Il Fattore umano

di Domenico Chianese

(Roma) è membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytic Association. Ha ricoperto vari incarichi nella SPI di cui è stato Presidente. È stato altresì Presidente del Centro Psicoanalitico di Roma. È autore di Costruzioni e campo analitico (1997), Un lungo sogno (2006), Come le pietre e gli alberi (2015), Il vivente e il sacro (2020). È inoltre coautore con Andreina Fontana di Immaginando (2010); con lei ha anche curato Per un sapere dei sensi (2012). Alcuni di questi testi sono tradotti in varie lingue. Autore di numerosi articoli; tra questi Il Chiasma del 1994, citato nel corso dell’incontro, è pubblicato nella Rivista di Psicoanalisi (40:517-531). È psichiatra; nato a Napoli, vive e lavora a Roma.

*Per citare questo articolo:

Chianese D, (2024) “Il fattore umano”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 91-128

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Uno stormo di uccelli si scontra con un aereo da poco decollato dall’aeroporto di New York, l’impatto manda in avaria entrambi i motori dell’aereo che inizia a perdere quota. Il comandante Sully pensa che non c’è il tempo necessario per far ritorno all’aeroporto di New York e decide temerariamente di ammarare sull’Hudson. In tal modo fortunatamente mette in salvo tutti i passeggeri. Segue un “processo” e viene utilizzato un simulatore di volo che si basa su precisi metodi matematici ed algoritmi, in base ai quali i giudici giungono all’inoppugnabile conclusione che l’aereo avrebbe avuto il tempo necessario per tornare all’aeroporto di New York salvaguardando le vite dei passeggeri messi in pericolo dall’ammaraggio sull’Hudson.

A questo punto interviene Sully che rivolto ai giudici chiede di inserire nel simulatore il “fattore umano” calcolabile in una manciata di minuti dovuti all’impatto emotivo, alla sorpresa, all’angoscia, al dover calcolare mentalmente le distanze, etc. …

Viene introdotto il “fattore umano” e il simulatore stabilisce che l’aereo non sarebbe riuscito a fare ritorno all’aeroporto e si sarebbe schiantato al suolo. Il “fattore umano” ha interferito sui metodi matematici ed algoritmi.[1]

 

L’uomo della farfalla[2]

Quel giovane letterato aveva perso l’anno prima il suo analista che era morto improvvisamente. Aveva fatto seguito un anno di angoscia e tristezza, alla fine del quale aveva chiesto di iniziare una nuova analisi.

Al termine della prima seduta di questa analisi narra un sogno fatto la notte prima di incontrare il nuovo analista: “Ero solo, sentivo la solitudine addosso, un intreccio di alberi e rami, era buio, era come se avessi perso l’orientamento. C’era qualcosa di metafisico che mi turbava, poteva diventare un incubo. “Dopo una pausa: “Penso a Dante: ‘Mi ritrovai in una selva oscura’ ed io continuo nel pensiero: ‘Ché la dritta via era smarrita’. Dopo la morte dell’analista, mi sono sentito perso, come se la strada tracciata sotto i miei piedi svanisse all’improvviso. Reinventarsi una vita non è facile. “Nella seconda parte del sogno, mi spaventavo, alla mia sinistra c’era un uomo, non me ne ero accorto o prima non c’era e poi appariva, ero inizialmente spaventato, ma poi mi acquietavo, perché quell’uomo non era un nemico, era una figura buona. A quel punto mi inchinavo, all’inizio non capivo cosa fosse, un qualcosa di chiaro che si muoveva, mi avvicinavo era una farfalla. C’era un raggio di sole le piccole ali della farfalla ondeggiavano al soffio di una lieve brezza”.

Era la fine della seduta e non ci fu tempo per attendere le associazioni del paziente. Sono solito trattare i sogni col metodo inaugurato da Freud: il sogno diviso in scene, associazioni alle singole scene e ai singoli personaggi del sogno; seguo a ritroso le condensazioni sciogliendole nei singoli elementi e gli spostamenti ripercorrendo le catene di significanti per poi infine giungere al pensiero del sogno.

Ma non c’era tempo per questa procedura metodologica.

Il fattore umano: all’ascolto del sogno “vedendo” le immagini della parte finale del sogno, provai un senso di bellezza, di speranza e di futuro.

“L’universo non è tenuto ad essere bello, eppure lo è” scrive Francois Cheng (2006), la bellezza è prossima alla verità o, meglio, la bellezza è lo splendore della verità, verità e bellezza sono simili: secondo il fisico Paul Dirac “è più importante per una equazione essere bella che essere in accordo con il dato sperimentale”. Pensando alle immagini del sogno penso al legame dell’immagine con Eros, assistiamo nel sogno al legarsi dell’immagine viva con emozioni vitali.[3]

“Fede è sostanza di cose sperate e argumento de le non parventi” leggiamo nel Paradiso di Dante: “quelle immagini del sogno erano piene di speranza e di fede nel futuro o almeno così apparivano, si manifestavano alla sensibilità dell’analista. Mi si può obiettare che il sogno guarda al passato. È questo un antico problema, quanto a me penso che senza futuro, questo sfondo il più delle volte innominato, non c’è cura, non c’è speranza né progetto.[4]

L’analista all’ascolto del sogno provò dunque un senso di bellezza, di speranza e di futuro. L’analista è legittimato a provare questi sentimenti, pensando, tra l’altro, che siamo alla prima seduta? L’analista deve essere “senza memoria e senza desiderio” potrebbe ammonire Bion, ma lo stesso Bion scrive: “Come può un essere umano con mentalità e personalità umana a non occuparsi del futuro?” (Bion 1973-74, 107). “Un ‘atto di fede’ ha come proprio sfondo qualcosa che è inconscio e ignoto perché non è accaduto” (Bion 1970, 51). Il poeta che è in noi deve riuscire a catturare “l’ombra del futuro proiettato in avanti”.

Per Bion è il vertice religioso a fornire la preoccupazione necessaria riguardo al futuro ed egli ebbe sempre l’impressione che il vertice religioso fosse stato trascurato dagli analisti che, secondo lui, “sono peculiarmente ciechi all’argomento religioso” concentrandosi unicamente sulla sessualità. L’analista dunque come scienziato, poeta e uomo religioso, analista che deve sempre coniugare L e K, Amore e Conoscenza, l’atto della conoscenza può essere potenzialmente violento e va mitigato ed unito a L, love, Amore; l’Oriente scorre nell’anima di Bion: nella tradizione Buddhista karuna(compassione)è inseparabile da prajna(saggezza).

Bellezza, fede, speranza del futuro, sono a fondamento dell’impresa analitica. Sono questi degli elementi del metodo analitico? Si possono “prescrivere” la bellezza, la fede ed il futuro?

È indubbiamente più facile prescrivere e descrivere le libere associazioni, l’attenzione liberamente fluttuante, l’interpretazione e la costruzione, la decifrazione del sogno.

 

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[1] L’intero episodio è descritto da Clint Eastwood, nel film “Sully“.

[2] Il caso dell’uomo della farfalla è descritto nel mio libro Il vivente e il sacro,2021 Astrolabio.

 

[3] “Nell’uomo prima viene l’immagine, poi la percezione”. La percezione non è una fase primaria della coscienza; è una funzione acquisita ulteriormente grazie ad un sogno che è divenuto simbolico di sue proprie condizioni esterne Marion Milner (1977, 52) cita questa affascinante riflessione di Santayana, per affermare che l’indistinzione tra realtà esterna e realtà interna è una fase presente in tutti i processi creativi, fase necessaria per arrivare a percepire la realtà del mondo esterno.

 

[4] Freud tornò più volte sulla visione ‘prospettica’ del sogno e giunse a dire questa frase creativamente ambigua: “È il lavoro onirico che produce la forma onirica ed è solo questa l’essenziale del sogno […] dico questo in segno di apprezzamento per la famigerata ‘tendenza prospettica’ del sogno”. In Il poeta e la fantasia (1907) sarà più incline ad aprirsi al futuro: “La fantasia ‘ondeggia’ tra tre tempi, tre momenti temporali della nostra ideazione, prende le mosse da un’occasione offerta dal presente, di là si collega al ricordo di un’esperienza anteriore […] crea quindi una situazione relativa al futuro la quale si configura come appagamento di quel desiderio […] dunque passato, presente e futuro, come infilati al filo del desiderio che li attraversa”.

 

G. De Chirico (1917), Il grande metafisico

Sono questi alcuni elementi del metodo analitico sui quali tornerò, ora mi preme capire che cosa è un metodo se esso è applicabile alla psicoanalisi: lo farò dando la parola a Cartesio che del metodo fu un inventore.

