Oltre l’inconscio dinamico

di Franco De Masi

(Milano) è membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytic Association. È psichiatra e ha operato a lungo nell’istituzione psichiatrica, occupando anche il ruolo di dirigente di un servizio di cura. Ha assunto nella SPI numerosi incarichi, tra cui quello di Presidente del Centro Milanese di Psicoanalisi e di Segretario della Sezione Milanese dell’Istituto Nazionale di Training. Ha sviluppato un pensiero originale su tematiche come la perversione e la psicosi. Autore di numerosi articoli, capitoli di libri e libri tra cui: La perversione sado-masochistica, Karl Abraham. Alle radici della teoria analitica, Il limite dell’esistenza (2002), Vulnerabilità alla psicosi (2006), Lavorare con i pazienti difficili (2012), Psicopatologia e psicoanalisi clinica (2016), Svelare l’enigma della psicosi. Fondamenti per una terapia analitica (2018).

*Per citare questo articolo:

De Masi F., (2024) “Oltre l’Inconscio.”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 35-61

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Le basi inconsce del pensiero intuitivo

Il lavoro clinico dell’analista consiste nell’intuire un legame tra un insieme di dati sensoriali, immagini, parole, ricordi o emozioni, apparentemente slegati e privi di significato. A un certo punto nella sua mente si forma un pensiero che unifica queste associazioni, apparentemente casuali, e che è possibile comunicare al paziente, che in tal modo comprende una verità psichica sino ad allora rimasta celata.

L’interpretazione analitica è frutto di un’operazione che nasce inconsciamente dopo un lungo soggiorno nel dubbio esplorativo e si presenta come un’intuizione dotata di evidenza e di verità. Dato che il processo è prima di tutto inconscio, è possibile solo a posteriori ricostruire il percorso e la catena associativa che hanno permesso la nascita di un tale pensiero. La nuova intuizione, inevitabile e confortante allargamento della visione e della conoscenza, ha bisogno di una lunga incubazione ed è un processo che è stato paragonato a un lampo di luce tra due tenebre.

 

Il nostro metodo d’indagine non diverge sostanzialmente da quello delle altre scienze. Infatti, l’individuazione delle funzioni intuitive dell’inconscio nei processi di pensiero è stata fatta anche da studiosi lontani dalla psicoanalisi, ad esempio i matematici, che non hanno di certo come riferimento l’inconscio descritto da Freud.

Einstein nella sua Autobiografia scientifica ci dice: “Per me è fuor di dubbio che il nostro pensiero procede per la maggior parte senza l’impegno dei segni e, inoltre, in misura notevole, inconsciamente” (Einstein, 1949, pag. 54).

 

Un’altra affermazione sul lavoro inconscio della mente è stata fatta dal grande matematico Poincaré: “L’Io inconscio non è puramente automatico, è capace di discernimento, ha tatto e delicatezza; sa scegliere, sa indovinare meglio dell’Io cosciente, perché riesce là dove questi fallisce” (1908, pag. 47).

 

Secondo Jacques Hadamard (1945), altro studioso che ha approfondito i percorsi intuitivi della conoscenza, l’inconscio ha l’importante qualità di essere molteplice e in esso diverse e probabilmente numerose cose possono aver luogo simultaneamente. Ciò in contrasto con l’Io cosciente che è unitario. L’invenzione e la scoperta avvengono con la combinazione delle idee in uno stato di attenzione fluttuante, e come dice Soriau (citato da Hadamard): “Per inventare, bisogna pensare a parte”.

 

La scoperta freudiana dell’inconscio dinamico, sistema articolato e complesso che per mezzo della rimozione sottrae alla consapevolezza idee, affetti ed emozioni incompatibili con la coscienza, è stata un’intuizione straordinaria.

Introducendo il metodo delle libere associazioni per superare la rimozione, Freud ha intuito che, per far nascere una nuova idea, oltre a una discreta costanza dell’attenzione, occorre liberare la mente da immagini mentali preformate. In sostanza, il lavoro intuitivo avviene per mezzo di associazioni libere da preconcetti.

La sua raccomandazione all’analista di essere come uno schermo opaco e l’avvertimento di Bion di essere senza ricordo o desiderio significano che l’interpretazione analitica, che origina dall’inconscio, è possibile solo quando ci si è allontanati da tutte le immagini mnestiche e dai desideri coscienti.

 

Se è vero che esiste una similitudine tra l’intuizione del matematico e quella dell’analista, è altrettanto vero che il lavoro intuitivo del matematico si rivolge a un oggetto costante e riproducibile, mentre quello dell’analista è rivolto alla realtà psichica soggettiva, instabile e magmatica, che richiede un enorme lavoro per modificare proprio le strutture inconsce che impediscono il lavoro intuitivo.

 

Gran parte del processo analitico si basa sul lavoro interpretativo, cioè su quella operazione mentale che permette all’analista di dare al paziente una traduzione significativa del materiale inconscio o sognato. In altre parole, l’analista è in grado di cogliere il significato inconscio della comunicazione del paziente e di formulare la verità psichica di cui l’analizzato non è consapevole, di cui diventa consapevole proprio mediante il lavoro intuitivo.

Sono convinto che il lavoro interpretativo serva a raggiungere lo scopo fondamentale per lo sviluppo psichico dell’analizzando, che è il potenziamento delle sue funzioni intuitivo-emotive inconsce.

