Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
*Per citare questo articolo:
Onofri F., (2024) “Il punk: l’immaturità creativa”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 181-205
di Francesco Onofri
(Padova) Membro Associato della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
«I Sex Pistols li capisci solo se hai avuto quindici anni e se, auspicabilmente, non hai mai smesso di averli. […] Il punk è qualcosa che ha a che fare con la purezza del cuore. Non esagero. Occorre avere cuore puro per capire. Il che non vuol dire essere buoni e caritatevoli: un cuore puro può essere letale, ma sarà sempre onesto» (Vitaliano F., 2013, 15-16)
Premessa
Il punk: non c’è genere musicale dal quale, nella mia adolescenza, mi sia sentito più lontano; eppure, quando ho cominciato a riflettere sui due poli tematici di questo KnotGarden, adolescenza e musica, sono arrivato a pensare con curiosità e simpatia a questa musica, a molti suoi epigoni che già all’epoca erano famosi anche tra chi, come me, non ne era un appassionato, nonché ad alcuni cari amici che in quegli anni giovanili “schitarravano” a volumi improponibili e con un effetto anti-musicale che mi risultava difficilmente comprensibile. Questo “ritorno del rimosso” mi ha indotto a pensare che ci sia qualcosa di genuinamente adolescenziale nel punk, con l’interrogativo se vi sia qualcosa di genuinamente punk in ogni adolescente.
Proverò, allora, a pensare all’adolescenza e agli adolescenti attraverso il punk, senza alcuna pretesa di esporre una critica filologica, tanto meno una rassegna completa di un genere musicale che, per sua natura, sfugge ad ogni inquadramento e classificazione. Mi limiterò ad accennare ad alcuni aspetti del “fenomeno punk”, inteso non solo come genere musicale, ma anche come movimento e cultura giovanili esplosi nella Londra di fine anni ‘70. Anche se quegli anni sono lontani e la rivoluzione musicale e di costume portata dal punk si è ormai spenta, ritengo che in essa si possano rintracciare diversi aspetti utili per riflettere sull’adolescenza e che il punk abbia ancora molto da dirci, non solo come forma musicale, ma come metafora delle trasformazioni psichiche di questa fase evolutiva.
One chord wonders[1]
“Prendi uno strumento, percuoti una corda, esce della musica. È il punk” (Sid Vicious) (cit. in: Gilardino, 2017, 283).
Pare che Sid Vicious non avesse mai preso in mano uno strumento musicale prima di entrare nei Sex Pistols e che anche gli altri membri del gruppo fossero, chi più chi meno, musicisti improvvisati e con scarsissime abilità tecniche. Non si può dire che questa sia una caratteristica distintiva di tutta la musica punk, ma certamente lo è del punk inglese ai suoi esordi, dato che si trattò di un fenomeno indiscutibilmente adolescenziale, anzi di una manifestazione dirompente dell’adolescenza, a livello culturale e sociale. Le band della prima ondata del punk inglese, alla fine degli anni ‘70, si distinguevano per la giovanissima età dei loro componenti, spesso al di sotto dei quindici anni (Antipirina, 1978); quindi musicisti acerbi, se non altro per un dato di fatto anagrafico.
Gilardino afferma che “uno dei meriti indiscutibili del fenomeno punk e della sua rapida espansione è quello di aver permesso a musicisti in erba, dilettanti e semplici amatori, di prendere in mano uno strumento e salire sul palco” (2017, 61). Ritengo che, se applicato agli adolescenti, il termine “dilettante” non debba essere utilizzato in senso riduttivo, bensì nel suo significato letterale, ad indicare chi si dedica a una attività o a un’arte, in questo caso la musica, non a scopo professionale ma per puro piacere. Possiamo pensare che l’adolescente che traspare dalla frase emblematica di Sid Vicious ottenga tale piacere soddisfacendo l’esigenza psichica primaria della scarica delle tensioni interne, che in questa fase evolutiva non può essere troppo a lungo dilazionata concedendo un tempo all’apprendimento e alle prove; nonché il piacere di funzionare, e di esprimere le proprie capacità, attraverso canali prevalentemente motori e sensoriali, cioè corporei.