Regulae ad directionem ingenii

Descartes in Regulae ad directionem ingenii (1628): “Per metodo […] intendo delle regole certe e facili, osservando le quali esattamente nessuno darà mai per vero ciò che sia falso, e senza consumare inutilmente alcuno sforzo della mente, ma gradatamente aumentando sempre il sapere, perverrà alla vera cognizione di tutte quelle cose di cui sarà capace”.[1]

Questa celebre definizione del metodo si applica al cammino della conoscenza e alla ricerca della verità, essa è applicabile alla psicoanalisi? A ciò che l’analista fa nella stanza d’analisi?

Un metodo consiste nel seguire delle regole, intendendo per regola l’indicazione di un’azione da compiere o di un atteggiamento da assumere in una circostanza esplicitamente designata.

Il metodo mira a economizzare le forze; agire con metodo significa essere, in una certa misura, prevenuti contro lo smarrimento totale che situazioni del tutto impreviste potrebbero generare. Il metodo preserva dall’errore, è un mezzo per combattere l’aleatorietà: accettare solo l’evidenza, scomporre la difficoltà, andare dal più semplice al più complesso, fare delle ricognizioni esaustive: queste sono le quattro regole descritte da Cartesio nel Discours de la méthode.

È però legittimo chiedersi se l’estensione di tali principi di metodo alla conoscenza in generale non presenti aspetti problematici, dal momento che alla loro origine sono legati così strettamente alla pratica delle così dette scienze della natura. Leibniz mosse, a tal proposito, delle critiche a Cartesio, egli propendeva per una concezione del metodo come “arte d’inventare”. Ci si deve inoltre chiedere se quando parliamo di metodo ci riferiamo ad algoritmi o a strategie, intendendo per algoritmo una procedura che serve per risolvere un problema, l’algoritmo è costituito da una sequenza finita di operazioni (dette anche istruzioni) che consente di risolvere tutti i quesiti di una stessa classe. Esso deve essere finito, deterministico, non ambiguo, generale.

Il metodo come algoritmo è, dunque, una procedura che descrive dettagliatamente la concatenazione di ciò che deve essere fatto. La strategia invece, non dà necessariamente una indicazione circostanziata degli atti da compiere ma solo dello spirito nel quale la decisione deve essere presa e dello schema globale nel quale le azioni devono aver luogo (per quanto riguarda la psicoanalisi credo che sia appropriato parlare di strategia). L’azione metodica si svolge in un universo simbolico e presuppone un pensiero che, in misura variabile, sorvoli i dati e gli effetti dell’azione immediata.

Ma che dire del metodo nei domini della conoscenza in cui la determinazione degli oggetti dipende essenzialmente dall’esperienza? Sto pensando anche alla psicoanalisi. Prendendo a prestito il vocabolo dalla medicina, è stato definito metodo “clinico”, l’orientamento strategico della conoscenza che voglia costituirsi in modo scientifico verso l’individuale. Questo atteggiamento presuppone anzitutto che il soggetto conoscente stabilisca con l’oggetto individuale da conoscere una relazione che fa di questo il portatore di “significati”; questo oggetto individuale rimanda ad una rete di rappresentazioni più o meno ricca, più o meno coerente relativa all’osservatore. Neutralizzando il carattere individuale, il fisico, il naturalista, fa astrazione da questa rete e in questo appunto consiste principalmente la riduzione dell’oggetto a oggetto di natura: rappresentare un fatto umano mediante un unico modello che si dispiega su un solo piano, lo spogli immancabilmente del suo carattere singolare, lo riduca alla piattezza dell’oggetto fisico.

A questo punto è legittimo chiedersi se esiste un metodo al di fuori dei metodi scientifici.

A valle del metodo si incontra il contatto diretto con l’individuale, è questo non solo nei rapporti tra uomini e nei fatti umani, ma anche nella manipolazione degli oggetti della natura. Ogni procedimento metodologico che venga veramente condotto a termine sfocia in un’“arte”, designando con questa parola tutte le modalità che questo contatto effettivo con l’individuale può rivestire (continuo a pensare alla psicoanalisi).

L’uomo si rappresenta il mondo sul quale deve agire come un complesso per lui significante, solo parzialmente ridotto dai metodi di tipo scientifico, sovradeterminato rispetto al modello o ai modelli astratti che quelli gli propongono. Non si dirà più allora che è questione di metodo ma piuttosto di “stile” che rappresenta la messa in opera di ciò che, in un vissuto individuale, sfugge alla rete intessuta dai concetti per afferrare il fatto generico secondo un metodo. È quello psicoanalitico uno stile?

Platone descrive e illustra un “metodo socratico”, mediante il quale, in un dialogo inventato, un pensiero rivela a se stesso i propri presupposti e incontra le proprie contraddizioni interne.; Hegel instaura un cammino in tre momenti (tesi, antitesi, sintesi); Husserl a più riprese insiste sull’opportunità di sospendere tutte le pretese evidenze per giungere a una descrizione pura e semplice delle “cose” stesse, quali sono originariamente percepite dalla coscienza. Questa molteplicità di metodi preconizzati dai filosofi può, a buon diritto, sospettare che non si tratti qui del metodo nel senso in cui la scienza autorizza a definirlo; conviene parlare anche in questo caso di stile. Lo stesso Cartesio assicura: “Il mio scopo non è […] quello d’insegnar il metodo che ciascuno deve seguire per ben condurre la propria ragione, ma di far vedere soltanto in qual modo ho cercato di condurre la mia”(1637, 133).

“Devo dire esplicitamente che questa tecnica si è rivelata l’unica adatta alla mia individualità e non pretendo di escludere che una personalità medica di tutt’altra natura possa essere spinta a preferire un atteggiamento diverso di fronte al malato e al compito che deve affrontare” (Freud S., 1911-1912, 532). Con queste note parole di Freud, siamo introdotti al complesso tema del rapporto di Freud e della psicoanalisi col metodo.

Invenzione e scoperta

“Chi voglia imparare sui libri il nobile giuoco degli scacchi si accorgerà ben presto che soltanto le mosse d’apertura e quelle finali consentono una presentazione sistematica esauriente, mentre ad essa si sottraggono le innumerevoli svariatissime mosse che si succedono dopo l’apertura […] si tratta appunto di regole di un giuoco destinate ad acquistare importanza dal piano del giuoco nel suo complesso. Comunque mi sembra opportuno presentare queste regole come ‘consigli’ e non pretendere che vengano accettate incondizionatamente” (Freud, 1913, Nuovi consigli sulla tecnica, Inizio del trattamento).

Queste note parole di Freud fanno pensare all’analisi come a un “giuoco” mosso da “strategie” piuttosto che basato su metodi rigorosi né tantomeno su algoritmi. Farebbe propendere per questa lettura una affermazione attribuita a Freud secondo cui i metodologi sarebbero uomini intenti a pulirsi continuamente gli occhiali col rischio di non vedere più nulla. Ma non è facile collocare l’impresa analitica inaugurata da Freud, non è facile coniugare la clinica con la teoria.

Quanto a quest’ultima, è bene partire dalla nota prima pagina epistemologica di Pulsioni e loro destini, per poi approdare al fare clinico dell’analista.[2]

In questa pagina, Freud mostra una decisa predilezione per l’uso di idee astratte, nei confronti dell’esperienza, nella costruzione di una teoria: “Già nel corso della descrizione non si può però fare a meno di applicare, in relazione al materiale dato, determinate idee astratte: le quali provengono da qualche parte e non certo esclusivamente dalla nuova esperienza. Ancora più indispensabili sono tali idee, destinate a diventare in seguito i concetti fondamentali della scienza, nell’ulteriore elaborazione della materia.

Esse hanno necessariamente all’inizio un certo grado di indeterminatezza: né si può parlare di una chiara delimitazione del loro contenuto. Finché le cose stanno così, ci si intende sul loro significato riferendosi continuamente al materiale dell’esperienza da cui sembrano derivate, ma che in realtà è ad esso subordinato”.

Questo passo mi indusse tempo fa (Chianese, 1988)[3] ad accostare il pensiero di Freud a quello di Einstein il quale, nella maturità della sua ricerca, in una lettera indirizzata al suo amico Solovine, aveva ipotizzato un salto speculativo dall’esperienza alla teoria.[4] Di fronte al caos dell’esperienza questo salto rappresenta un momento prezioso della libertà immaginativa, frutto della “meraviglia” di fronte al mondo, della “passione per la comprensione”. Tutti i concetti, anche quelli più vicini all’esperienza, sono, secondo Einstein, dal punto di vista logico convenzioni liberamente scelte.

Similmente Freud: “A stretto rigore queste idee hanno dunque il carattere di convenzioni”. Per Einstein questo schema non si applica solo al modo in cui la mente costruisce una teoria, ma è generalizzato come modello di pensiero tout court; nella sua autobiografia scientifica, egli parla della natura costruttiva del pensiero scientifico, definisce questa modalità di pensiero un “andare a tentoni per cercare di costruire”, fino ad indurci a ricordare la nota citazione di Ruchert riportata da Freud in Al di là del principio di piacere: “Ciò che non si può raggiungere in volo bisogna raggiungerlo zoppicando”. In sintesi, per Einstein la scienza non è semplice ordinamento del materiale empirico; contrariamente a quanto pensava Mach, le teorie nascono per mezzo dell’invenzione e non della scoperta.