 

L’interpretazione è sempre stata lo strumento principale del nostro metodo. Sin da allievi nei nostri Istituti siamo stati addestrati a interpretare il materiale della seduta in modo simbolico per far emergere la comunicazione inconscia del paziente. Occorre sottolineare che la rimozione non solo rende inconscio ciò che non è accettato dalla coscienza, ma inibisce anche la percezione intuitiva della propria realtà psichica se, ad esempio, questa non coincide con le aspettative familiari o dell’ambiente. Utilizzando interpretazioni per far emergere ciò che è stato represso o scisso e potenziando alcune funzioni vitali inconsce, il paziente viene aiutato a sviluppare una personalità più integra e completa e a percepire l’autenticità del proprio essere.

  

Il concetto di scissione, introdotto da M. Klein, ha affiancato la rimozione e provocato una modificazione della tecnica, che si è concentrata soprattutto sul recupero delle parti della personalità scisse e proiettate. Il fatto che l’analista sia il destinatario delle proiezioni e delle parti scisse in questo tipo di tecnica ha reso più importante l’hic et nunc rispetto alla ricostruzione del passato. Attraverso una sistematica analisi del transfert, l’analisi kleiniana classica si propone di aiutare il paziente a recuperare un’immagine del mondo interno in cui prevalgano gli aspetti libidici e relazionali. Gli aspetti libidici possono venire in luce solo quando si siano recuperate le parti scisse del sé, parti indesiderate riguardanti distruttività e invidia inconsce, e siano messi in atto i processi riparativi.

 

L’operazione interpretativa, or ora descritta molto sommariamente, per essere utile ed efficace presuppone che nel paziente esista il funzionamento dell’inconscio dinamico, ossia di quell’apparato articolato e complesso che presumiamo esista in ogni paziente. In questo caso l’inconscio dinamico farebbe parte della dotazione comune di ogni psiche e, mediante questa funzione, il paziente in analisi sarebbe in grado di usare la mente in modo intuitivo, di fare i sogni e di diventare consapevole del passato rimosso e delle emozioni che regolano il suo stato d’animo.

 

Questo tipo di credenza, assai diffusa in modo implicito nella comunità analitica, mantiene la sua validità per alcuni pazienti. Per altri, invece, che sono carenti delle funzioni intuitive proprie di un inconscio riflessivo e simbolico, le cose vanno diversamente; ci sono pazienti che non hanno la capacità di registrare e poi di rappresentare i propri stati mentali e non sono in grado di percepirsi come individui dotati di un’identità personale. In altre parole non sono capaci di associare e di seguire il metodo analitico come l’analista si aspetta.

            

Inconscio e inconsapevole.

Nel 2000 ho pubblicato nell’International Journal of Psychoanalysis un lavoro dal titolo Unconscious and Psychosis.

Il mio contributo partiva dal presupposto che l’inconscio non fosse una struttura unitaria e che i diversi modelli analitici facessero riferimento a realtà inconsce diverse contemporaneamente funzionanti.

Distinguevo un inconscio dinamico freudiano, fondato sul conflitto tra pulsione e cultura, e un inconscio kleiniano, che integra il primo con la nozione di fantasia inconscia e di scissione dell’oggetto.

Passavo poi a Bion, con il suo inconscio non più luogo della rimozione, ma depositario della funzione inconsapevole della mente capace di metabolizzare pensieri e emozioni.

Sottolineavo il fatto che nel pensiero di Bion l’inconscio perde il significato ontico di luogo, ossia non è più uno spazio per depositare il rimosso ma diventa una funzione della mente, per cui anche il pensiero diventa il prodotto di un’operazione inconscia. Il sogno è una comunicazione intrapsichica, e non solo una narrazione da interpretare, attraverso cui l’inconscio fornisce elementi simbolici e immaginativi che permettono il pensiero.

Pertanto per Bion l’opposizione non è tra inconscio rimosso (Freud) o scisso (Klein) e conscio, ma tra conscio consapevole e inconsapevole.

 

Credo che a questo punto sia utile fare una distinzione tra inconscio e inconsapevole, due aree psichiche che sono spesso considerate identiche.

Inconsce sono quelle esperienze psichiche che non hanno accesso alla coscienza a causa della rimozione o della scissione, ma che possono essere rese consce per mezzo del lavoro analitico utilizzando le libere associazioni e interpretando i sogni.

 

Accanto all’inconscio rimosso c’è la vasta area dei processi inconsapevoli, essenziali per sostenere la vita psichica, che operano senza essere conosciuti. L’attività del pensiero, la percezione delle emozioni, l’intuizione e la capacità simbolica fanno parte di queste attività che lavorano di là dalla consapevolezza e inaccessibili alla coscienza.

 

L’ipotesi avanzata nel mio lavoro del 2000 è che il disturbo psicotico non riguarda l’inconscio dinamico ma nasce da un profondo disturbo dell’inconscio ricettivo–emotivo, ossia di quelle funzioni che servono per la comunicazione intrapsichica e relazionale e che costituiscono la coscienza inconsapevole del sé.

 

È dunque importante che al campo dell’inconscio dinamico si affianchi lo studio delle funzioni di base del pensiero e delle emozioni, ossia a quei processi psichici originari che si formano prima del linguaggio e della comunicazione verbale.

Queste funzioni, che fanno parte del grande regno dell’inconsapevole, funzionano in collaborazione con l’inconscio dinamico e anzi ne permettono lo sviluppo e lo sostengono. Le funzioni inconsapevoli di base non sono presenti all’inizio della vita, ma si strutturano subito nelle prime relazioni emotive e durante la crescita.