Il punk, così come gran parte del rock di cui può essere considerato un sottogenere, è una musica semplice dal punto di vista armonico e melodico, perciò si presta facilmente alla riproduzione. Il rock è la palestra perfetta per chi, da ragazzo, vuole cominciare a cimentarsi con la musica suonata; terreno fertile per tutti i giovani improvvisatori e sperimentatori, i quali possono facilmente emulare i loro idoli ascoltandone i dischi e riproducendo i riff più celebri, che spesso sono anche i più orecchiabili. Basta un intervallo di quinta su una chitarra ben distorta e si fa la storia del rock![2]
In realtà il punk, come genere musicale, pone un problema di classificazione, potremmo dire di identità: ovunque lo si voglia collocare, all’interno della grande famiglia del rock, sembra sempre fuori posto. Molti brani punk, soprattutto del periodo iniziale (anni ‘70 e ’80) sono indiscutibilmente dei pezzi rock ‘n’ roll – genere che molti considerano a sua volta ben distinto dal rock, in quanto più strettamente imparentato con il rhythm & blues ed il blues stesso (quindi con la tradizione musicale afro-americana) – ma con sonorità più vicine all’hard rock e all’heavy metal, a causa dell’uso di chitarre sature e distorte e dell’assenza di tastiere e di strumenti a fiato (a parte qualche eccezione). Successivamente il punk si sposta maggiormente verso l’heavy metal, generando il cosiddetto hardcore punk, una forma musicale ancora più dura la cui caratteristica peculiare è il canto urlato (lo scream).
In ogni caso, la musica punk, pur con tutte le variazioni succedutesi nel tempo, ha mantenuto alcune caratteristiche di base che ne sono il comune denominatore: i brani sono generalmente brevi, suonati con tempi veloci ed hanno una struttura semplice dal punto di vista armonico e melodico; l’insieme di strumenti e voce risulta essenziale, poco definito e privo di qualsiasi abbellimento: “nel PUNK il cantato è monocorde, diretto e per nulla infiorettato. A dispetto del formato strofa-ritornello, le canzoni PUNK sembrano informi perché la chitarra è pesantemente distorta e gli accordi sembrano straziarsi l’un l’altro e sanguinarsi addosso. Inoltre, mentre la batteria è sincopata, il basso non lo è, e questo rappresenta una rottura con le precedenti tradizioni pop” (Home, 1995, 20).
Laing (1985) fa un’analisi molto interessante degli aspetti musicali che distinguono il punk dal resto della musica rock. Per quanto riguarda il cantato, sottolinea la mancanza di flessioni e variazioni della voce, che viene usata più per urlare e declamare che non per arricchire armonicamente la canzone: cita come esempio lo stile di Joe Strummer, frontman del celeberrimo gruppo dei Clash, il quale “ha in comune con quasi tutto il canto punk la mancanza di varietà. All’interno delle canzoni non c’è movimento dall’acuto al grave, dal piano al forte o da un accento a un altro” (79). Ma ciò che, secondo l’autore, differenzia maggiormente il punk dagli altri generi è “il suo atteggiamento nei confronti del ritmo. È qui che il paradosso tra una musica al tempo stesso ‘primitiva’ e ‘innovativa’ trova la sua applicazione più propria. Forse l’aspetto ritmico più tipico della musica con elementi afro-americani è la sincope”, spiega Laing. “[I] ritmi sincopati […] accentuano l’off-beat, spingendo l’ascoltatore all’interno della musica per ‘fornire’ il primo e il terzo accento mancante, mentalmente o fisicamente, attraverso il battito delle mani, il movimento della testa o il ballo. La presenza di una sincope musicale è una pre-condizione per tutti i tipi di ballo nella sfera della popular music basata sul rock. La principale ragione dell’’imballabilità’ di gran parte del punk (e dell’adozione del “pogo” come forma di danza) sta nel fatto che questo […] tende a sommergere la sincope nelle sue strutture ritmiche. Holidays in The Sun dei Sex Pistols inizia con un suono di piedi che marciano, un suono regolare, ripetitivo, assolutamente non sincopato. Segue quindi la batteria sullo stesso ritmo. Questa monade ritmica (1-1-1-1), in contrasto con la diade convenzionale del rock (1-2-1-2, dove l’accento cade sul secondo battito) rappresenta una condizione di entropia (o di perfezione) cui gran parte del punk sembra tendere costantemente” (ibid., 83).