Il problema della scoperta e dell’invenzione attiene alla psicoanalisi, sia da un punto di vista clinico che teorico. Nella clinica, scoperta e invenzione assolvono alla funzione di reintegrare lacune e vuoti, e in alcuni momenti dell’esperienza possono diventare un atto unico ed inscindibile.

Traversa (1981) ha ritrovato in una particolare forma di articolazione tra invenzione e scoperta la specificità della ricerca freudiana: “se riprendo la successione di fasi della procedura freudiana così come ho provato a storicamente ricostruirla e che mi proponeva la sequenza: invenzione, scoperta, invenzione e così via, potrei ritenere che, secondo l’epistemologia tradizionale, di essa sia stata eliminata la prima fase di invenzione, per cui ne risulterebbe una sequenza: scoperta, invenzione, scoperta e così via”.

[1] Le mie riflessioni sul metodo mi derivano principalmente dalla lettura della voce “Metodo” dell’Enciclopedia Einaudi (Vol. 9, 237-253) redatta da Gilles-Gaston Granger.

[2] Queste riflessioni su Freud metodologo ed epistemologo mi derivano anche dalla partecipazione al gruppo “Methodos” che operò a Roma per tutti gli anni ottanta del secolo scorso. Il gruppo era coordinato da Carlo Traversa e Anna Maria Muratori ne facevano parte tra gli altri Lucio Russo, Adamo Vergine, Olga Pozzi, Gianni de Renzis, Anna Maria Galdo. Si studiò a fondo la metapsicologia Freudiana, ci si destreggiò tra assiomi, paradigmi, modelli, si affrontarono i testi di Rapaport e di filosofi della scienza come Popper, Feyerabend ed altri. Parallelamente sul piano clinico fu promosso ed indagato il modello della Relazione analitica, anticipando di circa dieci anni le ricerche sulla relazione analitica promosse da altri centri e gruppi analitici. Sono testimonianza di questa intensa e profonda ricerca, i volumi La relazione analitica (Borla, 1980), Soggetto, relazione e trasformazione (Borla, 1987) Il continuo e il discreto in psicoanalisi (Borla, 1987).

[3] Domenico Chianese, La costruzione di una teoria. Einstein -Freud: un confronto tra modelli, Riv. Psychoanal.3-1988.

[4] Nella lettera Einstein ad illustrazione delle sue idee, propone e disegna lo schema seguente:

Ove:  GUARDA IMMAGINE

  • Le E(esperienze) sono
  • A sono gli assiomi dai quali si traggono le conseguenze. Psicologicamente le A si basano sulle E. Non c’è comunque una via logica dalle E alle A, ma solo una connessione intuitiva (psicologica) che è sempre soggetta a revoca.
  • Da A, per via logica si deducono asserzioni S particolari, che si possono assumere come
  • Le S sono poste in relazione con le E (confronto con l’esperienza).
P.Klee (1928) Castello e sole

“Dove la prima fase di scoperta può essere preceduta sì dalla presenza di uno schema di riferimento (messo tra parentesi e desunto dalla teoria già operante) che mi guidi nell’osservazione dei fatti, ma il tutto in un contesto speculativo tranquillo, e non pervaso dalla sofferenza che presiede all’altro percorso”.

Secondo il costruttivismo, la nostra visione della realtà, non è una immagine “vera” di ciò che si trova fuori di noi, la cosiddetta realtà è una “costruzione” di coloro che credono di averla scoperta; anche in questo caso, più che di una scoperta si tratta di una “invenzione” (Watzlawick, 1981).

Sembrerebbe dunque pieno diritto della psicoanalisi rivendicare una qualche paternità dell’odierno costruttivismo. Il termine-concetto “Costruzione” assurgerebbe a modello generale del pensare analitico. [1]

Anche se assume forma di concetto solo nel ’37, il termine costruzione, così come quello di elaborazione, secondo me, ad esso correlato, si ritrova precocemente e attraversa tutta l’opera freudiana.

Tutta la massa voluminosa di materiale patogeno viene trafilato attraverso una stretta fessura ed arriva perciò alla coscienza come tagliata a pezzi o in nastri, è compito della psicoterapia ricomporre l’organizzazione presunta (Studi sull’isteria) “scene […] che si riferiscono ad un’epoca così remota […] scene che rivendicano in seguito un’importanza così straordinaria per la storia del caso, non vengono di norma riprodotte sotto forma di ricordi, ma devono essere desunte, ossia costruite faticosamente passo per passo da un insieme di indizi”. Il concetto di costruzione è legato fin dall’inizio a quello di rimozione e censura e per via di questo legame vi è una continuità (e coerenza) tra il metodo analitico (associazioni libere–attenzione liberamente fluttuante–interpretazione–costruzione) e la teoria metapsicologica dell’inconscio-preconscio, tra le procedure ricostruttive che tentano di ricomporre l’ “organizzazione presunta” e la teoria che giustifica tale procedura.

Si può parlare, nel caso di Freud di metodo decostruttivo–costruttivo e di “costruzioni” del soggetto, dal momento che per Freud il sogno, il sintomo, il ricordo sono il prodotto di costruzioni “intenzionali” del preconscio-inconscio, nulla è affidato al caso. Le figure dello spostamento, condensazione, raffigurabilità, elaborazione secondaria, descritte nel capitolo sesto dell’Interpretazione dei sogni, non sono solo meccanismi del lavoro onirico, ma regole di trasformazione generali che presiedono, sia alla costruzione del sogno che del sintomo, e della fantasia. La morfologia di queste costruzioni ci indica la loro etiologia. Il metodo analitico segue il percorso a ritroso della costruzione di un sogno, di un sintomo, di una fantasia, utilizzando le stesse regole di trasformazione: slega ciò che è stato compattato dalla condensazione, segue le linee di sutura degli aggregati, riduce in elementi, interpreta e ricostruisce.

Teoria dell’apparato psichico (metapsicologia), teoria dei sintomi, teoria del sogno, metodo analitico decostruttivo-ricostruttivo formano un insieme solidale e coerente. Si potrà pure criticare l’insieme, ma è infondata la critica basata su una supposta dicotomia clinica–teoria.

Per anni mi sono ritrovato a meditare sulle costruzioni narrative e le ricostruzioni storiche, rileggendo non solo il Freud di Costruzioni in analisi ma anche il Freud del Mosè e di una premessa inedita al Mosè. Alla fine dell’impresa ho sentito che il binomio opposizione costruzione–ricostruzione aveva rappresentato per me il senso dell’analisi che è determinata dalla storia, dai suoi vincoli e limiti, ma che è anche spinta da una tensione creativa per superare quei vincoli e quei limiti, per ritrovare, per dirla con Eliot, “la vita che abbiamo perduto vivendo”.

Dalla prospettiva che ho cercato di indicare, l’atto del costruire, atto di cooperazione e coproduzione dell’analista e del paziente, è animato da parte di entrambi dalla passione di trasformare, e, talvolta, anche se sulle prime può sembrare paradossale, di distruggere ciò che appare indistruttibile (come il sintomo), e questa passione equivale alla passione di vivere, alla pulsione di vita. L’avventura analitica non è più così semplice riproduzione della nevrosi di transfert ma “coproduzione del vivente” (Racamier, 1989) alla quale partecipano l’analista e il paziente.

Il termine baun nella lingua tedesca antica racchiudeva in un’unità i significati di bauen (costruire), wohen (abitare) sein (essere). L’espressione ich baue (io costruisco) significava contemporaneamente ich bin (io sono). L’antico tedesco con la medesima parola indicava il soffermarsi, l’abitare ma parallelamente anche l’essere e il costruire. Ma non è poi questo il senso e lo scopo del nostro fare analisi, del nostro scrivere e del nostro stesso vivere?

Non voglio sottovalutare la difficoltà della trasformazione, le resistenze che si oppongono al cambiamento. L’analisi comporta una revisione delle credenze. Ad una conoscenza trasformativa, ad un “conoscere per mutare” si oppone il “già noto”, che è alimentato da forze che si oppongono alla conoscenza e al cambiamento, forze sottratte alla coscienza. Freud (1910) afferma: “Non è il non sapere per se stesso il fattore patogeno ma la radice di tale non sapere che risiede nelle resistenze che hanno determinato il non sapere”. Pensieri, rappresentazioni, desideri inconsci disperdono l’energia utilizzabile per il cambiamento. È per questo motivo che il lavoro sulle resistenze (elaborazione) è un momento cruciale, perché sblocca gli investimenti e libera l’energia utilizzabile per il cambiamento e la conoscenza. L’elaborazione e la costruzione definiscono i limiti e le possibilità della trasformazione della struttura, in sintesi l’elaborazione e la costruzione rappresentano due forme di una stessa funzione trasformativa.