 

Uno dei contributi analitici più rilevanti degli ultimi decenni è stata la rivelazione che il pensiero intuitivo-emotivo, che sta alla base della consapevolezza, si sviluppa solo se il bambino riceve risposte empatiche da parte dell’oggetto primario; mi riferisco alla ricettività della figura materna alle prime proiezioni comunicative del bambino. Grazie al fatto di essere trattato come una persona, il bambino si inserisce gradualmente nel mondo umano dei significati e diventa a sua volta un essere capace di dare senso alle proprie esperienze, di comprendere i propri simili e di comunicare con essi.

 

Beebe, Lachmann, Jaffe (1997) hanno fatto luce sulle strutture interattive precoci che originano dai modi con cui madre e bambino comunicano emotivamente nel corso del primo anno di vita, prima dell’uso della parola. Le loro reciproche interazioni organizzano l’esperienza emotiva e creano dei pattern che il piccolo impara a riconoscere, attendere e ricordare. Tali esperienze diadiche costituiranno più tardi le strutture organizzative inconsce che sono alla base della personalità. Gli autori si riferiscono a un inconscio “preriflessivo” piuttosto che a quello dinamico; essi ritengono che le prime esperienze strutturanti la mente del neonato vengano simbolizzate soprattutto in questo sistema di rappresentazioni non verbali. Bisogna ricordare che queste ipotesi sull’esistenza di un inconscio pre-riflessivo erano state avanzate anni prima da Bowlby che ha chiamato queste strutture dinamiche originarie MOI, modelli operativi impliciti (1969).

 

Se i primi elementi delle funzioni del pensiero inconscio si creano all’interno del rapporto con menti ricettive, ne deriva che, quando il bambino è esposto a traumi affettivi continuativi o a gravi carenze relazionali, le funzioni intuitive inconsapevoli e lo stesso inconscio dinamico non possono svilupparsi. Ci troviamo pertanto di fronte a persone prive di quelle funzioni necessarie alla vita psichica e alla comprensione del sé. Queste persone mancano anche della dimensione relazionale dell’inconscio, ossia della funzione intersoggettiva che permette alla mente inconscia di comunicare in maniera interattiva con un’altra mente.

 

Come ho detto prima, perché l’inconscio dinamico si affermi nella psiche, devono svilupparsi prima le strutture mentali intuitive che derivano dall’esperienza di avere avuto una base emotiva sicura con un oggetto emotivamente sensibile.

La mia ipotesi è che alla base delle psicopatologie più complesse esista un deterioramento delle funzioni inconsapevoli ricettivo-emotive, quelle stesse che l’individuo comincia ad acquisire nelle prime relazioni dopo la nascita. Queste strutture emotive di base costituiscono un sapere implicito, che funziona come una memoria procedurale necessaria per le esperienze relazionali e per lo sviluppo dello stesso inconscio dinamico.

 

Funzioni inconsapevoli e inconscio dinamico (rimosso) lavorano in parallelo; infatti, prima di essere rimossa, un’emozione deve essere colta e registrata da un ricettore psichico. In altre parole, l’inconscio dinamico può rimuovere l’affetto incompatibile solo dopo che questo sia stato colto dai ricettori emotivi. Noi prima registriamo le emozioni inconsapevolmente, e poi le rendiamo inconsce. Quando manca un apparato ricettivo per registrare le emozioni, come avviene in alcuni pazienti, non è possibile neppure rimuoverle per renderle inconsce e poi rappresentabili.

 

È possibile quindi pensare che il lavoro interpretativo, che porta alla comprensione del significato inconscio delle comunicazioni e dei sogni, come prospettata da Freud, sia possibile quando il paziente usa la mente in modo appropriato, cioè quando il suo inconscio dinamico e simbolico è in grado di funzionare. Con i pazienti difficili o gravi non è possibile usare questo metodo associativo, e pertanto dobbiamo rivolgerci a loro con altri strumenti.

 

Nello stato psicotico, ad esempio. la psiche perde la funzione intuitiva e lavora come un organo sensoriale, creando immagini o narrazioni vissute come reali. L’eccesso di sensorialità non permette di “pensare a parte”, come ha detto il matematico Soriau, e non c’è spazio per il lavoro associativo-intuitivo, che è possibile solo in un campo libero da stimoli sensoriali. In questo caso lo strumento interpretativo non solo non è indicato, ma spesso è addirittura iatrogeno perché provoca confusione e gravi impasse.

Porterò più avanti un esempio clinico di questa situazione.

 

Con questi pazienti non si lavora sulle difese o sulla rimozione per far emergere la verità psichica, si deve invece promuovere lo sviluppo della capacità di pensare e di vivere le emozioni. Si tratta, in altre parole, di permettere lo sviluppo delle funzioni inconsapevoli del pensiero e dell’emotività che si sono arrestate nell’infanzia a causa di traumi emotivi o carenze ambientali.

 

Si potrebbe affermare che ci sono due concetti di base che permeano i vari orientamenti psicoanalitici. Il primo è quello della scoperta così come è stata prospettata da Freud: era importante, nella sua visione, far emergere quanto si celasse nel discorso manifesto, andare a scoprire la verità psichica nascosta nell’inconscio.

