggiarono una ristampa più sostanziosa che vide la luce nel 2003.

Il romanzo narra l’intera vita di Modesta, nata come una bambina poverissima, poi divenuta educanda in un convento e quasi novizia, infine principessa di un nobile casato catanese. L’intero percorso sarà costellato da eliminazioni, ovvero persone che Modesta ritiene di essere costretta ad eliminare. Non racconterò la trama del libro poiché, a mio parere, ciò comporterebbe il collasso sul concreto, sui fatti, di ciò che invece si potrebbero considerare i fantasmi di una mente, di ogni mente, di ogni analisi. Proverò invece a descrivere alcune scene del romanzo come fossero scene oniriche o libere associazioni, ovvero come fossero quei segmenti di verità (Genovese, 2000), di «realtà psichica» (Freud, 1917, 524) che emergono nel corso di una analisi e ne costituiscono l’ossatura.

Attraverso la voce di una Modesta adulta, già divenuta una ricca aristocratica catanese, conosciamo una Modesta bambina, povera di mezzi, vitale, esuberante, con una viva curiosità di vedere il mondo, dunque una curiosità più scopofilica che epistemofilica; la piccola Modesta non è tanto alla ricerca di una teoria esplicativa del mondo, bensì è alla ricerca di un piacere meno inibito, meno spostato, meno desessualizzato (Green, 1992), piacere che conserverà per la sua intera esistenza. La bambina detesta sua madre, la quale riserva ogni attenzione all’altra sua figlia affetta da una patologia. Ella ha già il suo principe, Tuzzu, un ragazzo poco più grande di lei, nei cui occhi cerca di scorgere il mare che non ha ancora mai visto ma di cui Tuzzu le parla instancabilmente. Lo stesso mare in cui si trova suo padre, l’uomo che non ha ancora mai conosciuto. Quando lo conoscerà, l’Edipo e la dinamica del desiderio, erotico e aggressivo, costituiranno il suo «destino compiuto» (Green, 1992, 94). Da questo destino compiuto, mai rinnegato, mai rimosso, mai proiettivamente collocato all’esterno di sé, origina e si dipana la vita di Modesta. Dunque, Modesta possiede la libertà che solo la consapevolezza dei propri fantasmi inconsci può donare.

Ella, partendo dal suo destino compiuto, e proprio attraverso di esso, potrà seguire il suo lungo percorso di appropriazione e di scoperta del mondo e del piacere in esso presente. Viene in mente l’emprise, la pulsione di impossessamento o di appropriazione, pulsione parziale, non sessuale, quantomeno nella prima teoria freudiana, capace però di unirsi alle pulsioni sessuali e che mira ad appropriarsi dell’oggetto esterno. Per farlo essa si avvale dell’apparato di emprise: la muscolatura, il tatto, la mano, l’udito e, in particolare e in grandissima misura, la vista per la sua duttile onnipotenza (Munari, 2019). “Ho fatto bene a rubare la mia parte di gioia, a tutto e a tutti” scriverà a penna Goliarda in uno dei suoi taccuini (Sapienza, 172), frase poi ripresa da Valeria Golino nel suo film.

In questo percorso di appropriazione dell’oggetto, talvolta rapinosamente, Modesta attraverserà altri fantasmi intrisi di erotismo e aggressività. Un nuovo nucleo edipico, questa volta nella declinazione negativa, andrà costituendosi con la madre superiora Leonora, la quale diverrà una madre prima intensamente amata, desiderata nella più profonda e completa accezione del termine, e poi altrettanto intensamente odiata. “Io odio”, si ripeterà Modesta, riconoscendo al contempo la sua frustrazione e la sua assoluta dipendenza da questa madre sino a poco tempo prima tanto amata, muovendo il risveglio delle sue forze distruttrici che condurranno alla fine di Leonora, sic et simpliciter, e che permetteranno a Modesta di proseguire il suo cammino verso il piacere, incontrando altri fantasmi. Nei confronti di Leonora e delle altre persone da lei eliminate, Modesta proverà un placido, talvolta malinconico distacco. Lo stesso placido distacco mentale che Freud considerava come il segno della liquidazione del complesso edipico, «speranza senza dubbio illusoria, ma destino asintotico del complesso», aggiunge Green (1992, 94).   

Nell’originario della vita psichica Aulagnier (1975) ci ha mostrato una tendenza ad aggregare e una tendenza regressiva che tende a disgregare, a mutilare; «lo stato di reciproca attrazione […] sarà la rappresentazione coestensiva di ogni vissuto di piacere; lo stato di rigetto, di aggressione dell’uno da parte dell’altro, invece, sarà la rappresentazione coestensiva ad ogni vissuto di dispiacere» (Aulagnier, 1975, 6). Scrive La Scala (2019, 19): «il legamento […] è un processo intimamente connesso con il legame che la libido può costituire nei confronti della pulsione distruttiva, con quella forza di neutralizzazione che Eros esercita nei confronti della pulsione di morte e che è alla base dell’impasto pulsionale e della vita». Modesta sembra mostrare l’intricato e complesso gioco dei processi di legamento attivi in ogni persona, di impasto e disimpasto delle pulsioni libidiche e delle pulsioni aggressive, la complessa commistione di Eros e Thanatos nel rapporto con l’oggetto. Dopotutto, ogni identificazione con un oggetto amato, non equivale sempre anche ad una sua brutale, ingrata, eliminazione?   

      

Bibliografia

Aulagnier P. (1975) La violenza dell’interpretazione. Borla, Roma 1994.

Freud S. (1917) Introduzione alla psicoanalisi. OSF 8. Bollati Boringhieri Torino.

Genovese C. (a cura di)  (2000) La realtà psichica. Borla editore, Roma.

Green A. (1992) Slegare. Borla, Roma ,1994.

La Scala M. (2019) Il legamento preliminare all’instaurarsi del principio di piacere e l’impasto pulsionale. In Munari F. (a cura di) Eros & Thanatos. Sui processi di legamento. Alpes Italia, Roma.

Munari F. (2019) Sul processo di legamento. Il filo del desiderio. In Munari F. (a cura di) Eros & Thanatos. Sui processi di legamento. Alpes Italia, Roma.

Pellegrino A. (2017) Lunga marcia dell’Arte della gioia. In Sapienza G. L’arte della gioia., Einaudi Editore, Torino, 2008.

Pellegrino A. (2019) Un’analisi selvaggia. In Sapienza G. Il filo di mezzogiorno., La nave di Teseo editore, Milano, 1996.

Sapienza G. (1992) La mia parte di gioia. Einaudi Editore, Torino, 2013.

 

Mirko Trivisani , Padova

mirkotrivisani@gmail.com

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