Il concetto di elaborazione mantiene tuttora, a distanza di anni, una certa oscurità sebbene se ne intuisca l’estrema importanza in analisi: “Si tratta, scrive Freud (1913-1914, 361) della parte del lavoro che produce i maggiori mutamenti nel paziente”. Con un unico termine (elaborazione) sono stati tradotti termini tedeschi diversi, che diversificano e rendono più sfaccettato il concetto. Dobbiamo riferirci per lo meno a tre forme di elaborazione: l’elaborazione psichica (Ver-Be-Aus-Auf arbeitung); l’elaborazione terapeutica (Durcharbeitung); l’elaborazione secondaria (sekundare Bearbeitung). Il concetto di lavoro (Arbeit) collega le tre forme di elaborazione. Ritroviamo il termine lavoro in molti concetti chiave di Freud come Traumarbeit (lavoro del sogno), Trauerbeit (lavoro del lutto). La stessa pulsione è definita come “quantità di lavoro richiesto alla vita psichica” (Freud 1905).

Nella Comunicazione preliminare, l’elaborazione è considerata sia un modo di funzionamento spontaneo dello psichico che un metodo terapeutico: mimesi tra terapia e funzionamento psichico che è una costante nel pensiero di Freud. Una trasformazione nella quale è implicata l’elaborazione è la trasformazione in affetto: “La tensione sessuale, afferma Freud (1905), si trasforma in angoscia in tutti i casi in cui si presenta abbondante ma non subisce l’elaborazione psichica che la trasformerebbe in affetto”. Ritroviamo dunque l’elaborazione implicata in una unità inscindibile, sia nei processi ideativi che in quelli affettivi.

L’elaborazione terapeutica (Durcharbeitung) è un lavoro che fa accettare all’analizzando interpretazioni e costruzioni che si collegano ad elementi rimossi che vengono così sottratti alla ripetizione, all’attrazione esercitata dai processi inconsci del processo pulsionale rimosso. Le formazioni inconsce sono messe in relazione con il complesso della personalità. C’è una grande affinità tra l’elaborazione psichica, che stabilisce connessioni associative e l’elaborazione terapeutica che mette in relazione l’inconscio con il complesso della personalità. Durcharbeitung è traducibile con lavorare a fondo, incessantemente, elaborare radicalmente. Se si legge il prefisso durch in senso spaziale si può tradurre con “attraverso”, in senso temporale “per tutto il tempo, dal principio alla fine”. Il lavoro associativo collega spazi e tempi diversi e lontani; l’elaborazione è dunque un attraversamento spazio-temporale che potenzialmente non ha limiti, esso si muove spaziando attraverso gli scenari del passato, del presente e del transfert; in questo processo il recupero del passato è solo una delle molte parti in gioco. Sia l’elaborazione terapeutica che quella psichica operano trasformando la quantità (energia) in qualità, mediante l’istaurazione di vie associative.

Mi sono riservato di parlare più approfonditamente della Bearbeitung, perché rappresenta il prototipo dell’attività elaborativa. Con Bearbeitung Freud indica a volte l’elaborazione psichica, associata a “secondaria” (Sekundare Bearbeitung) si riferisce invece ad una fondamentale funzione del “lavoro onirico”. “Vi è una tendenza dello psichico a riportare il nuovo al già noto, e un’altra quella di includere il nuovo che utilizza gli stessi meccanismi della prima; insieme queste due funzioni permettono la permanenza e l’integrità dell’identità strutturale.

L’elaborazione è così una salvaguardia dell’identità. Il lento, sotterraneo lavoro sulle resistenze consente un movimento trasformativo e conoscitivo coerente e non distruttivo. È in opera, in questo processo, un’attività creativa inconscia, che è espressa dal termine Bearbeitung che si può tradurre con: lavorazione, coltivazione, arrangiamento, adattamento, riduzione, compilazione, rimaneggiamento, rifacimento, (in senso figurato) opera di persuasione, (politico) maneggiare, (musicale) arrangiamento, (teatrale) adattamento. È impossibile pensare in psicoanalisi a dati “puri”, a ricordi, ad esempio, non trattati, costruiti, montati.

La psicoanalisi è eminentemente una scienza dialogica, la sua specificità risiede nell’intensa e prolungata relazione che il paziente e l’analista intrattengono, modalità che non trova nessun equivalente in altre discipline scientifiche ed umanistiche. In analisi la storia del paziente e quella dell’analista si intrecciano, la parola dell’uno incontra quella dell’altro, entrambe ne risultano modificate. Possiamo seguire le tracce di una parola o di una costruzione lungo le linee della stratificazione psichica dei due contraenti il rapporto, possiamo osservarne la trasformazione in sogno, simbolo, azione, ne seguiamo, fino ad un certo limite, i percorsi preconsci ed inconsci. In questi territori sotterranei l’elaborazione detta la sua legge, non tutti i tragitti sono possibili; l’elaborazione detta i limiti ma anche la possibilità della conoscenza e del cambiamento, essa determina i baratti possibili. Conoscere è lavorare all’interno di vincoli, su materiali ritrovati, dei quali bisogna conoscere la qualità e la resistenza, dalla cui ricombinazione (elaborazione) e contaminazione (costruzione) può nascere qualcosa di nuovo.

 

Dal finestrino di un treno

“’Ormai vivo soltanto del lavoro ‘interiore’. Questo mi cattura e mi trascina, attraverso i tempi passati in rapide associazioni di pensieri; i miei stati d’animo variano come i paesaggi dinanzi agli occhi di chi viaggia in ferrovia” (dalla lettera a Fliess del 27 ottobre del 1897).

“Si comporti […] come un viaggiatore che segga al finestrino di una carrozza ferroviaria e descriva a coloro che si trovano all’interno il mutare del panorama dinanzi ai suoi occhi” (da Nuovi consigli sulla tecnica, 1913-1914, 344).

Freud “consiglia al paziente di fare ciò che egli stesso ha fatto nella sua autoanalisi, una istanza morale anima le sue parole e ci fa riflettere che non possiamo accampare nessuna pretesa di superiorità nei confronti del paziente e facciamo con lui ciò che abbiamo fatto con noi stessi”.

Si dice all’analizzando di dire ciò che ‘gli passa per la testa’, ciò di cui non si sente autore, pensieri che transitano, camminano, attraversano la coscienza eludendo la volontà. Pensieri che escono dall’ombra e arrivano a noi passeggiano per la mente. Per cogliere questi pensieri vagabondi bisogna allontanarsi dall’obbligo della coerenza che informa il pensiero teorico. Le cose della psiche sono allusive, indefinite, dicono appena, alludono. Così la parola interpretante dell’analista è preferibile che sia allusiva, accennare, usare parole non impositive. Ad-ludere, giocare, scherzare; alludere ed evocare. Di fronte ad alcune immagini del sogno la mia analista, Anna Maria Muratori, mi chiedeva ogni volta che cosa mi ‘evocava’ quell’immagine, non parlava di ricordo ma di evocazione, si rimaneva sospesi nell’evocazione e nell’allusione.

L’allusione è l’anima dell’arte, F. Schlegel diceva che ogni opera d’arte è “un’allusione all’infinito […] lo splendore del finito e l’allusione all’infinito scorrono l’una nell’altra”. Non bisogna pensare a una separazione tra sensibile ed intellegibile, comunque si deve pensare a parentele, si dipingono le nuvole per evocare la luna. La luna e le nuvole appartengono allo stesso paesaggio, allo stesso ordine di realtà e non sono lo sdoppiamento le une dell’altra. L’ allusività è il linguaggio privilegiato del sogno che ricorre alla ‘sostituzione’, allo ‘spostamento’ al ‘travestimento’. Quanto poi al rapporto col rimosso, quest’ultimo non affiora mai nella sua evidenza, quello che viene in mente non è mai il rimosso ma qualcosa che gli si avvicina “secondo la modalità di una allusione”, dice Freud. L’ allusività può essere una ricchezza da utilizzare con parsimonia, bisogna sapersi fermare altrimenti prende la piega di una allusività infinita.

“Non riesco a immaginare che sia gradevole vivere senza lavorare, scriveva Freud nel marzo 1910 a Pfister, per me fantasticare e lavorare coincidono, non mi diverto in alcun modo”. È passato più di un secolo e continuiamo sulle tracce di Freud, lavoriamo, fantastichiamo, seguiamo in seduta varie sequenze: quelle dettate dalle parole a cui si affiancano quelle dei sensi, del corpo, delle immagini, sequenze ritmiche, relazionali, ascoltiamo con gli occhi, vediamo con le parole, meditiamo coi sensi.

Le libere associazioni sono forme vitali che fanno riecheggiare linee di significato ma sono anche cose in sé, oggetti presentazionali che si ramificano lungo le sedute, collegandosi l’una all’altra. Alla libera associazione di parole va affiancata una libera sequenza di immagini, un movimento che culmina in un’ulteriore immagine, una forma che ‘presenta’ una realtà psichica in una nuova forma. L’inconscio è una matrice di differenti aree di senso, le sue fonti sono distribuite in più luoghi disseminati lungo tutto l’arco della nostra vita.