Il secondo orientamento è quello della costruzione e dello sviluppo. In questa seconda visione il percorso analitico corrisponde a un’acquisizione di competenze e funzioni che non si sono mai sviluppate in precedenza. Già Melanie Klein aveva aperto questa strada quando aveva prospettato l’importanza di reintegrare le parti scisse della personalità del paziente. Solo con Bion la teoria analitica fa un deciso passo in avanti verso la concettualizzazione dello sviluppo psichico ed emotivo come scopo della cura. Lo fa mettendo al centro del lavoro analitico il contributo e la risposta arricchente dell’analista e l’interiorizzazione della stessa da parte del paziente.

 

 

Non sono solo i traumi ambientali originari a impedire lo sviluppo delle funzioni intuitivo-emotive di base; a queste dobbiamo aggiungere, con le loro ramificazioni patogene, le varie strutture psicopatologiche (perverse, psicotiche, melancoliche, narcisistiche e grandiose) che contribuiscono a bloccare lo sviluppo psichico o a deviarlo.

Su un terreno così complesso l’analista deve lavorare a lungo per favorire lo sviluppo della parte sana e intuitiva della personalità, sapendo che in alcuni casi, quando il trauma emotivo originario e le successive costruzioni patologiche hanno causato danni difficilmente reversibili, il recupero non potrà che essere lento e parziale.

 

La simbolizzazione

Dominique Scarfone (2013) ha scritto sul processo simbolico un interessante lavoro da titolo From traces to sign: presenting and representing.

L’autore ha ripreso il contributo fondamentale di Charles S. Peirce, il fondatore della semeiotica, che si è interessato ai segni come rappresentazioni di un oggetto. Pierce ha distinto tre tipi di segni: l’icona (che si basa sulla somiglianza), l’indice (che si basa su un collegamento fisico o causale), e il simbolo (che si basa su una convenzione o su un uso comune).

Le icone e gli indici hanno un collegamento formale o sensoriale con le cose che rappresentano, mentre il simbolo è un segno astratto, convenzionale, che ha perso ogni collegamento con l’oggetto rappresentato. La parola è il miglior esempio di simbolo.

 

Scarfone nota che l’apparato psichico si serve di icone, di indici e di simboli linguistici per pensare, per rappresentare e per ricordare. Si potrebbe parlare di questa parte della psiche come di mente pensante, mentre quella non pensante funziona con l’azione e senza l’uso dei segni.

È evidente che nel processo primario prevalgono le icone e gli indici, mentre nel processo secondario è prevalente il pensiero astratto, cioè il simbolo. Qualcosa di simile avviene nei sogni, dove prevalgono le icone e gli indici, ossia i segni che hanno una somiglianza e una connessione con ciò che viene rappresentato.

 

È possibile pensare che nella psicosi manchi il segno più evoluto, il simbolo, e prevalgano i segni più sensoriali come l’icona e l’indice.

Nell’esperienza delirante, infatti, le parole non hanno più il significato simbolico e sembrano regredite al livello di indici o di icone. Probabilmente il segno come icona o come indice si avvicina all’equazione simbolica descritta da Hanna Segal (1957).

 

Ad esempio, in un mio paziente, nel corso di uno strutturato delirio di persecuzione nei confronti degli arabi, il semplice uso della parola petrolio in una conversazione suscitava in lui la certezza che chi aveva pronunciato tale parola fosse d’accordo con gli arabi, responsabili di ordire un complotto per ucciderlo. In questo caso la parola aveva perso il significato di simbolo e aveva assunto un alone di indeterminatezza più simile all’indice o all’icona, in cui sono conservati i rapporti di somiglianza, contiguità, e sensorialità tra gli oggetti.

 

L’alone semantico che ho appena descritto con l’uso di “petrolio” si riferiva alla difficoltà di dare un significato alla parola collocandola nel contesto della frase. Infatti, il mio paziente cercava un significato in base alle associazioni che la parola evocava, ma nel suo caso si trattava di un delirio sensoriale che costruiva una nuova realtà. In questo caso la parola perdeva il significato simbolico e scatenava l’intuizione delirante.

 

Come si vede, richiedere libere associazioni a un paziente di questo tipo è controindicato perché si stimolerebbero immagini sensoriali di realtà “nuove”.

Nello psicotico la realtà sensoriale sfugge alla rappresentazione e si presenta come illuminazione, una percezione assoluta; non viene per questo esaminata e sottoposta al dubbio esplorativo come avviene con un’esperienza psichica che richiede di essere rappresentata, esaminata e compresa.

 

La non rappresentabilità

L’inconscio dinamico opera mediante la rimozione e perciò i suoi contenuti sono rappresentabili. Il processo di rappresentazione è spesso affidato al lavoro del sogno, che esprime in forma simbolica ciò che è stato rimosso o non è ancora conosciuto.

Se la rimozione può essere considerata un modo per ostacolare temporaneamente la rappresentabilità di un fatto psichico, il sogno invece è un processo in cui il contenuto rimosso riemerge e può essere rappresentato, vissuto e compreso.

 

Molti anni fa il filosofo Brentano (1874) aveva affermato che, ovunque c’è un atto psichico, c’è una conoscenza che lo accompagna; l’atto contiene, oltre alla relazione con l’oggetto primario, anche se stesso in quanto rappresentato e conosciuto. Brentano evidenzia così il ruolo della conoscenza inconscia, ossia della presenza nella coscienza di parti non consapevoli, un concetto che si avvicina molto al conosciuto non pensato di Bollas (1987).

