Un rigoroso metodo sconvolgente

di Antonio Alberto Semi

(Venezia) è membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytic Association. Vive e lavora a Venezia. È stato direttore della Rivista di Psicoanalisi. Ha curato le Opere scelte di Freud (Torino 1999). Per le edizioni Raffaello Cortina ha pubblicato Tecnica del colloquio (1985), Dal colloquio alla teoria (1992), Venezia in fumo (1996), Introduzione alla metapsicologia (2001), La coscienza in psicoanalisi (2003). Ha inoltre ideato e diretto il Trattato di psicoanalisi (1988-1989). Membro del Comitato di redazione di Le fait de l’analyse e dell’European Editorial Board dell’International Journal of Psycho-Analysis.  

*Per citare questo articolo:

Semi A.A., (2024) “Un rigoroso metodo sconvolgente”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 129-149

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L’intento di questo breve scritto è radunare i capisaldi della psicoanalisi esponendoli, per così dire dogmaticamente, nella forma più concisa possibile e con il massimo rigore terminologico” (Freud, OSF XI, 571).

Cercherò di conformarmi a questa premessa di Freud al Compendio di psicoanalisi, ritenendo di rivolgermi ad un pubblico qualificato che, paradossalmente, è maggiormente esposto al rischio della trascuratezza terminologica. L’uso, infatti, consuma le parole. Lo spazio di questa lezione richiede, d’altronde, la forma più concisa possibile. Dunque, comincerò con delle definizioni, che non sono finalizzate a creare delle convinzioni ma, più semplicemente, a spiegare il significato che io attribuisco ad alcune parole. E naturalmente le prime parole da definire sono il sostantivo “metodo” e l’aggettivo qualificativo “psicoanalitico”.

Dunque, per “metodo” intendo “l’insieme delle prescrizioni cui tener fede, relative allo svolgimento di un’attività conoscitiva di un dato oggetto[1].

 Ad esempio, il metodo sperimentale indaga la realtà esterna in quanto riproducibile in un contesto operativo idoneo ad esercitare un’attività conoscitiva. Notate che questa definizione è a maglie larghe, ad es. non dice a quale realtà esterna si rivolga, né chiarisce quale sia il contesto operativo idoneo. Essa fissa però come criterio alla base delle prescrizioni cui tener fede – e criterio fondante e irrinunciabile – quello della riproduzione e della riproducibilità. La riproduzione, ossia la estrapolazione dalle condizioni ‘naturali’ e la costituzione all’interno di qualcosa che chiamiamo ‘laboratorio’ del ‘fatto’ che abbiamo intenzione di conoscere e che in tal modo si cerca di costituire in fenomeno.

Per quanto ci riguarda, poi, l’aggettivo qualificativo “psicoanalitico” intende individuare uno specifico metodo in relazione ad uno specifico oggetto. L’oggetto specifico della ricerca psicoanalitica è costituito dalla attività psichica. E anche il nostro metodo serve a indagare la realtà fattuale, per noi l’attività psichica, in quanto riproducibile in un contesto operativo idoneo.

Queste definizioni-delimitazioni hanno moltissime implicazioni. Qui ne sottolineerò tre a mio avviso imprescindibili.

La prima, non sempre evidente, è che esistono molti e diversi metodi di conoscenza e che il metodo psicoanalitico costituisce solo uno di questi metodi, anzi l’ultimo individuato e tuttora in corso di elaborazione. Anche i metodi conoscitivi hanno cioè una dimensione storica. Questa prima implicazione è un’affermazione importante e certamente non accettabile da moltissimi sostenitori della nostra condivisione del metodo scientifico inteso come metodo conoscitivo unico (ad esempio forse Freud non l’avrebbe condivisa in questi termini) o della nostra condivisione di un qualche metodo ermeneutico o comunque appartenente al dominio delle discipline non-scientifiche. Insomma, io penso che il metodo psicoanalitico abbia delle ovvie concordanze con altri metodi di conoscenza ma se ne differenzi nettamente. Altrettanto sostengo che gli altri metodi di conoscenza sono, per quanto riguarda i loro oggetti, fondamentali. Cioè penso che allo stato attuale noi conosciamo in molti modi e con metodi diversi e possiamo conoscere diversi oggetti – ma so che questa situazione è frustrante.

A tutti è difficile riconoscere che il nostro pensiero possa disporre di diversi modi di conoscenza e che ciascuno di questi modi esiga un metodo per pervenire appunto alla conoscenza. Figurarsi quando si scopre che esistono modi di pensare e conoscere totalmente inconsci.

Comunque, questa implicazione relativa alla pluralità di metodi conoscitivi riguarda anche le differenze di metodo all’interno del mondo psicoanalitico (nel senso sociale del termine). Accenno solo per inciso al fatto che il concetto di “differenza” ha molte significazioni psicoanalitiche e che – nel nostro mondo culturale attuale – è uno dei concetti più intollerabili, fino a giungere alla cosiddetta cancel culture. Perciò c’è il rischio anche nostro di essere preda felice del conformismo culturale, negando le differenze tra metodi diversi e favorendo quell’abominio conoscitivo che si chiama “ecumenismo” psicoanalitico (che tra l’altro ha “sdoganato” qualsiasi gruppo, società, associazione che si dica psic con ‘o’ o senza ‘o’).