La vecchia idea che la vita mentale sia ‘inconsciamente determinata’ è riduttiva e può diventare reazionaria, ci ricorda Bollas. Essa elimina i molti fattori interni ed esterni che contribuiscono a costituire la vita inconscia di ciascuno di noi. Scriveva Freud (1915): “L’Inconscio non è un organo rudimentale, è vivo, capace di sviluppo, di collaborazione […] si lascia condizionare dalle vicende dell’esistenza”. È su questa base che è possibile la cura a patto che l’analista sappia partecipare e coinvolgersi.

 

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[1] Le pagine di questo lavoro sulle costruzioni e le elaborazioni sono tratte dal mio libro Costruzioni e campo analitico (Borla, 1997).

 

Vermeer (1668) Il geografo

Uno stile[1]

Alle libere associazioni dell’analizzando si affianca l’attenzione liberamente fluttuante dell’analista che è l’opposto di fissare un punto con particolare attenzione, che fa correre il pericolo di non trovare mai niente che già non si sappia. L’analista deve essere disposto all’ascolto e a lasciarsi sorprendere a ogni svolta, senza preconcetti e prevenzioni”.

Se nell’analisi non c’è sorpresa e in ciascuno dei due interlocutori, non c’è analisi affatto, “così scrive Fachinelli (2012, 68-9). Freud consiglia di rivolgere il trasmettitore inconscio, il proprio inconscio, come organo ricettore. Essere disponibili significa non sentirsi separati dal fluire del mondo interno sia proprio che del paziente, è questa un ‘ars operandi’ che non separa l’etica e la strategia, la saggezza e l’efficacia. La mente dell’analista non si fissa in modo particolare su un contenuto ma ‘plana’, si rende disponibile, fa sì che la vita psichica fluisca. Ciò non significa debolezza e lasciar fare, saggezza è distinguere i momenti della fermezza e dell’intransigenza e momenti ‘accomodanti’. Si tratta da parte di entrambi (analista e analizzando) di disporsi a possibilità multiple, di disporsi ad ascoltare e udire l’inatteso.

L’analista deve essere allenato al guardare di ‘sbieco’, guardare ‘obliquo’, un guardare che si oppone al metodo che sussume la diversità dei casi sotto la sua generalità, il guardare obliquo al contrario parte da ciò che di individuale e di singolare presenta ogni situazione. Non è forse di sbieco che si dispone, anche fisicamente nella stanza d’analisi, l’analista rispetto all’analizzando? Più che di metodo, meglio parlare di strategia, di mosse impreviste. Abbiamo già ricordato come Freud paragonasse l’analisi al gioco degli scacchi, dove avviato il gioco, è imprevedibile lo svolgimento e l’esito. L’analista (come il maestro con l’allievo) non si sostituisce all’analizzando, incita, promuove ma se è un vero saggio, lascia all’altro il compito della scoperta. L’analista non deve temere ‘l’influenzamento’, Freud nei Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi, dice di preparare l’analizzando con l’istaurazione di una ‘atmosfera di influenzamento’: “Tutta l’abilità del medico consisteva ora nel mettere allo scoperto il più presto possibile queste resistenze, nell’indicarle al malato, e nell’incitarlo ad abbandonarle, grazie all’influenza che un uomo può esercitare su un altro”.

Alcune vite non vanno avanti, non c’è più ‘a-(v)venire’, si sono bloccate per delle ‘fissazioni’ che risalgono all’infanzia, compito dell’analista è promuovere ‘de-fissazioni’, che mettono in moto la vita e la dispongono all’a(v)venire. W. Loch, un importante psicoanalista tedesco, diceva che quello analitico è un sapere che “sostiene l’esistenza”, potrei aggiungere che nutre la vita. La vitalità è bloccata, si tratta di sbloccarla, immettere “viabilità”, là dove si è prodotto un intoppo. È il biologo Francisco Varela che ha coniato il termine bio-etico di viability. Quanto poi a Jullien egli ricorre alla metafora del gregge e del pastore. C’è un pastore che si mette davanti al gregge, cerca di farlo progredire in avanti verso un ‘ideale’. C’è un altro pastore che adotta un’altra strategia, e si mette in coda al gregge e si prefigge il compito di far muovere le pecore in coda al gregge che si attardano e rallentano il gregge.

L’analista non si deve porre nessun ideale per il paziente, non può guidarlo, non può pensare a cosa debba essere la vita del paziente, il suo scopo non è un ideale di vita ma la vita, il suo compito è rimettere in moto la vita che prenderà la sua piega e il suo specifico destino. L’analista deve pensare al suo operare e alla vita come perenne trasformazione. Il suo sapere è un sapere ‘pratico’ che serve a promuovere trasformazioni.

Il paziente con l’aiuto dell’analista deve esercitarsi a regolare la ‘viabilità’ e la ‘vitalità’ con equilibrio e armonia, ma senza tendere ad uno scopo perché la vita tende solo al prolungarsi indefinito del suo processo, tende solo a che il corso si mantenga in corso, che non si irrigidisca e non si fissi. Sappia così l’analista riconoscere le ‘trasformazioni silenziose’ (come le definisce acutamente Jullien) che sono avvenute nel paziente nel corso del tempo e dell’analisi.

Un bel giorno senti che un amore è finito e non sai quando è cominciato a morire; in modo analogo non ci si accorge che i figli crescono e noi stessi non ci vediamo invecchiare. Poiché è ‘tutto’ in noi che invecchia e senza mai fermarsi, è per questo che non abbiamo percezione dell’invecchiamento. In analisi, un bel giorno, il paziente si sente cambiato e sia l’analista che il paziente non sanno dire quando e, soprattutto, come è iniziata la trasformazione che si presenta come una trasformazione silenziosa… È un modo di vedere la cura che non passa attraverso l’avvento di una supposta verità del soggetto; si tratta, ci dice Freud, di trasformare un conflitto patogeno in un conflitto normale.

Bisogna attivare e promuovere, da parte dell’analista e del paziente, un ‘processo’ che opera a nostra ‘insaputa’, al di fuori della nostra coscienza e del nostro controllo, si tratta di rimettere in gioco i diversi aspetti della vita che sono tutti interconnessi tra di loro. Per evitare un’ipostatizzazione metafisica, è opportuno rituffare ‘l’inconscio’ nel processo di trasformazione silenziosa, con il vantaggio di disfare la possibilità di un monolitismo della teoria che minaccia il concetto stesso di inconscio. Bisogna seguire e assecondare il processo come un contadino che trova i tempi e le azioni giuste per far crescere ‘spontaneamente’ una pianta; sarebbe un errore sia abbandonare a se stessa la pianta sia esagerare a curarla, bisogna rispettare i ritmi della terra e ‘mettere a maggese’ (M. Kahn) se serve che la pianta ‘riposi’. Ho precedentemente sottolineato l’estrema importanza dell’elaborazione, un fenomeno lento, inconscio, il più efficace della cura, secondo Freud.

Ci troviamo di fronte ad un processo lento e sommerso, non siamo di fronte alle interpretazioni e alle costruzioni dell’analista, non al cospetto di azioni vistose che, come le interpretazioni mutative di Strachey, hanno sempre qualcosa di miracoloso. Non ci troviamo di fronte a un’azione eroica, l’efficacia si apparenta più all’epopea. L’analista scrivevo in Costruzioni e campo analitico deve saper ‘uscire di scena’; la trasformazione non è da pensare che abbia sede nell’analista, e forse neanche nell’analizzando, ma ’tra ’i due, nel ‘campo’, nello ‘spazio’ che si viene a costituire.

Così come le cose del mondo accadono ‘tra’ la terra e il cielo, così le ‘trasformazioni silenziose’ in analisi avvengono tra il sonno e la veglia, tra il dentro e il fuori. La cura analitica agisce attivando il gioco ‘tra’ analista e analizzando, tra parole e silenzio, tra sonno e veglia. Penso a Donald Winnicott, allo ‘spazio transizionale’ tra madre e bambino, tra analista e analizzando, spazio di ‘gioco’ essenziale alla vita, consustanziale alla vita.

 

Lo spazio analitico

L’’uomo della farfalla’, dopo qualche seduta, fece ritorno al sogno in modo singolare. Da bambino aveva inventato un suo compagno segreto di nome Mario; con Mario parlava e giocava. Mario colmava i momenti di noia e di solitudine. Fu così che da più grande, e poi da adulto, ebbe sempre e gli fece compagnia un amico del cuore, un suo doppio a imitazione di quel doppio che lo aveva salvato nell’infanzia. In seduta si trovò a parlare dei ’grandi amici’ della sua vita e si ricordò e riprese il sogno della farfalla.