 

Questa conoscenza inconscia corrisponde alla funzione auto-riflessiva, ossia all’attività inconsapevole di osservare i propri processi psichici. Il pensiero si accompagna sempre a una consapevolezza; per questo siamo coscienti di quello che pensiamo e possiamo registrarlo e memorizzarlo. La conoscenza inconscia corrisponde alla funzione inconsapevole di cogliere la qualità soggettiva dell’esperienza psichica e di rappresentarla in un secondo tempo. In altre parole, solo a posteriori si può rendere rappresentabile un fatto psichico.

Molta parte del lavoro analitico consiste proprio in questo tipo di lavoro che verte sulla potenzialità euristica inconscia della mente.

 

 Negli ultimi decenni sono state fatte numerose ricerche sulle prime relazioni madre-bambino, in particolar modo dall’Infant Research e dalle Teoria dell’Attaccamento, che ci permettono di formulare alcune ipotesi sull’origine di questa conoscenza inconscia. Per lo sviluppo della parte intuitiva della psiche è molto importante la condivisione della stessa emozione tra madre e bambino. Tale esperienza permette al piccolo di introiettare uno stato emotivo condiviso, destinato a diventare un oggetto interno disponibile per il riconoscimento del proprio stato mentale.

Questo insieme di sensazioni percepite appartenenti all’Io del soggetto contribuiscono alla costruzione dell’identità e alla capacità di comprendere se stessi e il mondo circostante.

 

In un seminario a Roma, Bion (1985) aveva parlato a lungo delle emozioni chiedendosi in che modo si potesse percepirle e riconoscerle dato che non abbiamo organi di senso che ci possano rivelare le emozioni altrui, ad esempio l’ansia di un paziente che entra in seduta. Ricordo che io, allora giovane analista, ero rimasto molto colpito da questa osservazione e non ero riuscito a capire quale fosse il misterioso organo che ci permetteva di comprendere le emozioni nostre e altrui.

Adesso sarei in grado di dire che, se è pur vero che non possiamo usare i nostri sensi per percepire le emozioni, possediamo, in condizioni normali, un apparato inconscio che si attiva per comprendere le emozioni nostre e altrui. Questo apparato, formatosi nella relazione primaria con la persona che si è presa cura di noi, ci permette di riconoscere lo stato emotivo nostro e dell’altro.

 

In molti pazienti gravi manca questa capacità di osservare se stessi e gli altri.

Come ho già detto nelle pagine precedenti, nella psicosi la mente subisce una trasformazione radicale, con la conseguenza che i pensieri sono immagini, visioni e suoni, segni (icone e indici secondo Pierce) che non corrispondono più ai simboli, indispensabili per formulare pensieri.

 

 Molti autori hanno affrontato il tema dell’incapacità di rappresentare i propri processi psichici nello stato psicotico.

Donnet e Green (1973), ad esempio, ritengono che uno dei deficit più importanti nella psicosi sia la mancanza nella mente della funzione di valutare ciò che rappresenta. Nel paziente psicotico esisterebbe un nucleo psicotico che impedisce il processo del pensiero e inibisce la rappresentazione dell’oggetto. Tale mancanza impedisce la categorizzazione delle esperienze, la formulazione del test di realtà e la capacità di cogliere la differenza tra percezione e rappresentazione. Tra le molte, Green (1975) descrive anche una difesa per lui tipica dello stato psicotico. che consiste nell’espulsione somatica, un’operazione in cui il conflitto viene relegato e annullato nel corpo. A differenza della conversione isterica l’espulsione somatica è completamente priva di simbolizzazione.

Roussillon (1999), a sua volta, distingue la simbolizzazione “primaria” da quella “secondaria”, che coincide con la capacità di usare i processi auto-riflessivi per arrivare alla percezione soggettiva di sé. Le patologie psicotiche si collocherebbero al livello di un disturbo della simbolizzazione primaria.

 

Queste ipotesi mettono in luce fenomeni significativi, ma non ne svelano l’origine: qual è il processo che originariamente altera lo sviluppo della capacità simbolica e rappresentativa?

Io suggerisco una mia ipotesi formulata nel corso dei decenni in cui ho lavorato e lavoro con i pazienti gravi.

Credo che l’annoso problema della mancanza di simbolizzazione e di rappresentabilità dell’esperienza psicotica trovi una spiegazione con l’ipotesi che nel ritiro psichico, che precede l’esplosione psicotica, avvenga una trasformazione del funzionamento mentale, che passa dallo psichico al sensoriale.

 

La psicosi diventa clinicamente conclamata dopo un lungo periodo di ritiro psichico che comincia nell’infanzia. Il paziente, pur mantenendo un certo contatto con la realtà, vive in questo ritiro sensoriale, un mondo alternativo alla realtà, in cui le capacità di pensiero e di intuizione sono escluse fino a risultare abolite. In questo ritiro la mente funziona come un organo sensoriale che impedisce lo sviluppo dell’apparato psichico e, quindi, anche della funzione intuitivo-percettiva inconsapevole, quella descritta per primo da Brentano.

 

Questo isolamento sensoriale porta allo sviluppo dello stato delirante: il paziente psicotico “vede” e “sente”; “vede” attraverso gli occhi della mente e “sente” attraverso le orecchie della mente. La realtà interna, auto-creata sensorialmente, viene proiettata nel mondo esterno con una conseguente perdita della distinzione tra spazio esterno e spazio interno. Nello stato psicotico c’è una colonizzazione della parte sana da parte del funzionamento sensoriale; questa trasformazione priva la psiche della sua capacità rappresentativa e riflessiva.

