Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Franca Munari
“La mostra Per un’aiuola di stelle, allestita al Museo degli Eremitani, a cura di Myriam Zerbi, è un’immersione totale nel mondo di Olimpia Biasi, artista trevigiana con un lungo e articolato percorso artistico di carriera e sperimentazioni, le cui opere sono oggi presenti in collezioni pubbliche e private, anche fuori dai confini nazionali.
In mostra un centinaio di opere, tutte orchestrate come una composizione per disegni, dipinti, arazzi di stoffa su rete industriale, collages polimaterici su garza, libri, erbari, etc., per un percorso creativo che parte dal 2011 e arriva fino ai giorni nostri. La natura è il fil rouge del suo percorso narrativo.
L’essenza femminile è presente ovunque, permea le opere fino a divenire una cifra stilistica dell’Artista. Tele, teleri, garze, reti rinviano a quel mondo affascinante della tessitura, che da sempre appartiene alla donna. L’artista trevigiana ha avuto grandi maestri: da Elena Bassi, che l’ha introdotta alla Storia dell’arte, a Barbisan, Bacci, Pizzinato. La sua lunga carriera artistica l’ha portata a percorrere strade diverse, a sperimentare e padroneggiare materiali e formati eterogenei, dal disegno intimistico al mosaico, dalla pittura esuberante dei Dipinti e dei Teleri di grandi dimensioni, alla “tessitura” su garze e reti industriali, a cui lavora attualmente, dove l’intimismo del gesto antico del tessere e del cucire è declinato nel grande formato degli Erbari e degli Arazzi.” (Comunicazione stampa)
Il titolo, Per un’aiuola di stelle, è stato scelto da Olimpia Biasi da un verso di Louise Glück, in “apparente” adattamento per vicinanza alle stelle di Giotto della Cappella degli Scrovegni, adiacente al luogo di questa mostra.
Una volta Olimpia mi disse che era per lei molto più semplice raffigurare il reale che lavorare, diciamo per usare un termine vago e semplificato , sull’astratto.
Questione centrale nella sua opera, questione che ha radici molto lontane e a mio avviso molto affascinanti.
Ve lo racconto come lo racconta Didi-Huberman nel suo testo sul Beato Angelico. Figure del dissimile:
Nel XIV e “Ancora nel XV secolo si intendeva per “figura” precisamente l’opposto di quello che oggi si intende. Raffigurare una cosa significa oggi renderne l’aspetto visibile. [Per i pittori del ‘300 e del ‘400] e per i pensatori religiosi che li attorniavano significava invece discostarsi dalla forma esteriore, trasferirla, compiere una deviazione al di fuori della somiglianza e della designazione, entrare insomma nel regno paradossale dell’equivoco e della dissomiglianza. (Didi-Huberman 1990, 13)
L’ipotesi di Didi-Huberman è che in quel periodo la dissomiglianza sia stata il mezzo privilegiato per rappresentare la “misterizzazione” dei corpi delle figure sacre.
Le “figurae in senso latino e medievale, ossia i segni pittorici pensati teologicamente, [erano] segni concepiti per rappresentare il mistero dei corpi al di là dei corpi, il destino escatologico nelle storie, al di là delle storie, il sovrannaturale nell’aspetto visibile familiare delle cose, al di là dell’aspetto stesso.
Le figure in questo senso appartengono all’ambito dell’esegesi, e si può affermare che i grandi pittori religiosi – quali Giotto, Pietro Lorenzetti, il beato Angelico o, più tardi, Carlo Crivelli e Giovanni Bellini – sono stati in grado di rendere la loro opera autentica materia di esegesi, non soltanto ripetizioni immaginose e sommarie dell’esegesi testuale, bensì invenzioni esegetiche, vale a dire la produzione sempre rinnovata, diversificabile, delle infinite diramazioni del senso sacro. (ibid.16)
In Giotto nella Cappella degli Scrovegni la dissomiglianza è ottenuta tramite l’allegoria in tutto il registro inferiore della cappella, in contrapposizione alle historiae del registro superiore: quattordici “virtù e vizi” sfilano così all’altezza dello sguardo come altrettante figure irreali, avulse da qualsiasi contesto naturalistico … e integrano in sé il dissimile, sotto forma di un’operazione sistematica di “defigurazione”: l’aspetto umano risulta deformato, reso inverosimile, sconveniente, per la presenza di elementi eterocliti, come quel serpente che esce dalla bocca dell’Invidia e le si ritorce contro, come se volesse divorarle gli occhi. … [Si tratta anche qui di una] esigenza teorica di una similitudine dissimile posta al servizio di un’arte della memoria. (ibid. 85-86)
Inoltre “se tutte le figure allegoriche di Giotto sono, in un certo, senso immerse in un universo di marmi finti – terzo principio figurativo – lo si deve proprio al fatto che la rappresentazione dei marmi venati, variopinti, rosseggianti corrisponde perfettamente l’esigenza delle similitudini dissimili: certo i pannelli dipinti da Giotto sono similitudini di marmi, ma quelle similitudini hanno la particolarità, a causa del loro stesso referente, di includere nel loro aspetto l’informe e il colore puro, insomma la negazione dell’aspetto: la dissomiglianza. (ibid. 86-87)
Insomma l’arte astratta, l’arte concettuale derivano direttamente dalla necessità di uno studio e di una comprensione esegetica di un testo sacro, dalle invenzioni necessarie per interpretare, descrivere, raffigurare il sacro, l’umano mistero di spirito e corpo: allegorie, astrazioni, pensieri.
In fondo si tratta della medesima attività metapsicologica, metafisica che è necessaria all’interno di qualunque disciplina si avvalga di una teoria, per la messa a punto e la descrizione delle intuizioni dello scienziato o dell’artista.
Il lavoro di Olimpia testimonia di questa imprescindibile istanza di figurare con il dissimile, al di là del reale.
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