“Quell’uomo del sogno mi ricorda Attilio, il mio caro amico del liceo, come eravamo diversi, io ero lo sgobbone che parlava in italiano, lui era aperto, più libero di me, piaceva alle ragazze, era uno spensierato: eravamo amici, poi ci siamo persi di vista, ora sta in Francia, lavora lì; quando ci siamo sentiti l’ultima volta ci siamo ripromessi di ritrovarci, mi farebbe molto piacere”.

Io, mentalmente, ritorno al sogno e penso che, avendolo fatto prima di incontrarmi, si esprimeva in esso una sorta di “pre-concezione” del transfert ed era contemporaneamente anche un incontro con un suo doppio. Quanto poi al paziente, furono queste le associazioni al sogno: “Attilio appare dopo il buio e la ‘strada smarrita’. Penso alla farfalla, nell’antica Grecia psyche era rappresentata come una fanciulla con le ali di farfalla; sui vasi greci psyche era rappresentata come una farfalla”.

Quanto a me mi avvicino alla forma del suo parlare che non era intonato a intellettualizzazione, la sua cultura umanistica (era un letterato) gli serviva per simbolizzare; i garanti meta-psichici erano per lui (e per me) la fonte delle nostre simbolizzazioni. Anche il soffio di vento mi fa pensare a psyche, gli dico, “il respiro è la psyche stessa, thymos, un termine con cui i Greci tentarono di superare la dicotomia tra corpo e anima, la psyche come luogo non separato dal corpo, respiro, materia vivente in movimento, principio di vita”.

Gli parlo in questo modo perché un tempo non lontano il paziente tendeva a privilegiare l’anima e a separare il corpo dall’anima. Luca, il paziente, meditò e dopo una pausa disse: “Penso alla luce del sogno, nella prima parte il buio, quasi totale, nella seconda la luce che filtra…penso alla penombra, a Maria Zambrano, alla ‘penombra venata d’allegria’; “Conosce la Zambrano? ”mi chiese con un lieve tono di sfida che caratterizzava un sottofondo della sua comunicazione con me. “Ne so poco” gli dissi. È una storia commovente: Maria Zambrano era incerta se proseguire nella strada della filosofia, era combattuta tra la chiarezza del suo maestro Ortega y Gasset e l’oscurità di un altro filosofo, Zumiri.

Un giorno, è lei stessa che lo racconta, stava ascoltando una lezione sulle categorie di Aristotele fatta da Zumiri, e in quel momento filtra da una fessura dell’antico edificio un raggio di luce attraverso una tenda nera e la Zambrano in quell’attimo pensa: ‘Una penombra venata d’allegria’, non un concetto ma un’immagine, una luce che le rivelava qualcosa di adatto alla sua personalità e al suo pensiero, la penombra venata d’allegria.

La Zambrano decise così di continuare filosofia, non c’era motivo di interrompere. “Io mi sentii colpito, toccato dalla commozione”. Luca aveva iniziato parlando della nascita di Psyche, aveva poi continuato parlando della Zambrano, per il tramite della Zambrano stava parlando di sé, delle sue due strade, dei suoi tratti di personalità rappresentati da lui e dall’amico Attilio. Per un lungo periodo della sua vita aveva dovuto sacrificare in nome del dovere, del padre e della madre, una parte di sé più libera, contemplativa errabonda, che si esprimeva attraverso lunghe passeggiate che aveva iniziato a fare da un po’ di tempo. Una parte sacrificata al logos e alla parola.

Luca iniziava a ritrovare una strada più autentica, più sua come la Zambrano. Andavo pensando tutto ciò ma tacqui perché mi sembravano cose simbolicamente trasparenti che Luca coglieva, anzi, era stato lui a condurmi lì, a quei pensieri.

Ne ebbi conferma quando Luca mi disse nella conclusione della seduta: “Non so chi l’abbia detto, ma qualcuno ha scritto: ‘Io non so chi abbia tracciato la mia vita, ma so che sono già nel cammino che devo seguire’”. E io conclusi: “Abbiamo entrambi il tic della citazione, ma entrambi citiamo con passione e col cuore”. Ridemmo insieme come due ragazzi, due vecchi amici complici e ci avviammo alla porta.

Tra paziente, analista ed atomi teorici si era andato costituendo uno spazio, lo spazio analitico che ritroviamo fin dall’inizio della nascita della psicoanalisi, la sua forma prototipica è rintracciabile nel momento della ‘invenzione-scoperta’ dell’Edipo durante l’autoanalisi di Freud, seguiamone i movimenti:

Il momento della scoperta matura durante l’estate del 1897 e si esprime in un breve arco di tempo, nell’autunno dello stesso anno. Lo sviluppo avviene in tre tempi segnalati dalle lettere del 21 settembre, 3 ottobre, 15 ottobre.

Nella prima Freud, dopo il noto annuncio (“Non credo più ai miei neurotica”) prova a descrivere i motivi che stanno alla base della sua crisi; come si può notare sono implicati tutti e tre i livelli dell’autoanalisi, della teoria, della terapia.

Dalla lettera del 21 settembre: “Voglio perciò incominciare la storia da principio e spiegarti da dove sono venuti i motivi che mi hanno fatto dubitare. Le continue delusioni nei tentativi di condurre almeno un’analisi a reale compimento, la fuga di persone che per un certo tempo erano state coinvolte come meglio non si poteva, l’assenza dei successi pieni su cui avevo contato, la possibilità di spiegarmi nella maniera usuale, i parziali successi: è questo il primo dei motivi. Poi la sorpresa che in tutti i casi la colpa fosse sempre da attribuire al padre, non escluso il mio, e l’accorgermi dell’inattesa frequenza dell’isteria, dovuta ogni volta alle medesime condizioni, mentre è poco credibile tale diffusione della perversione nei confronti dei bambini (la perversione dovrebbe essere enormemente più frequente dell’isteria, dato che la malattia può instaurarsi solo dove ci sia un accumulo di esperienze e dove sia subentrato un fattore che indebolisce la difesa). Poi, in terzo luogo la netta convinzione che non esista un ‘dato di realtà’ nell’inconscio, di modo che è impossibile distinguere tra verità e finzione investita d’affetto. (Di conseguenza, rimane la spiegazione che la fantasia sessuale si impossessi regolarmente del tema dei genitori). In quarto luogo, la considerazione che anche nelle psicosi più profonde non si fa strada il ricordo inconscio, in modo che il segreto delle esperienze giovanili non si svela neppure nel più confuso stato di delirio. Se dunque si constata che l’inconscio non vince mai la resistenza del conscio, naufraga anche la speranza che durante il trattamento si debba verificare il processo opposto, che cioè il conscio arrivi a controllare completamento l’inconscio. (Freud, 1897, 297-298).

Si assiste a quella che Bachelard (1978) definisce una “caduta di un ostacolo epistemologico”. Alleggeritosi del peso della realtà, il pensiero è più libero di spaziare e i diversi livelli implicati nel processo cognitivo-emotivo subiscono di conseguenza delle sostanziali trasformazioni; la prima si registra nell’autoanalisi: il passaggio dalla realtà materiale a quella psichica, dai ricordi ai fantasmi, apre un varco significativo nello spazio interno e offre nuovi strumenti per l’indagine, come si evince dalla successiva lettera del 3 ottobre: “Attorno a me è cambiato ben poco, ma dentro di me è accaduto qualcosa di molto interessante. Da quattro giorni la mia autoanalisi, che considero indispensabile per chiarire l’intero problema, ha fatto progressi riguardo ai sogni e mi ha dato le conclusioni e le pezze di appoggio più precise […] più tardi (tra i due anni e i due anni e mezzo) la mia libido verso matrem si è risvegliata e certamente in occasione di un viaggio con lei da Lipsia e Vienna, di vederla nudam deve essere accaduto”.

Nasce l’Edipo nell’autoanalisi di Freud. la crisi dei neurotica ha concorso a liberare un frammento di realtà psichica, la realtà materiale dell’evento rimane invece ipotetica e congetturale (‘durante un qualsiasi pernottamento’, ‘In qualche circostanza’, ‘deve essere accaduto’). Di quell’evento al massimo si può dire che “sarà stato”, indicando con il tempo del futuro anteriore sia la natura congetturale ma anche la caratteristica di “temporalità vivente” (Balsamo, Napolitano, 1994) in esso inscritto: l’Edipo non è solo in quella scena supposta e dedotta (scoperta ed insieme inventata) ma anche nel momento in cui Freud la (ri)costruisce, vi è sempre una doppia scena e l’una non è individualizzabile senza l’altra.

La lettera del 15 ottobre segna il terzo tempo, l’ultimo atto della scoperta-invenzione, la trasformazione finale del processo si attua nella teoria: “Mi è nata una sola idea di valore generale: in me stesso ho trovato l’innamoramento per la madre e la gelosia verso il padre, e ora ritengo che questo sia un evento generale della prima infanzia anche se non sempre si manifesta tanto presto come nei bambini resi isterici (analogo al ‘romanzo delle origini’ dei paranoici, degli eroi e dei fondatori di religioni). Se è così si comprende il potere avvincente dell’Edipo re, nonostante le obiezioni che la ragione oppone alla premessa del fato”.