Aggiungerò che personalmente ritengo che dovremmo essere molto orgogliosi del fatto che la psicoanalisi abbia elaborato un metodo conoscitivo specifico.

La seconda implicazione, altrettanto poco evidente, è che le conoscenze derivanti dall’uso di un metodo non sono immediatamente confrontabili con le conoscenze derivate da un altro metodo. Lo sappiamo dai tempi di Diogene che, alzandosi e facendo quattro passi in silenzio, rispose al cosiddetto sofisma di Zenone relativo ad Achille e alla tartaruga; sappiamo dunque che ad esempio le conoscenze derivanti dall’uso di un metodo logico-razionale non sono immediatamente confrontabili con le conoscenze derivanti dal metodo sperimentale. Il ragionamento di Zenone è impeccabile (donde il silenzio di Diogene, che non vuole smentirlo) ma la conoscenza empirica fornisce risultati altrettanto impeccabili (Achille acchiappa sempre la tartaruga) e non immediatamente confrontabili. Da notare appunto che Diogene non smentisce Zenone: le conoscenze derivanti da un metodo non sono smentibili con conoscenze derivanti da un altro metodo[2] . A maggior ragione le conoscenze derivanti dall’uso del metodo psicoanalitico non sono immediatamente confrontabili con le conoscenze derivanti dall’uso di altri metodi. Osserviamo però che il fatto di conoscere intellettualmente da 2500 anni questa situazione non implica affatto che la accettiamo. Vedi ad esempio i nostri rapporti con le neuroscienze, che non possono né smentire né confermare le nostre scoperte e costruzioni. Ma vedi anche i rapporti tra metodi diversi in ambito psi, che spesso sono caratterizzati o dal non riconoscimento delle differenze o, al contrario, dalla presunzione di reciproca immediata smentibilità[3].

La terza implicazione, anch’essa poco evidente ed anzi anche poco tollerabile, è che il metodo psicoanalitico ha una propria specificità che lo differenzia sia dal cosiddetto metodo scientifico (quello delle Naturwissenschaften) sia da quello o quelli delle scienze sociali (ad esempio: psicologia, antropologia, sociologia) o umane. E questa specificità deriva anche da alcune caratteristiche dell’oggetto da conoscere, cioè l’attività psichica.

Ora, l’attività psichica è un fatto, constatabile da tutti, non è un concetto di grande livello di astrazione né di per sé un fenomeno. Perché “attività”? Perché una attività consente di osservare una differenza tra un prima e un dopo. Nel caso della attività che chiamiamo psichica, il prima è caratterizzato dalla bocca chiusa, il dopo dall’emissione di qualcosa, a bocca aperta. Che si chiami Ruach, logos, anima, verbum, psyché, il fatto è che assieme al fiato è comparso qualcosa che prima non c’era, come possono osservare tutti, e che già il nominarlo implica un tentativo di teoria.

Come si spiega la comparsa di questo fatto? Questa è la domanda che ci fonda. È anche una domanda che non interessa alla massima parte dell’umanità ma che ha sempre interessato coloro i quali si sono occupati in ogni modo della psiche. Anche questa è una constatazione di fatto, che non vuole implicare alcun giudizio di valore. Non mi soffermo poi qui sulla storia e la fortuna di questa domanda, perché dovrei fare delle infinite citazioni di autori che non sono psicoanalisti ma filosofi, artisti, scrittori, che abbellirebbero questo testo senza aggiungere qualcosa di specifico. E qui non voglio sedurvi (cioè portarvi fuori strada) ma invitarvi a seguire un ragionamento.

Per quanto ci riguarda, allora, per poter cercare di rispondere a questa eterna domanda, occorre passare dal fatto al fenomeno. È necessario cioè creare le condizioni per cui il fatto – osservabile da tutti – divenga fenomeno indagabile e conoscibile.

Come vedete sto andando a piccoli passi e tenendomi ad un livello di astrazione basso, sottolineando però le caratteristiche a mio parere distintive delle idee che vi vado proponendo. Ad esempio, uso il concetto di partenza “attività psichica” anziché quello di “realtà psichica” o addirittura di “inconscio”, che implicano già un livello di astrazione maggiore e una distanza dalla esperienza quotidiana. La finalità di questo tipo di approccio è quella di sottolineare che esistono delle difese-opposizioni comuni a gran parte del genere umano, tendenti ad evitare di riconoscere le caratteristiche dell’attività psichica e che con queste difese importantissime abbiamo tutti – compresi noi analisti, naturalmente – a che fare.

Quali sono, allora, le caratteristiche dell’attività psichica intesa come fatto che ci spingono a cercare le condizioni per costituirla come fenomeno indagabile e conoscibile?

Innanzitutto la lacunosità e la non-autosufficienza manifeste del fatto “attività psichica cosciente”.