Per questo motivo le allucinazioni e i deliri, che sono produzioni sensoriali, non possono essere esplorati nel modo in cui lo sono i sogni delle persone nevrotiche, che corrispondono a rappresentazioni psichiche a carattere emotivo. Possiamo, invece, indagare le modalità con cui il paziente li crea (De Masi, 2018).

 

La forclusione del Nome-del-Padre

Nella terapia dei pazienti psicotici bisogna fronteggiare non solo la mancanza del pensiero simbolico, ma anche lo sviluppo delle realtà sensoriali percepite come reali, ossia la costruzione di un mondo alternativo che porta alle allucinazioni e ai deliri. Per esplorare questo aspetto farò riferimento al contributo di Jacques Lacan, in particolare alla sua concettualizzazione della forclusione del Nome del Padre.

 

Il termine forclusione indica la cancellazione definitiva dalla mente di un evento o di un funzionamento psichico. Per esprimerci nel linguaggio lacaniano, la forclusione del Nome del Padre è un’alterazione del rapporto tra il soggetto e il linguaggio. Il Nome del Padre va inteso, infatti, come una funzione che collega il significante e il significato in modo tale da rendere possibile la comunicazione psichica.

La forclusione del Nome del Padre danneggia l’ordine simbolico rendendo l’esperienza psichica non percepita e non simbolizzata.

Le esperienze che non entrano nell’ordine simbolico assumono le caratteristiche del Reale: sono percepite come provenienti dall’esterno perché mancano della controparte simbolica nel mondo interno. A questo punto il vuoto nel mondo interno tende a essere riempito da una proliferazione di immagini e fantasie che vengono a costituire il regno dell’Immaginario.

Si può affermare che il Nome del Padre abbia un carattere strutturante perché mette il bambino in rapporto con la realtà e protegge il suo sviluppo futuro. In sua assenza si perde la distinzione tra il mondo megalomane dell’immaginazione e il mondo della realtà psichica.

 

Riferisco l’esempio di un ragazzo diciottenne che, pur vivendo in parte nel mondo di fantasia, ha buoni risultati a scuola. Parla al terapeuta dei suoi “viaggi”, del suo abbandonarsi al mondo dell’immaginazione che gli risulta più gratificante della realtà. Dice di avere un solo amico, Enrico, che incontra molto raramente. Il terapeuta gli domanda perché non chiama più spesso questo amico per condividere del tempo con lui. Il paziente risponde che non è necessario perché, quando vuole, lo evoca nella sua fantasia e trascorre con lui momenti molto appaganti. Perché dovrebbe chiamarlo per davvero?

 

Un mio paziente psicotico, nel corso del suo miglioramento, ricordò che da piccolo si sentiva trionfante perché il suo ritiro in fantasia non veniva riconosciuto dai genitori. Era contento di ingannarli perché, quando tornavano a casa di sera, si compiacevano di vederlo tranquillo a dormire. Non capivano che aveva un luogo segreto in cui loro non avrebbero mai potuto raggiungerlo.

 

Un altro paziente psicotico, che ho avuto per molti anni in analisi, soffriva di un delirio di persecuzione, che era stato preceduto da uno stato di grandiosità. Nel corso del miglioramento era stato più volte analizzato lo stato mentale che lo portava verso l’ideazione delirante. Avevamo lavorato molto sul modo in cui la sua mente costruiva il mondo delirante grandioso e persecutorio.

Un giorno era venuto in seduta parlandomi dell’omicidio del giornalista Khashoggi, di cui era accusato il principe ereditario Mohammed bin Salman. Dopo avermene parlato e aver condannato l’omicidio, aveva avvertito un’angoscia delirante di persecuzione: era diventato oggetto della vendetta dello stesso principe.

Ascoltandolo mi chiedevo come facesse a credersi oggetto di odio da parte di un principe, fisicamente lontanissimo da lui e appartenente a un ordine sociale e di potere di gran lunga superiore. Mi aveva detto che si era sentito in opposizione al principe, individuo moralmente condannabile, e da qui era originata la sua persecuzione. Era evidente che si era messo allo stesso livello del principe, lo aveva contestato come oppositore politico, era diventato il rappresentante della giustizia contro l’ingiustizia e pertanto era diventato oggetto di persecuzione.

 

La dinamica della costruzione di questo delirio iniziale può essere compresa se si pensa all’infanzia del paziente e al suo stato di onnipotenza infantile: da piccolo si considerava un adulto rispetto ai suoi genitori, meritevoli di rimproveri. Ricorda che una volta da bambino, svegliato di notte da una loro discussione, era entrato nella loro camera e li aveva redarguiti, dicendo loro come avrebbero dovuto comportarsi. Era sicuro di aver eseguito bene il suo compito perché, una volta tornato a letto, si era reso conto che i genitori si erano tacitati.

Evidentemente questo bambino era vissuto in un ritiro psichico onnipotente in cui veniva negata la sua dipendenza dai genitori; si potrebbe dire che aveva forcluso il Nome del Padre e che, pertanto, non era più in grado di distinguere il suo mondo onnipotente dalla realtà.

 

La mia ipotesi è che la forclusione del Nome del Padre sia il risultato della megalomania e dell’onnipotenza proveniente dal nucleo psicotico creatosi nell’originario ritiro infantile.