Nasce l’Edipo nella teoria analitica: con un processo di generalizzazione tipico del teorizzare freudiano. Egli passa da un “fatto” singolo (ricavato dalla sua autoanalisi) alla sua universalizzazione.

Ritengo il reciproco rimandarsi e l’articolazione tra (auto)analisi, (ri)costruzione e teoria una caratteristica specifica della conoscenza e della cura analitica, definisco tale esperienza “prototipica” perché la troviamo nella sua fase inaugurale in Freud e la ri-troviamo in ogni analisi come nell’analisi dell’uomo della farfalla e nella fase inaugurale del processo formativo dei futuri analisti.

Come analisti di training e supervisori non è difficile incontrare questo processo circolare. La analisi di allievi in training sono spesso mobilitate, attivate, talvolta profondamente, dall’analisi dei loro primi pazienti (seguiti con il controllo della supervisione); micro o macro trasformazioni in quelle analisi degli allievi possono essere utilizzate, con la mediazione di una teoria anche essa in “training”, per aprire varchi e spazi conoscitivi e trasformativi, prima occlusi, nelle analisi dei loro pazienti.

Pontalis (1977, 215-227) definisce “movimenti” i moti dell’animo dell’analista, si tratta di un processo circolare attivato dal paziente. Questi “movimenti” sono di buon auspicio, sono una prova che l’analisi ha avuto inizio, che l’analista è toccato nel “vivo”. Le analisi di training e le supervisioni possono avere la funzione di tutelare questo processo, non far sottoporre a diniego tali “movimenti” e permettere che l’allievo familiarizzi con essi e possa, terminato il training, con l’aiuto dell’autoanalisi, utilizzarli nel suo lavoro.

Lo schema che ho desunto dal caso dell’uomo della farfalla e rileggendo la scoperta-invenzione dell’Edipo, lo generalizzo come modello dello spazio analitico. Nel sistema analitico isolo tre poli referenti: il polo analista, il polo paziente e il polo teoria: referenti o principi ordinatori. Si potrebbe essere tentati di privilegiare una di queste referenze, includendo le altre due in quella prescelta come principale: autoanalisi e storia del paziente tradotti nel linguaggio referenziale della teoria; oppure teoria e storia del paziente compresi attraverso la referenzialità autoanalitica. Ogni tentativo in una di queste direzioni annulla lo ’spazio virtuale’ che si viene a creare tra questi poli e che possiamo definire ‘campo analitico’. I poli referenti si muovono nello stesso ‘luogo’ che è pertanto un luogo polivalente, nessuno dei poli può essere il referente ultimo, il codice degli altri, mentre ognuno è metafora degli altri, e in quanto metafora, si caratterizza come un sistema di relazioni reciproche.

Non c’è dunque un elemento stabile (autoanalisi, storia del paziente, teoria) che ferma questo reciproco riferimento e che attribuendo a un polo il valore di verità, assegni agli altri una funzione di immagine, sostituto, effetto.

Nel definire il campo analitico come spazio virtuale, ho in mente una rappresentazione fantastica tratta dall’ottica: immagino la relazione analitica come uno strumento ottico: paziente, analista, teoria, come ‘lenti riflettenti’, lo ‘spazio analitico’ è virtuale, perché corrisponde ad una ‘località’ virtuale situata all’interno dell’‘apparecchio’ e come tutti gli strumenti ottici (compreso l’occhio umano) trattasi di una località ideale, e non materiale ma essenziale alla visione.

Lo spazio analitico è lo sfondo su cui vediamo svolgersi gli eventi e i mondi dell’analisi, eventi e mondi altrimenti ‘invisibili’ che si rendono visibili nello spazio analitico. La situazione analitica permette così alla realtà psichica di rappresentarsi, una realtà che, sia nella forma originaria che nella forma del suo rivelamento nello spazio analitico, non è circoscrivibile allo psichismo individuale, dal momento che si costituisce e si svolge sempre, fin dall’inizio, in uno spazio relazionale.

Lo studio delle immagini è lo studio dell’uomo: nello spazio analitico si assiste al trionfo del pensiero per immagini, a partire dal sogno che è un ambito nel quale l’essere umano ci appare come il luogo naturale delle immagini. Il sogno con le sue immagini ci mette in contatto col mondo infero, col mondo dei morti, con i quali attraverso il sogno dialoghiamo; sono richiamati in vita démoni e demòni, cose, luoghi e persone che sembravano dimenticate. Si costituiscono simboli che sorgono autopoieticamente dal profondo, il linguaggio solo in parte vi concorre, questi simboli mediano passaggi della vita e dell’analisi, ostinarsi a decodificarli mediante il linguaggio, a ridurli a ipotetiche unità prime, serve solo a distruggere la loro funzione di mediazione.

Il simbolo apre al futuro. I simboli onirici non sono solo da decifrare come tracce del passato ma anche come promesse del futuro. La formazione simbolica che precede il linguaggio è una funzione innata della mente. Non bisogna pensare solo ai simboli artistici ma a tutti i simboli creati nella vita di un individuo. I simboli sono comunicati agli altri e hanno, come nella comunicazione analitica, una finzione ‘generativa’ che attiva ulteriori simboli nella persona alla quale è indirizzato il simbolo. Coleridge (1816, 23-24): “Ogni principio vivente è attuato da un’idea e ogni idea è vivente, produttiva, partecipa all’infinito, e contiene un potere infinito di inseminazione”.

Non credo tanto al potere del linguaggio, quanto piuttosto con fido nel figurabile, tracce, immagini, fantasie, sogni: il rapporto del visivo con l’inconscio non è contingente ma essenziale, non un luogo della parola ma un luogo della visione e dell’immaginazione.

“L’immaginazione non è uno stato mentale, è l’esistenza umana stessa”. Così scrive William Blake, l’immaginazione è fondamentale nella relazione analitica, ne parlano psicoanalisti di differenti indirizzi. Secondo Ogden (2005), non sapere è una precondizione per essere in grado di immaginare. La capacità immaginativa nel setting analitico è niente meno che sacra.

L’immaginazione tiene aperte molte possibilità che possono essere sperimentate, sotto forma di pensare, giocare, sognare e in ogni altra forma di attività creativa. Fedida (2009, 52)Il ruolo dell’analista è quello di immaginare, altrimenti si è perduti: non immaginarlo è non considerare che ha avuto luogo. “Hillman: […] le parole e le immagini sono proprietà immediate dell’immaginazione, che può a sua volta visualizzarle […]. L’intera attività terapeutica è in fondo questa sorta di esercizio immaginativo”.

Con Andreina Fontana titoliamo un nostro libro Immaginando (2010)[2] perché crediamo al movimento del prodursi delle immagini, al processo del farsi e disfarsi, dissolversi per poi riapparire: le immagini non si fermano, si trasformano, un movimento che viene dall’inconscio e che contribuisce a creare, costruire il mondo che viviamo, ci aiuta ad abitarlo; l’immaginando è per noi un’esperienza vitale e insieme una forma di conoscenza.

Tornando allo spazio analitico, quando parlo dell’autoanalisi parto dalla considerazione che il contro-transfert non è ‘contro’ il transfert ma si accompagna al transfert, si affianca a esso, ne segue i movimenti. Collego autoanalisi e controtransfert perché ritengo che l’autoanalisi non debba essere considerata una ‘irregolarità’ di Freud dovuta a una contingenza storica: ci fu autoanalisi perché non c’era un altro analista. Credo, invece, che l’autoanalisi debba essere interpretata come una caratteristica basilare, ‘prototipica’ dell’esperienza analitica. La contemplazione del controtransfert rappresenta la reintegrazione sistematica nel movimento analitico di quella finzione, l’autoanalisi, che era stata esiliata.

Circa poi la teoria, penso ad una teoria che viene dal basso. Atomi teorici, seguendo moti inconsci e preconsci, modellano un’interpretazione. Aulagnier parla di ‘teorizzazione fluttuante’, una teoria che sappia accogliere i movimenti, le crisi, le accelerazioni della vicenda analitica.

Penso ad una teoria ‘incarnata’ che si fa ‘carne’ nella vita dell’analista. Ogni analista nel corso della sua esistenza, a contatto con la vita dei pazienti e col divenire della propria vita organizza pensieri che possiamo definire teorici, che scaturiscono dalla pratica e dall’esistenza e non si sostituiscono all’esperienza, teorie che evolvono con l’esperienza dell’analista, ma non si sostituiscono al sempre nuovo dell’esperienza: la nostra competenza sulla e della psyche non esiste come dato immutabile. Essa va sempre messa alla prova e rinnovata a ogni paziente e a ogni svolta della vita.