Ci sono tre constatazioni esperienziali condividibili da tutti ma sulle quali in pratica l’umanità cerca di evitare di riflettere. Le compendio così:

  1. a) L’attività psichica cosciente abbisogna di un continuo rifornimento di “materiale” proveniente dall’interno dell’individuo ma di cui l’individuo soggettivamente non sa nulla (es. delle parole; es. della ‘memoria’ e delle amnesie fisiologiche). Questo “materiale” da cos’è costituito? Noi coscientemente non lo sappiamo e perciò usiamo di una categoria, quella delle “rappresentazioni” (Vorlesungen) che vanno tenute ben distinte dall’effetto cosciente. C’è, ad esempio, una parola e una rappresentazione di quella parola, che ipotizziamo esistesse o si sia formata nel momento in cui ne abbisogniamo. Le rappresentazioni, poi, veicolano anche affetti o sono “colorate” da essi. Possono esistere anche affetti senza rappresentazioni che li qualifichino?
  2. b) i legami tra contenuti psichici non avvengono su basi razionali se non in parte e possono essere perduti e poi recuperati solo tramite altri procedimenti, come sappiamo da millenni (il fenomeno della associazione già segnalato da Platone e da Aristotele; l’arresto delle catene associative). Perdipiù, i legami coscienti tra contenuti psichici sono spesso falsi, senza che soggettivamente sappiamo perché ci sia una necessità di coerenza logica che ci fa costruire legami a qualunque costo.
  3. c) conseguentemente (a+b) si può osservare che l’attività psichica è in massima parte inconscia (anche solo descrittivamente, cioè sfugge alla coscienza).

Il problema è dunque quello di costituire una situazione operativa che consenta di indagare ciò che sfugge – in tutti i sensi – alla coscienza e che pure è essenziale al funzionamento della stessa attività psichica cosciente[4]. La quale, essendo lacunosa e limitata e dunque inaffidabile, andrà per quanto possibile messa da parte.

Insomma, bisogna poter costruire quello che possiamo chiamare il laboratorio, nella pratica quello che chiamiamo “il nostro studio”, nel quale poter svolgere le attività conoscitive.

Innanzitutto, per poter osservare operativamente ciò che sfugge alla coscienza ma viene dall’”interno”, bisogna limitare le interferenze dell’“esterno”. In primo luogo, limitando gli stimoli che possono provocare le percezioni: non solo luce diffusa, ambiente costante (perciò poco stimolante) posizione distesa/rilassata ma anche ritmo costante. Perfino l’osservatore-indagatore non è visibile dall’analizzando e non dovrebbe entrare a far parte della sua realtà esterna se non per le necessità minime – saluti all’ingresso e all’uscita, pagamento, accordi contrattuali. Insomma, il laboratorio serve a strutturare una situazione nella quale si privilegia l’attività psichica rispetto a qualsiasi altra cosa.

In secondo luogo, bisogna riconoscere che la specificità del metodo psicoanalitico sta nel fatto che lo strumento d’indagine è lo stesso dell’oggetto indagato. L’attività psichica è indagabile tramite l’attività psichica (altrui o propria). Questo punto è fondamentale.

Costruito il laboratorio, adeguato all’oggetto da indagare, bisogna infatti passare all’indagine vera e propria e agli strumenti adeguati anch’essi all’oggetto.

Visto quello che ho detto prima, lo strumento da evitare di usare – per quanto possibile – è l’attività psichica cosciente, soprattutto quella sua ‘parte’ che chiamiamo ragione. Ma come fare? L’attività psichica cosciente è inaffidabile, incompleta, falsificante perché sempre alla ricerca di costruire nessi a tutti i costi. Il nostro problema è allora quello di considerare l’attività psichica cosciente come una preliminare opposizione, una resistenza “fisiologica” (in questo senso la nostra ricerca è innaturale) alla ricerca di quel che la determina. Cioè alla ricerca dell’inconscio.

Abbiamo a disposizione un dato di fatto importantissimo che è il sogno. Esso ha il vantaggio di non poter essere misconosciuto, nel senso di non essere riconosciuto come proprio[5]. Voglio innanzitutto sottolineare una caratteristica importante del sogno: esso è il ricordo cosciente di un’attività compiuta durante il sonno ma, proprio in quanto ricordo cosciente, ci segnala il fatto che la coscienza può in determinati tempi e modi, tollerare dei prodotti psichici propri e tuttavia in qualche modo estranei, anche se per tollerare un simile ricordo la coscienza lo falsifica, lo rielabora, lo sottopone insomma alle proprie regole di funzionamento (elaborazione secondaria). Però, e nonostante tutto, il sogno testimonia che l’attività psichica cosciente può accettare, in determinati momenti anche fisiologici, ad esempio al risveglio, di riconoscere l’esistenza di contenuti psichici e di modalità di pensiero perlopiù inaccettabili. Come consentire allora di utilizzare questo dato di fatto per poter accedere a quel qualcosa – che per ora chiamiamo descrittivamente inconscio – che costituisce il “vero” pensiero, cioè l’attività psichica che produce anche l’effetto di coscienza?