Questo paziente aveva avuto un padre che lo aveva blandito nell’infanzia, considerandolo come un fratello, un adulto e non un bambino, e poi era stato assente nei momenti importanti della sua vita.

Mutuata dal padre era la certezza di diventare celebre e, su questa spinta, il paziente, dotato di una certa creatività e intraprendenza, si era impegnato in ripetute iniziative che assumevano spesso il carattere di un delirio megalomane cui seguiva la persecuzione.

Ogni volta che le sue iniziative megalomani fallivano, non apprendeva dall’esperienza: cambiava strada e si convinceva ancora una volta che sarebbe riuscito a essere celebre con ulteriori iniziative.

Questo è il punto cruciale: nella sua mente mancava il bisogno di una figura paterna, anche nel transfert, da cui poter imparare per sviluppare competenze realistiche. Si considerava un genio perché possedeva già tutte le conoscenze.

 

 La mia convinzione dell’importanza del ritiro psichico sensoriale nella genesi della psicosi offre all’intuizione di Lacan una base clinica esplicativa della modalità con cui viene abolito il Nome del Padre, ossia il modo in cui alla mente simbolica si sostituisce quella onnipotente sensoriale. La nuova realtà sensoriale costituisce un rifugio in cui il paziente si ritira di fronte alle frustrazioni e alle privazioni della vita. Si tratta di un processo maligno che priva la psiche della sua capacità di funzionare come un organo del pensiero e la trasforma in una specie di teatro, uno schermo vivo e attivo capace di attrarre e catturare completamente il paziente.

 

Il ritiro psichico corrode la mente come un corso d’acqua che lambisce per anni una costruzione. Il processo di smantellamento è silenzioso, è lento e progressivo e si rende evidente solo nel momento in cui l’edificio crolla. Penso che anche la produzione delirante abbia origine dalla qualità sensoriale delle fantasie del ritiro. Non si tratta di un processo secondario, come ipotizzato da Freud, nato per dare una parvenza di realtà all’Io che ha ritirato il suo investimento dal mondo, ma di un processo primario, una struttura psicopatologica che si installa nella mente sin dall’infanzia e si sviluppa a spese della parte relazionale della personalità.

 

Una volta avevo chiesto a questo paziente quale fosse il motivo delle sue frequenti ricadute nel delirio. Mi aveva risposto che si sentiva come un fiume le cui sponde si erano rotte, inondando completamente la pianura adiacente. Grazie alla terapia analitica gli argini erano stati ricostruiti, ma c’erano ancora canali in cui l’acqua del fiume continuava a scorrere. Aveva anche aggiunto che, durante l’infanzia e l’adolescenza, era stato ritirato troppo a lungo nel suo mondo fantastico e che le sue cadute deliranti avevano finito per essere quasi un’abitudine.

 

Voglio ora presentare due sogni che questo paziente ha portato nell’ultima parte dell’analisi, in cui era concentrato a comprendere le ragioni della sua malattia psicotica.

 

Nel primo sogno doveva mettere d’accordo i democratici e i repubblicani americani, che erano entrambi al governo, ma che continuavano a essere paralizzati dai loro conflitti. Nel sogno il paziente era a capotavola e parlava con loro per indurli a superare le difficoltà.

 

Nel secondo sogno incontrava il Presidente della Repubblica e lo salutava rispettosamente. In risposta, il Presidente gli faceva un largo sorriso come se lo conoscesse e se avesse familiarità con lui, cosa che lo eccitava e lo rendeva felice.

 

Raccontando questi sogni il paziente aveva commentato che erano sogni psicotici, ma io lo avevo corretto dicendogli che mi sembravano sogni della sua psicosi infantile quando pensava di essere il genitore del padre e della madre e di doverli mettere d’accordo.

 Pensavamo entrambi che il secondo sogno riproducesse il suo legame con un genitore eccitante, così come era avvenuto nella prima infanzia, quando era stato narcisisticamente sedotto dal padre. Il ritiro psichico nel suo caso era stato favorito dall’assenza mentale dei genitori, accompagnata da un loro avallo narcisistico.

 

Uno dei motivi per cui i pazienti psicotici non comprendono il linguaggio simbolico e travisano le interpretazioni dell’analista è che sono sempre in attesa di rivelazioni. Hanno sempre la percezione che qualcosa di misterioso e di nascosto si celi dietro la realtà e che, prima o poi, questa verità nascosta diventerà palese. Per loro le interpretazioni non sono una comunicazione tesa a svelare una verità psichica inconscia; si tratta invece della rivelazione di una nuova realtà concreta, realmente esistente, spesso a carattere grandioso o persecutorio.

Nel paziente psicotico si tratta di favorire l’uso e la reintegrazione dei meccanismi propri al funzionamento nevrotico, un concetto espresso già molti anni fa da Federn (1952), quali la introiezione, la rimozione e l’apprendere dall’esperienza emotiva che sono alla base del funzionamento della vita emotiva inconscia e della coscienza di esistere,

La sanità mentale dipende dalla possibilità di usare un apparato, che funziona al di fuori della consapevolezza, in grado di contenere e mantenere vive le emozioni e di dare significato alla nostra esistenza. Molti pazienti lo posseggono o, per lo meno, hanno le condizioni per poterlo sviluppare, altri invece ne sembrano completamente sprovvisti.

