Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
81ª Mostra d’arte cinematografica di Venezia -2024
di Elisabetta Marchiori
Titolo: “Una certa idea di cinema”
Dati sul film: regia di Mario Canale e Enzo Monteleone, Italia, 2024, 96′, sezione Venezia Classici Documentari
Genere: documentario
È un documentario molto ricco e intenso quello realizzato da Mario Canale e Enzo Monteleone sul regista, sceneggiatore e attore padovano Carlo Mazzacurati, classe 1956, a dieci anni dalla sua prematura scomparsa. Si tratta di un riconoscimento alla preziosità della sua opera artistica e di una testimonianza della consistenza dei legami non solo professionali, ma anche affettivi, che ha costruito e alimentato nel corso della sua vita. È anche il coronamento di un anno in cui nei cinema della sua città è stato possibile rivedere tutti i diciassette titoli della sua filmografia, in una rassegna dove ogni proiezione è stata accompagnata dai suoi collaboratori più stretti — attori, direttori della fotografia, sceneggiatori, scenografi — in un’atmosfera sempre vivace, coinvolgente e commossa.
Il titolo —- “Una certa idea di cinema” — racchiude in sé l’idea dell’originalità della cifra poetica del cinema di Mazzacurati, inconfondibile eppure “in una certa misura” — locuzione avverbiale spesso usata nel suo discorso dal regista — sfuggente a definizioni precise.
Costruito intrecciando frammenti di film con sequenze di interviste a Mazzacurati e ai colleghi che, come registi, attrici e attori, lo hanno conosciuto, hanno lavorato con lui e gli sono stati amici, alcuni sin dalla gioventù, offre allo spettatore un ritratto accurato e nel contempo pieno di sfumature, di un artista che si è messo in gioco profondamente come persona, in tutta la sua sensibilità e le sue incertezze. C’è una sorprendente corrispondenza tra il racconto che Mazzacurati propone di se stesso e del suo lavoro— con i suoi modi pacati e un po’ ritrosi — i racconti condivisi — con entusiasmo e convinzione — dagli intervistati. Quello che gli interessa, afferma a più riprese, sono le storie e i personaggi che le vivono: ed è descritto infatti principalmente un narratore, uno straordinario “raccontatore”, capace di arrivare a cogliere sempre, nei protagonisti dei suoi film, l’umanità, quel nucleo vivo, vitale, autentico che li rende così familiari allo spettatore. Il mondo che racconta è quello degli “ultimi”, degli emarginati, dei migranti e delle prostitute, di tutti quei “poveri cristi” che talora appaiono anche mostruosi. Tuttavia, anche in questa mostruosità lo spettatore si può identificare, può provare compassione: Mazzacurati riesce — è il suo obbiettivo dichiarato — a mettere a nudo, piuttosto che il lato maligno o perverso, le debolezze e le vulnerabilità più profonde di tutti i suoi protagonisti senza eccezione, mostrando “in qualche modo” che quegli aspetti mostruosi dimorano in modo latente dentro ciascuno di noi.
I personaggi sono immersi in paesaggi che sono quelli nebbiosi del Delta del Po’, quelli isolati delle campagne toscane e quelli degradati delle periferie romane — anch’essi protagonisti fondamentali delle vicende — in un tempo che spesso trasmette una sensazione di sospensione e di incertezza.
Il documentario ripercorre linearmente le fasi dello sviluppo di maturazione di Mazzacurati come regista e nel contempo, proprio allineandosi con il suo fare cinema, esplorando la sua umanità e mettendo in luce il suo modo di essere.
La storia inizia dal momento in cui nasce l’interesse per la settima arte, alla fine del liceo. Il “covo” in cui alimenta questa passione è il cineclub “Cinemauno”, che aveva sede presso il Teatro Ruzante di Padova e che tra gli anni ’70 e ’90 era una vivace fucina di cultura alternativa, dove si assisteva a proiezioni di film, performance e rappresentazioni teatrali, si tenevano conferenze e, soprattutto, si scambiavano idee.