Tramite l’uso privilegiato di ciò che chiamiamo “libera associazione”. La libera associazione è in realtà in primo luogo una libera dissociazione, è una rinuncia all’uso dei legami che la coscienza costruisce abitualmente, è il riconoscimento dell’affacciarsi alla coscienza di contenuti ideativi e affettivi che abitualmente disturberebbero il pensiero cosciente razionale e logico e che invece vengono in tal modo individuati come rappresentanti dell’esistenza di un procedimento di pensiero differente da quello abituale. Il metodo delle libere associazioni , infatti, da un lato consente di rompere sistematicamente i collegamenti tra contenuti psichici coscienti, dall’altro consente di intravvedere o individuare o indovinare nessi e apparenti legami tra contenuti psichici disparati, individuando in tal modo delle modalità di pensiero completamente differenti da quelle coscienti e preconsce: si è potuto scoprire in tal modo e si può riscoprire continuamente il processo inconscio di pensiero[6], quello che realizza il “vero” pensiero, quello che determina poi, nonostante tutti i camuffamenti cui viene sottoposto, la nostra attività psichica.

Il metodo delle libere associazioni è il metodo psicoanalitico di indagine vero e proprio, quello che consente di passare dai fatti ai fenomeni psichici. Assuefarsi – oserei dire “rassegnarsi” – al metodo delle libere associazioni è difficile e, in qualche modo, innaturale. È noto fin dall’inizio, fin dagli Studi sull’isteria, che contro l’uso di questo metodo vanno forze intense e tenaci, sicché possiamo affermare oggi (dopo più di un secolo dalla “Interpretazione dei sogni”) che in ogni trattamento psicoanalitico l’uso di questo metodo è contrastato in tutti i modi da tutti i partecipanti alla impresa psicoanalitica, è limitato, perfino rischia di risultare episodico (e sorprendente allorché compare da sé il fenomeno associativo-dissociativo, come nel lapsus[7]). Ma possiamo anche affermare che, quando si riesce ad usarlo, questo metodo consente scoperte e trasformazioni assolutamente eccezionali. La stessa Interpretazione dei sogni ne è un esempio, frutto com’è del processo autoanalitico di Freud e dell’uso esteso del processo associativo per l’analisi dei sogni.

Sottolineo che quel che desidero mostrare è la coerenza di un metodo, quello psicoanalitico, e la sua specificità. E a proposito di coerenza, segnalo dunque subito (collegandomi a quel che ho detto sopra) che il metodo delle libere associazioni, avendo per oggetto e per strumento l’attività psichica, è usato per ogni attività psichica implicata nella ricerca, ossia sia quella del ricercatore-analista sia quella dell’analizzando.

Non mi soffermo qui sugli aspetti tecnici della regola fondamentale, vedremo più avanti il problema del rapporto metodo/tecnica.

Mi soffermo invece un attimo sull’attività psichica del ricercatore, dell’analista, perché spesso non è evidente la radicalità di questa implicazione. Sarebbe incongruo se la trasformazione dal fenomeno dell’associazione ad un metodo di uso esteso e privilegiato dell’associazione riguardasse solo l’analizzando, quasi che l’attività psichica cosciente dell’analista potesse sfuggire alla constatazione delle sue caratteristiche che la rendono poco utilizzabile. E ho sempre considerato un po’ ipocrita chiamare la regola fondamentale per l’analista “regola dell’attenzione fluttuante”. È giusto chiamarla così solo se si riconosce che essa implica il fatto di essere gleichschwebende, ossia egualmente fluttuante nel senso di essere consonante con l’andamento del discorso associativo dell’analizzando, cioè se si sottolinea un dato fondamentale, che le comunicazioni associative del paziente entrano nell’analista, nel suo mondo inconscio, provocando uno sviluppo di attività di pensiero inconscio alla quale poi l’analista reagirà in vario modo sia a livello inconscio sia a livello preconscio e conscio.

È, questa, l’altra implicazione o conseguenza dell’uso delle libere associazioni. Una scoperta fondamentale e letteralmente sconvolgente, della quale non si riescono a tollerare a lungo le implicazioni e che perciò ogni generazione di psicoanalisti deve in qualche modo riscoprire e magari rinominare. Badate che non sto parlando di transfert o di controtransfert, che sono esperienze particolari e specifiche condizionate dal procedimento tecnico, né sto parlando delle dinamiche identificatorie. Sto invece indicando un fenomeno generale reso osservabile dal metodo psicoanalitico. Lo spessore della comunicazione verbale (veicolante anche e sempre degli affetti) è enorme e inconscio. La comunicazione cosciente è solo una piccola parte della totalità della comunicazione. Il procedimento associativo consente di cogliere un’altra parte – nella pratica sempre una piccola parte, beninteso – altrimenti inarrivabile.

Riconoscere questa realtà della comunicazione psichica ha importanti implicazioni, la prima delle quali riguarda l’analista. Riesce nel suo studio-laboratorio l’analista a riconoscere che i pensieri (e gli affetti, ovviamente) che gli si affacciano alla coscienza sono sempre pensieri altrui e insieme anche reazioni proprie a pensieri altrui? In altri termini: come può tollerare non solo di essere ‘invaso’ dal pensiero altrui ma anche in un certo senso (problema del narcisismo) conseguentemente di non essere più sé stesso? Con stile molto signorile e austroungarico, Freud fa un elenco di queste difficoltà e delle possibili reazioni nelle Osservazioni sull’amore di traslazione (1914). Ma qualche anno prima aveva già annotato che “pretendiamo molto non solo dall’analizzato ma anche dal medico, se gli chiediamo di rinunciare durante il trattamento alle rappresentazioni finalizzate coscienti e di abbandonarsi interamente a un orientamento che continuamente ci appare come ‘casuale’. Ma posso assicurare – aveva aggiunto – che non c’è una volta che non valga la pena di avere fiducia nei propri principi teorici e di persuadersi a non contendere alla guida dell’inconscio il ristabilimento delle connessioni” (Freud, 1911, OSF VI, 520).