Lo spazio analitico definisce uno scenario ma non gli oggetti e i personaggi che l’andranno a occupare. La situazione analitica è una ‘macchina acchiappa fantasmi’ (Traversa), è un campo di ‘inter-fantasmizzazione’ tra analista e paziente (Thanopulos, 2003). È un luogo di immagini, parole, ritmi, palpiti, paure, gioie; è un luogo di meditazione, di silenzio, di speranza, di passato, di futuro.

Con Pia De Silvestris e Adamo Vergine ho condiviso anni di ricerca fin dall’inizio degli anni ottanta, anni che ci videro uniti nella formazione e formulazione del concetto di ‘relazione analitica’. Dei loro libri, Prendersi cura (2012) mi affascina in modo particolare. In esso gli autori testimoniano della centralità, in psicoanalisi, del concetto di vita che, come un filo rosso, attraversa e tesse l’intero testo e gli dà senso, se assumiamo il concetto di vita (unità bio-psichica che riceviamo in eredità genetica e fantasmatica) ne discende che anche l’incontro analitico è attraversato dalla vita: un’analisi alimenta un temporaneo intreccio di due vite, quella dell’analista e quella dell’analizzando. Di questo ‘chiasma’ (Chianese, 1994)[3] parlano in modo poetico e profondo De Silvestris e Vergine.

È passato più di un secolo ma la psicoanalisi sembra essere ai suoi primi passi; c’è ancora da imparare. Penso sempre più a una psicoanalisi al servizio della vita che ne sappia avvertire il ‘soffio’, seguirne i movimenti, le crisi, le gioie, che sappia ascoltare i ‘rumori della vita’.

“Il genio di Freud non è quello dell’espressione filosofica esauriente. Esso consiste nel contatto con le cose, nella percezione polimorfa di parole, di atti, di sogni, del loro flusso e riflusso, di contraccolpi, di echi e di sostituzioni, di metamorfosi. Freud è sovrano in questo dominio dove si ascoltano i rumori della vita […] questa prodigiosa intuizione di scambi, scambio dell’anima e del corpo, dell’immaginario e del reale, questo universo di promiscuità” (Merleau-Ponty, 1960). In analisi si è attratti e guidati da una verità che supera l’intelletto e la coscienza e la stessa ricerca scientifico-problematica, per affondare le radici nel territorio buio dell’ignoto e dell’inconscio, al fine, di un contatto asintotico con una sfera complessa e caotica, densa di esistenza e realtà insieme che lega il corporeo e il mentale, l’antropico e l’animale, la dimensione fisica e quella biologica, il reale e l’immaginario, l’individualità e la pluralità, la permanenza e il cambiamento (Corrao, 1993, XI-X II).

 

Il congedo

‘L’uomo della farfalla’ concluse l’analisi con questo sogno, anch’esso attraversato dalla bellezza e dal futuro:

“Lasciato dal mare su quella grande scogliera, il grande tronco bianco di un albero, con la forma di una grande “C”. Mi hanno sempre colpito, commentò, i tronchi d’albero portati dal mare, trattengono storie centenarie, lontananze, naufragi, popoli e genti … il caso, le correnti che un giorno, non si sa quando, hanno donato alla terraferma quel pezzo di vivente, proveniente da un’altra lontana terraferma, un tronco che ha attraversato i mari, un albero è una storia. Vedevo dunque nel sogno quel tronco bellissimo sulla scogliera, era un albero ‘morto’ ma era indubbio che conteneva vita, una lunga vita, era un pezzo di vivente, nel sogno pensavo che bastava un gesto per farlo diventare un’opera, bastava un’artista, un gruppo di artisti per tirar su il tronco e fissare la base con un blocco di cemento, niente altro, quel tronco sarebbe diventata un’opera”. La scena cambiava, è come se l’opera fosse avvenuta. Quel tronco si ergeva fiero degli anni, si volgeva verso il mare, verso l’immensità del mare”. Al sogno fece seguito un silenzio meditativo, interrotto dalle parole di Luca: “Quella scogliera mi può ricordare la scogliera a Napoli, dove si prendono i traghetti per Procida, l’isola della mia zia amata nell’infanzia. Quella grande C aveva lo sguardo rivolto verso l’isola, era un ponte tra la terraferma e l’isola, Napoli e Procida, ma era anche il segno di una distanza, una lontananza, un addio”. Seguì un lungo silenzio, poi parlò: “Quanto tempo è passato … un arco, questo segno che mi insegue dall’inizio dell’analisi e che ora raggiunge il suo compimento; penso ad Orfeo, al corno che è arco e cetra. Arco perché è volontà, determinazione, forza; cetra perché è musica, parola musicante, poesia.

“Il sogno e le associazioni parlavano da sole e io tacqui, tenni per me (perché mi sembrava un sentimento narcisistico) il pensiero che la C (segno apparso in più sogni) potesse essere anche la lettera iniziale di Chianese. Me lo tenni per me, perché sentivo che era come volessi mettere anche io la firma a quel sogno di trasformazione. Tacqui perché quello era il sogno di Luca e quella la sua vita, io ero stato un buon compagno di viaggio e avevo ricevuto da lui tanto, alcune cose essenziali per la mia vita interiore”. Era giunto il momento di “uscire di scena”.

Ci lasciammo e per tanto tempo non seppi nulla di lui. Si fece vivo inaspettatamente dopo due anni con una lettera in cui mi diceva che la sua vita scorreva serena, a tratti felice, mi inviava una poesia che parlava di un tronco bianco di un albero lasciato dal mare su una scogliera. Fui felice di sentirlo felice. Provai anche un senso di dolce malinconia per le cose belle che passano, la vita che scorre ma sentii anche di non indugiare e tantomeno coltivare quei pensieri di perdita: la caducità delle cose, Freud ci insegna, prepara l’inatteso, l’inedito, la bellezza imprevedibile del futuro che verrà…c’est la vie!

Che senso ha scrivere una “storia clinica”? Non significa solo obiettivare, documentare nella cornice, pur essenziale, di una disciplina scientifica. I nostri racconti hanno anche il valore di testimonianza, se non di riscatto, di quella storia segreta a cui abbiamo il privilegio di avere accesso, di cui noi analisti siamo i funtori e di cui lentamente diventiamo attori. Narrare è dunque uno strumento indispensabile per mettere in discussione ogni volta il regime di univocità nel quale i sistemi teorici chiusi e logicizzanti vogliono costringere la manifestazione della vita umana.

Forse c’è bisogno di una rinuncia, la rinuncia al Metodo unico, alla teoria unificante senza, per questo, dover e poter rinunciare ad una tensione metodologica e teorizzante che nasce con l’uomo.

Nel lontano 1966 così Foucault parlava della psicoanalisi: “La psicoanalisi non può dispiegarsi come pura conoscenza speculativa o teoria generale dell’uomo. essa non può traversare l’intero campo della rappresentazione, cercare di aggirarne i confini, volgersi al più fondamentale, nella forma di una scienza empirica edificata a partire da osservazioni accurate: questo varco può trovare compimento solo all’interno di una pratica coinvolgente non soltanto la conoscenza che si ha dell’uomo, ma l’uomo stesso, l’uomo con la Morte che opera nella sua sofferenza, con il Desiderio che ha smarrito il proprio oggetto, e con il linguaggio in virtù del quale, attraverso il quale, la sua Legge silenziosamente si articola. Ogni sapere analitico è pertanto invincibilmente legato a una pratica, alla strozzatura del rapporto tra due individui, l’uno dei quali ascolta il linguaggio dell’altro, affrancandone in tal modo il desiderio dall’oggetto che ha perduto (facendogli intendere che l’ha perduto) e liberandolo dalla prossimità costantemente ripetuta della morte (facendogli intendere che un giorno morrà)”.

A distanza di tanti anni è pienamente condivisibile questa opinione, che può apparire addirittura predittiva, considerando gli sviluppi e gli approdi della psicoanalisi contemporanea, a patto di non considerare l’analista come un “soggetto supposto sapere” a cui è già noto, prima dell’avventura dell’analisi col paziente, cosa sia il Desiderio, la Legge, la Morte.

Penso piuttosto con Bion che solo ciò che è in comune tra analista e analizzando, può essere oggetto d’analisi. Soltanto là, dove i loro due sguardi si incontrano, al confine tra visibile ed invisibile, si può scoprire un pezzo di verità. Il visibile e l’invisibile vanno così a costituire un intreccio, un ‘chiasma’, come lo ebbi a definire negli anni della mia lontana giovinezza.

 

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[1] Questa sezione del lavoro si ispira al libro del sinologo francese F. Jullien (2014) Cinque concetti proposti alla psicoanalisi. Milano, La Scuola.

 

[2] D. Chianese, A. Fontana Immaginando, Milano, Angeli, 2010.

 

[3] Chianese D, (1994) “Il chiasma”, Riv.Psicoanal., 3.:517-531.

 

Domenico Chianese (Roma)

Centro Psicoanalitico di Roma

d.chianese@libero.it

*Per citare questo articolo:

Chianese D, (2024) “Il fattore umano”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 91-128

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