Il suo esordio avviene nel 1976 con il mediometraggio “Vagabondi”, vincitore del premio Gaumont al festival milanese Filmmaker, che tuttavia non ebbe distribuzione nelle sale e di cui sono rimasti — fortunatamente, afferma sorridendo il regista — solo pochi frammenti. Trasferitosi a Roma, conosce Nanni Moretti che ne coglie le potenzialità e produce, con la sua Sacher Film produce il suo primo lungometraggio “Notte italiana” (1987), con cui Mazzacurati vince il Nastro d’Argento.
Dopo “Il prete bello” (1989) e “Un’altra vita” (1992), merita il primo riconoscimento importante con “Il toro” (1994), che vince il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia. Seguono “Vesna va veloce” (1996), “L’estate di Davide” (1998), “La lingua del Santo” (2000), “A cavallo della tigre” (2002), “L’amore ritrovato” (2004), “La giusta distanza” (2007), “La passione” (2010) e “La sedia della felicità” (2013), pochi mesi prima della sua scomparsa. È quest’ultimo film una commedia ben riuscita, a tratti esilarante, con cui rompe gli schemi e sorprende con la sua bizzarra leggerezza, con cui ha voluto salutarci lievemente. Mi spiace dovermi limitare a citare solo i titoli dei suoi film più conosciuti, che meriterebbero ognuno un approfondimento, ma conto di aver stimolato la curiosità dei lettori e il desiderio di vederli o rivederli, che si innesca peraltro immediatamente guardando il riuscito ed evocativo trailer del documentario, che propone un montaggio di sequenze di danze e balli.
Mazzacurati è stato non solo un regista straordinario, ma anche una persona gentile e generosa, incuriosita dalla psicoanalisi. Gli sono personalmente grata perché nel maggio 2012 ha accettato di partecipare dell’incontro che ha inaugurato una rassegna cinematografica curata insieme a un gruppo di colleghi del Centro Veneto di Psicoanalisi “L’arte dell’incontro. Dall’immagine alla parola” presentando “Sei Venezia” (pubblicato in DVD da Marsilio). In questo documentario il regista rivela, attraverso le storie di sei abitanti di Venezia — personaggi incredibili — quelli che erano già allora mondi diventati quasi invisibili ai non veneziani, che con il tempo stanno tristemente scomparendo, fagocitati o espulsi dalla trasformazione della città in una specie di grande museo all’aperto. Questi aspetti li metteva già in luce Giorgio Sacerdoti nel suo lavoro “Riflessi psicoanalitici della città di Venezia” (1982), che è stato direttore dei Servizi Psichiatrici di Venezia, e che per me, sua allieva che ha lavorato per dieci anni presso quegli stessi Servizi, ormai vent’anni fa, sono tristemente eclatanti.
Pochi mesi dopo ha concesso un’intervista esclusiva, pubblicata sul sito della SPI, che ho curato insieme a Maria Vittoria Costantini con la regia di Michele Anghisari, dal titolo “Disegni Segreti” (2012). Dalla durata di poco più di mezz’ora, è suddivisa in tre capitoli — “Nostalgia”, “Fidarsi di un sogno”, “Cristi e bambini” — titoli che evocano i temi fondamentali della poetica di Mazzacurati.
Accettando di mettersi in gioco con generosità e ironia, anche in chiave psicoanalitica, risponde alle domande con “leggerezza pensosa”, come la definirebbe Italo Calvino (1988), creando un contatto autentico e vitale con l’interlocutore/spettatore, facendo muovere, come accade anche durante la visione dei suoi film, corde interne profonde.
Vorrei riproporla cogliendo questa occasione, perché, guardando “Una certa idea di cinema” ho pensato che “in qualche misura” è importante torni anch’essa ad essere visibile proprio in questo momento, a completare quel ritratto e quella vita di passione per il cinema di Mazzacurati: passione che è sentimento intenso, ma intriso anche, sempre “in qualche misura”, di sofferenza.
Bibliografia
Sacerdoti G. (1982). Riflessi di Venezia nel lavoro analitico. Riv. Psicoanal., 28, 88-96.
Calvino I. (1988). Lezioni americane. Milano, Mondadori, 1993.
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