Dunque, il metodo implica in questo senso il riconoscimento di una condizione di parità che solo l’esperienza della propria analisi e dei propri conflitti inconsci può rendere in qualche modo utilmente impari.

Ma come usare di questo metodo? Elaborando strategie adeguate per ciascun oggetto specifico da indagare. Per proseguire nella nostra disamina del metodo, occorre dunque che ci soffermiamo sulla differenza tra metodo e tecnica.

Infatti, le attività pratiche finalizzate a consentire il raggiungimento degli scopi del metodo sono organizzate da regole tecniche. La tecnica dev’essere dunque coerente con il metodo e adeguata all’oggetto indagato. La distinzione del metodo come procedura generale e della tecnica come insieme di strumentario pratico adeguato alla situazione indagata è fondamentale e la confusione del metodo con la tecnica rende difficile o impossibile confrontare e discutere i risultati ottenuti con tecniche diverse. Perciò mi sembra utile trasformare il triangolo classico composto da teoria, metodo e clinica in un tetraedro composto dai triangoli equilateri ai cui vertici stanno teoria metodo tecnica e esperienza. Segnalo che muto il vertice “clinica” in quello “esperienza” perché la pratica clinica è solo uno dei tipi di esperienza psichica che il metodo psicoanalitico consente e indaga. L’autoanalisi, con tutti i problemi e i limiti e i grattacapi che pone, è un altro tipo di esperienza psichica. L’analisi della cultura in cui viviamo può essere ancora un altro. L’analisi di un gruppo un altro ancora. Quella di un testo letterario ancora un altro. La supervisione ancora un altro. E così via. Il metodo è una procedura generale, una tecnica è l’insieme degli strumenti adeguati a quell’oggetto lì, particolare. Naturalmente questo presuppone che ad esempio l’esperienza psichica che viene compiuta in un gruppo sia differente da quella che si compie con un singolo paziente o da quella che si compie cercando di analizzare la cultura in cui viviamo (le pagine introduttive di Freud a L’uomo Mosé e la religione monoteistica: tre saggi mostrano bene, ad esempio, la difficoltà di questa esperienza). E che l’esperienza dell’autoanalisi sia ancora un’esperienza differente. Per ciascuna di queste possibili esperienze possiamo elaborare una tecnica adeguata, coerente con il metodo? A me sembra che questo sia un compito importante che dobbiamo cercare di affrontare per elaborare una confrontabilità e integrazione dei risultati delle ricerche eseguite con diverse tecniche.

 

[1] “La diversità delle nostre opinioni non dipende dal fatto che gli uni siano più ragionevoli degli altri, ma semplicemente dal fatto che conduciamo i nostri pensieri per vie diverse (ecco il metodo!!) e non consideriamo le stesse cose” (Descartes, Discorso sul metodo, 1637, in Opere, 1986, Mondadori, Milano, 149-150). Però le ‘vie diverse’ implicano delle prescrizioni, delle regole conseguenti: quando Descartes elenca le regole del metodo, scrive: “Ritenni che mi sarebbero bastate le quattro regole seguenti, purché prendessi la ferma e costante risoluzione di non venir meno, neppure una volta, alla loro osservanza” (160, corsivo mio). Da notare che quest’ultima frase, con minime varianti, la si può reperire in svariate opere di Freud, quando sottolinea che le regole fondamentali vanno seguite appunto senza venir meno alla loro osservanza, perché, in tal caso, crolla tutta l’impalcatura costruita.

[2] “Ma quando si combattono ragioni, la confutazione deve fondarsi unicamente su ragioni; non ci si deve contentare della certezza sensibile, bisogna anche capire. Confutare obiezioni significa dimostrarne la nullità, di modo che esse debbano cadere e non possano più riproporsi” (G.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia (1805-1806), ed.it., Perugia-Venezia, La Nuova Italia, 1930, vol.I, 290 e seg. per la questione Diogene/Zenone, qui citata la pag.294).

[3] Rinvio, per ciò e in particolare per le differenze teoriche, all’importante rapporto su Teorie psicoanalitiche a confronto: Riolo et al. (2021) Riv. Psicoanal., LXVII, 4, 791-1029.

[4] Poi, molto poi, si arriverà anzi a rovesciare la prospettiva, concependo quella che chiamiamo “coscienza” come un effetto di un sistema (Cs-Pcs) e la consapevolezza come un sintomo.

[5] Tranne in situazioni di gravissima patologia acuta. Però viene riconosciuto e nello stesso tempo è perlopiù avvertito come qualcosa di strano, perfino di “esterno”, magari la voce del Signore o degli dèi, qualcosa di singolare, magari contrastante con quel che si pensa coscientemente, spesso anche qualcosa di incongruo, illogico, sorprendente e vettore di affetti a loro volta apparentemente (cioè alla coscienza) incongrui, inaspettati e magari talvolta anche inaccettabili.