 

Considerazioni finali

Dopo le utili e importanti controversie scientifiche che hanno caratterizzato lo sviluppo analitico sino ad alcuni decenni fa e il grande contributo alla nostra disciplina, dato in particolare dal gruppo kleiniano (Segal, Rosenfeld, Meltzer e Bion), mi sembra che lo sviluppo della psicoanalisi, sia in campo teorico che clinico, abbia subito un progressivo rallentamento.

 

Una delle possibili ragioni è da ricercarsi, a mio avviso, nel fatto che negli ultimi decenni l’attenzione degli psicoanalisti si è allontanata dalla clinica, dalle sue difficoltà e dai suoi nodi irrisolti, per rivolgersi prevalentemente al funzionamento della mente dell’analista, alla rêverie dell’analista, portando all’estremo e sovrastimando il potere terapeutico della comunicazione inconscia tra le due menti al lavoro.

 

Nei lavori del passato le ragioni dell’efficacia terapeutica dell’analisi erano continuamente discusse con lo scopo di metterne in luce gli elementi più significativi. Sembra invece che, da alcuni decenni, questo tipo di discussione sia scomparsa come se nella comunità analitica il valore terapeutico dell’analisi fosse considerato un dato di fatto, non meritevole di ulteriori considerazioni. Sono scomparsi gli approfondimenti sulle indicazioni e le controindicazioni e sulle modalità terapeutiche utili per le singole condizioni di sofferenza.

 

Poche sono le discussioni sulle terapie non riuscite o interrotte. Raramente si pone la questione se, quando la terapia analitica è stata inefficace, le cose siano andate male perché l’analista è venuto meno alla sua passione e curiosità o, invece, se l’approccio clinico adottato si è rivelato poco idoneo a comprendere quelle menti che non funzionano come la teoria psicoanalitica presuppone.

 

Come è ovvio, questo problema non è stato del tutto estraneo al pensiero analitico ma si è presentato in modo chiaro in alcune occasioni. Ad esempio, nel Congresso dell’IPA di Londra del 1975 dal titolo “Changes in Analytic Practice and Experience”, André Green, in conflitto con Anna Freud, affermò che gli analisti erano molto a disagio davanti le richieste sempre più numerose dei pazienti non-nevrotici, dato che erano costretti a servirsi di una teoria basata su concetti utili per i nevrotici.

 

La domanda che si pone a questo punto è se, pur mantenendo integro il nostro patrimonio conoscitivo, non dovremmo allargare la nostra visione per entrare in contatto con mondi psichici che forse non possono incontrarsi con le premesse con cui è stata originariamente costruita la disciplina. analitica.

 

Per questo mi sembra che l’indagine analitica del futuro debba estendersi ai territori poco esplorati della psiche, a quelle condizioni mentali che si situano al di là dei funzionamenti inconsci che già conosciamo.

 

In questo lavoro ho cercato di introdurre alcune osservazioni sul funzionamento della mente psicotica, un argomento poco esplorato analiticamente e che rappresenta un campo nuovo con cui la psicoanalisi del futuro dovrebbe misurarsi. Ci sono, naturalmente, ancora molti spazi aperti che riguardano i cosiddetti pazienti difficili che dovrebbero entrare in una nuova dimensione conoscitiva. A questo scopo sarebbe necessario sviluppare una metapsicologia che vada al di là di quanto intuito da Freud e che fa perno sull’inconscio dinamico e sulla rimozione.

 

Per me la disciplina analitica è come un albero dotato di un fusto robusto con radici profonde che lo alimentano e una potenzialità sempre attiva di crescita. Tutto quanto ci è stato tramandato da Freud, e dalle menti più creative che lo hanno seguito, appartiene alle radici dell’albero, ben piantate nella terra; i rami, invece, si protendono verso quanto di enigmatico e poco conosciuto caratterizza ancora la mente umana.

Occorre allargare il campo del già noto per scongiurare il pericolo che può correre la nostra disciplina, quello di restare prigioniera di se stessa.

 

Vorrei concludere il mio contributo riprendendo quanto è stato appena accennato alla fine dell’articolato e profondo discorso fatto da Fernando Riolo sul metodo analitico nel primo seminario.

Il mio pensiero è che i modelli analitici, che hanno contribuito a fondare la nostra conoscenza sulla complessità della psiche (quelli freudiani, kleiniani, winnicottiani, bioniani, etc.), ognuno dei quali potrebbe trovare applicazione nelle differenti situazioni cliniche, non dovrebbero aspirare a diventare teorie generali. Quando ciò avviene le teorie finiscono per erigere mura non facilmente valicabili.

 

Noi conosciamo solo una parte della psiche, mentre l’estensione della mente è potenzialmente infinita. La dinamica dei pensieri umani si estende non solo nell’ignoto, ma anche nell’inconoscibile e persino nell’impensabile.

Per questo sviluppo la psicoanalisi necessita di spazi sempre aperti verso il non ancora conosciuto. Può ancora di più lasciarci

Dobbiamo quindi essere grati a questa disciplina, che chiamiamo psicoanalisi, che ci mette di fronte a un intero campo ancora ignoto della vita psichica, gremito di enigmi e di misteri, che ci fanno intravvedere innumerevoli direzioni inesplorate di ricerca per la mente umana.

 

Bibliografia

 

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Franco De Masi, Milano

Centro Milanese di Psicoanalisi

 franco.demasi01@gmail.com

*Per citare questo articolo:

De Masi F., (2024) “Oltre l’Inconscio.”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 35-61

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