[6] “Assenza di reciproca contraddizione, processo primario (mobilità degli investimenti), atemporalità e sostituzione della realtà esterna con la realtà psichica sono i caratteri che possiamo aspettarci di riscontrare nei processi appartenenti al sistema Inc” (Freud, OSF, VIII, 71). Le prime due caratteristiche sono delle modalità di funzionamento, le altre due costituiscono il contesto nel quale esse si collocano.

[7] Il paziente che riferisce di sentirsi allettato da una offerta ricevuta ma che dice invece “allattato” rimane sorpreso e seccato, ricorrendo poi alla negazione, “sostituto della rimozione a un più alto livello” (Freud, OSF, VIII, 70).

Guardiamo il tetraedro: è un poliedro convesso che ha per facce poligoni regolari congruenti (cioè sovrapponibili esattamente) e più esattamente triangoli equilateri. Basta niente, lo spostamento di un vertice, l’allungamento di uno spigolo, perché il tetraedro si disfi, non stia più in piedi, non abbia più senso. Però bisogna notare che si possono fare vari tetraedri, con dimensioni e “protagonisti” (per così dire) diversi, ad esempio tecniche diverse o esperienze diverse. Mi sembra che, in particolare, il fatto di aggiungere un vertice (e aprire così ad uno spazio tridimensionale) un vertice denominato ‘tecnica’, apra alla rappresentazione della possibilità di una molteplicità. Pur che i rapporti tra i diversi vertici vengano mantenuti costanti. Non c’è maggior importanza della clinica rispetto alla teoria o della teoria rispetto al metodo o del metodo rispetto alla clinica. Né c’è maggior importanza della tecnica rispetto a ciascuno degli altri tre vertici. Si tratta di un insieme (o uno Junktim, se preferite), dotato di proprie caratteristiche. Ovvio che per noi, poi, l’importanza sta nel risultato, ossia nel poter comprendere, nella pratica clinica, quel che accade ma, se guardiamo la cosa dal punto di vista del metodo gli elementi si equivalgono perché l’essenziale sta nel legame costante tra essi.

È naturale, poi, che possano essere pensati insiemi diversi, costruendo altri vertici o tagliandone alcuni, ma perché chiamarli “psicoanalisi”? non sarebbe più logico che ogni differente insieme riconoscesse questa condizione di differenza attribuendosi innanzitutto un nome diverso? Se ciò non è stato sempre possibile, penso lo si debba ritenere conseguente alla imperiosa volontà di identificazione con l’ideale come reazione alla difficoltà-intollerabilità di concepire le differenze, come avevo detto prima. Il che andrebbe sottoposto a psicoanalisi e comunque non ha facilitato il nostro lavoro.

Osserviamo ora l’insieme – questo insieme – dal punto di vista del metodo e del rapporto tra questo e la tecnica.

Per poter osservare l’attività psichica in tutto il suo spessore occorre dunque un metodo che consenta di disfare, spezzettare, analizzare il prodotto cosciente, appunto il metodo delle libere associazioni, tramite le “regole che dobbiamo adoperare per osservare e comprendere le esperienze che facciamo in analisi” (Riolo, 2017, 15, corsivo mio). Queste regole fondamentali (appunto) sono quelle delle libere associazioni e della de-costruzione o scomposizione del prodotto psichico e possono attuarsi – com’è del resto proprio di ogni scienza – solo in presenza dell’oggetto di indagine. Sul quale oggetto ci si deve intendere: si tratta dell’attività psichica come espressione di tutto l’individuo. Può essere anche l’attività psichica del solo analista – ma, anche nel caso dell’autoanalisi, essa implica tutto l’individuo (e conseguentemente la possibilità-disponibilità per esso di auto-ridursi in pezzetti, di analizzarsi, con un costo emotivo e ideativo non indifferente) – ma più frequentemente si tratta dell’attività psichica di un altro (l’analizzando) anche se, in tal caso, bisogna parlare degli oggetti (plurale) d’indagine, nel senso che durante questa esperienza l’attività psichica dell’analista è altrettanto oggetto di indagine dell’attività psichica del paziente. Si tratta di un “procedimento per il quale non esiste, per la verità, una inclinazione naturale” (Freud, 1915, 53).

Questo lavoro può essere fatto solo con l’aiuto della teoria e specificamente con la conoscenza-assimilazione delle regole del pensiero inconscio continuamente ri-scopribili in noi stessi, che strutturano i contenuti ideativi e affettivi in modo assai diverso dal modo ‘razionale’ della coscienza[1].

La tecnica invece consiste nella costruzione del laboratorio-setting, nelle interpretazioni adeguate, nell’analisi dei contenuti psichici che si costituiscono, ad esempio l’analisi dei fenomeni di transfert e controtransfert. Ma dovrebbe “guardare” sempre al metodo.

Se guardiamo dunque al metodo come un vertice (poniamo, per chiarezza, quello apicale del poliedro nella figura) vediamo che esso è connesso direttamente su un triangolo con la tecnica e con la teoria, su un altro con la tecnica e l’esperienza, su un terzo con la teoria e l’esperienza e sull’ultimo, quello graficamente di base, non è immediatamente collegato ai tre vertici di esperienza, tecnica e teoria. È quest’ultimo il triangolo più rischioso, perché se la tecnica perdesse la sua connessione col metodo andremmo fatalmente verso una psicologia della coscienza, se la teoria perdesse la sua connessione col metodo rischierebbe di divenire una ideologia, e se l’esperienza perdesse il suo legame al metodo diverrebbe una relazione umana qualsiasi. È il rapporto costante – e difficile, certo – di questi tre vertici con il metodo che consente l’apertura dello spazio psicoanalitico.

Penso che questo rapporto vada continuamente ripensato e rivalutato in quanto le esperienze possono essere assai diverse. Non è lo stesso, ovviamente, avere presenti nello studio una persona, due o un gruppo: si compiono esperienze psichiche diverse in base a tecniche differenti che però debbono potersi rapportare e confrontare con il metodo psicoanalitico, il che non è semplice e non è spesso effettuato.

Proprio perciò il rapporto tra metodo e tecnica dev’essere tenuto ben presente perché la tecnica ossia l’insieme delle regole tecniche per quell’oggetto in quel contesto operativo è sì strutturata per la rilevazione dei processi previsti dal dispositivo teorico (sto citando dalla lezione di Riolo) ma deve rientrare o essere coerente con il metodo generale. E si devono dunque annotare tutte le possibili deviazioni o blocchi o “amnesie” del metodo, considerandole come opposizioni che magari consentono poi, paradossalmente, di costituire nuovi fenomeni a loro volta indagabili. L’esempio classico è il transfert: dal punto di vista del metodo esso è spesso una resistenza e configura una opposizione alla utile continuazione dell’uso delle libere associazioni. Perciò è importante continuare a considerare il transfert come opposizione pur affrontandolo per ottenere dalla sua analisi informazioni preziose sui processi psichici inconsci in atto: le due cose, apparentemente in contrasto tra loro, sono in realtà il risultato di due punti di vista differenti, il punto di vista del metodo e quello della esperienza. Ora, il problema è quello di considerare questa compresenza sempre chiedendoci come fare per garantirci la prosecuzione del processo associativo.

Noterete che quando dico “chiedendoci come fare” introduco un interrogativo appartenente al dominio delle attività psichiche coscienti. Il metodo è sconvolgente ma chiede infine anche di darci “ragione” di ciò che stiamo facendo. Esiste dunque tutta una letteratura, a partire da Freud, passando per Kris e Hartmann e magari rileggendo da questo punto di vista Lacan (anche per vedere le difficoltà e infine il fallimento del suo tentativo) per arrivare magari alla spesso sgangherata categoria della “pensabilità”, una letteratura che riguarda il problema topico-dinamico-economico del pensiero cosciente, ossia come considerare, dal punto di vista metapsicologico, la situazione psichica dell’analista nel momento in cui cerca di “ragionare”. È noto che, a parere del fondatore, il “ragionare” andrebbe quanto meno posposto. Non prendere appunti, non cercare di comprendere il caso clinico, non usarlo immediatamente per scopi scientifici. Ragionarci su interferisce con “la guida dell’inconscio”, significa cercare di costruire noi le connessioni tra contenuti psichici. Poi – solo poi – arriva però il momento in cui l’analista non può in alcun modo fare a meno di un’attività rappresentazionale che rimane in ogni caso dipendente o derivante dai prodotti dei processi percettivi.

Il fatto è che la questione fondamentale rimane quella dell’esistenza di un sistema di pensiero altro rispetto a quello che chiamiamo così abitualmente e che, Freud sostiene questo per tutta la vita, è il vero pensiero. Il che ha a che fare anche – e non solo per una questione terminologica o lessicale – con la questione spesso citata a sproposito della pensabilità. In ogni caso si pensa, non possiamo non pensare inconsciamente. Solo i morti non pensano[2]. Il problema nostro è quello di rappresentarci – e di come rappresentarci – questi processi. Perciò la questione del riconoscere questa alterità immanente è fondamentale. Sia per una antropologia psicoanalitica sia per la clinica psicoanalitica.

Riconoscere che il pensiero si svolge altrove, rispetto alla coscienza, ha infatti delle implicazioni profondissime. A partire, tanto per dire una cosa non scontata, dalla costruzione della teoria e della nostra scienza. Se infatti riconosciamo che tramite il nostro metodo riusciamo almeno in parte (e comunque ci tentiamo) a costruire una conoscenza diversa da quella delle scienze sperimentali e delle scienze sociali, come possiamo dare forma a questa conoscenza? Dobbiamo sottostare ai dettami del pensiero conscio (che è poi il pensiero ‘storico’, ‘culturale’, ‘sociale’ ma anche razionale) o dobbiamo invece cercare di rappresentare a livello del pensiero conscio le modalità di sviluppo e di decorso del pensiero vero e proprio? Oppure è anche inutile ‘cercare di rappresentare’ ma si tratta invece di ammettere che è proprio così che ci tocca fare, lo si voglia o meno? Questa ultima è la soluzione che Freud sembrò indicare nella prefazione alla seconda edizione della Traumdeutung e poi applicò nei vari saggi metapsicologici, soprattutto dagli anni ’20 in poi. In altri termini: se il nostro è un metodo conoscitivo della attività psichica, possiamo permetterci di limitarlo ad una attività pratica o dobbiamo approfondire il metodo costruendo di conseguenza anche delle tecniche che consentano di usarlo su altre attività psichiche particolari, come quelle implicate nella costruzione stessa della nostra scienza? Penso che su questo la discussione tra noi psicoanalisti sia aperta e, forse, infinita. Debbo dire che soggettivamente leggo spesso i lavori di psicoanalisi, a partire da quelli di Freud, non solo per il loro contenuto ma per la forma argomentativa che hanno, ossia per quanto rivelano o consentono di apprezzare del pensiero associativo retrostante. Esiste fors’anche una tecnica psicoanalitica di lettura, anch’essa da tenere collegata al metodo.

Insomma, cosa vi sto dicendo? Sono partito da una serie di resistenze proprie a tutti per poi indicare la necessità del passaggio dalla constatazione di un fatto alla costituzione di un fenomeno e quindi dell’oggetto specifico da indagare. Ho indicato poi le condizioni di indagabilità (isolamento dell’oggetto, coscienza come opposizione alla conoscenza, processo associativo e duplicità dell’oggetto connessa al riconoscimento della alterità, interna e esterna) per poi passare alla questione del metodo delle libere associazioni e del suo rapporto con le tecniche, le esperienze psichiche fattibili, le teorie elaborabili e/o usabili, sottolineando la necessità di distinguere metodo da tecnica e di elaborare le differenze tecniche perché ogni tecnica deve essere adeguata all’oggetto e coerente con il metodo. Avrete notato, spero, che ho evitato le iperboli o le affermazioni drammatiche o sperticate e che perciò quel che vi ho detto può sembrare asciutto, poco affettivo.

Sul rapporto tra metodo e affetti sperimentati dall’analista oltre che dal paziente, mi ero soffermato in un articolo di dieci anni fa[3]. Qui, alla conclusione di questa relazione, richiamo il problema degli affetti solo per sottolineare come essi spesso rappresentino uno dei maggiori ostacoli all’uso continuato del metodo psicoanalitico, sia perché diventa soggettivamente difficile sospendere il giudizio e continuare le libere associazioni sui propri sentimenti, sia perché il processo inconscio di pensiero consente di “slegare” una quantità di energia da una rappresentazione e spostarla su un’altra, ottenendo l’effetto di un cambiamento di significato quando in qualche modo la rappresentazione giunge al preconscio e poi alla coscienza, il che costituisce un fenomeno sempre difficilmente tollerabile. Scoprire che il violento rancore appena sperimentato era solo un camuffamento di un desiderio di calduccio e di coccole (o viceversa) mette in dubbio proprio la caratteristica fondamentale di “organo di senso delle qualità psichiche” che è propria della coscienza. E, quando lo si sperimenta, ha comunque un effetto sconvolgente che, quand’è anche condiviso, ha un effetto trasformativo. Ma dico questo anche per spiegare che per me gli affetti sono qualcosa di preziosissimo e perciò comunicabile direttamente solo in determinati contesti e viceversa sono qualcosa che vorrei evitare di indurre senza dichiararli. Penso tuttavia di avervi fatto sentire che al metodo psicoanalitico sono legatissimo.

Concludo affermando che, a riguardare così il metodo psicoanalitico, tutto sommato esso può sembrare concettualmente semplice. Ma c’è sempre il pericolo, di fronte ad una formula apparentemente semplice (pensiamo alla ormai classica E = mc2) di non poterne o volerne valutare lo spessore, ciò che dobbiamo riscoprire ogni giorno durante la nostra attività perché essa possa dirsi psicoanalitica.

 

[1] Un esempio – forse banale – può essere quello di G: il paz. dichiara l’importanza che lui attribuisce alla logica. 2+2 fa 4. A me l’affermazione del paziente (2+2=4) aveva fatto venire in mente un problema dentario, il che nella logica cosciente verrebbe giudicata “roba da matti” ma nel contesto analitico mi ha motivato a dire: perché sentirsi in colpa-punirsi se ha fame? Desidera 5 sedute, che c’è di male? Ricostruzione poi: 2+2 = 22 ma anche 22/ e “ventidue” fa “venti” + “due” collegati a “bora” e inglese “scadente” à dente à mordere à /interruzione-silenzio/ àpiù o meno (more or less) à passare a 3 à mordere-fame.

[2] Il riferimento qui, ovviamente, è alla teoria delle pulsioni e in particolare alla pulsione di vita, Eros.

[3] Semi A. A. (2012). Metodo psicoanalitico e controtransfert. Riv. Psicoanal., LVIII, 2, 313-333.

Antonio Alberto Semi (Venezia)

Centro Veneto di Psicoanalisi

aasemi@tiscali.it

*Per citare questo articolo:

Semi A.A., (2024) “Un rigoroso metodo sconvolgente”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 129-149

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