Nella seconda metà degli anni ‘70 il punk irrompe sulla scena generando l’impressione di una netta cesura rispetto al linguaggio conosciuto del rock; rappresenta la reazione a certi filoni, come il progressive rock, che avevano allontanato questo genere musicale dalle sue origini, facendolo diventare troppo intellettuale e complesso dal punto di vista della tecnica esecutiva e della strumentazione utilizzata. I giovani musicisti punk prendono decisamente le distanze dal rock “mainstream”, sostenendo che in esso vi sia qualcosa di non genuino e di artefatto, o per lo meno di molto noioso; cercano un “ritorno alle origini”, una “verità espressiva” che ritengono non sia più rintracciabile in quella musica.
Dal punto di vista strettamente musicale, la “rivoluzione punk” non nasce dal nulla: se ne possono individuare gli antecedenti nel cosiddetto proto-punk suonato, a partire dagli anni ‘60, da gruppi americani come gli Stooges, gli MC5 e i New York Dolls; così come esercitarono una grande influenza, dal punto di vista dei contenuti e dello stile espressivo, artisti come i Velvet Underground[3], David Bowie e Patty Smith.
Il punk, dunque, non inventa nulla di nuovo; eppure porta una rivoluzione. La novità non sta nella struttura armonica dei brani, bensì nell’uso che viene fatto del vecchio repertorio rock: le giovani band prendono questa musica e la “strapazzano” a loro piacimento, “senza alcun riguardo”, giungendo ad “una forma di rock ‘n’ roll violentissima e schematica (tre o quattro accordi, ma più spesso anche due soli)” (Insolera, 1978, 155)[4]. Continuità e discontinuità al tempo stesso: il “vino nuovo in vecchie botti” (Winnicott, 1965b, 109).
La questione del possibile equilibrio tra vecchio e nuovo è centrale in adolescenza. Riprendendo il testo di Laing sopra citato, mi sembra che esso ci offra indirettamente uno spunto di riflessione prezioso, quando l’autore accosta i termini “primitivo” ed “innovativo” a proposito delle peculiarità ritmiche del punk. Pensando alla mente adolescente, possiamo dire si possa considerare al tempo stesso primitiva ed innovativa una modalità di funzionamento psichico che “slega” perché in cerca di nuovi legamenti, nella necessità di trovare nuovi oggetti di investimento o di reinvestire gli oggetti infantili sulla base di nuove modalità: in questo frangente l’innovazione è ancora un potenziale, una spinta – seppur potente – verso qualcosa che ancora non c’è, che non si è trovato; mentre “primitivo” può essere considerato il funzionamento psichico adolescente in quanto “troppo”, ancorché “necessariamente”, appoggiato sul corpo. E vedremo quanto il corpo sia l’indiscusso protagonista nel punk.
In conclusione. Un’energia dirompente e spesso aggressiva e provocatoria; un’urgenza espressiva che non concede troppo tempo all’apprendimento e all’adattamento; uno stile musicale che privilegia l’intensità rispetto alla forma, rimanendo spesso sul confine oltre il quale questa si perde ed il suono si tramuta in rumore, la parola diventa urlo; una rottura con il passato o, meglio, una rivendicazione della libertà di usare le cose vecchie in modo nuovo. Non sembra infondata la definizione del punk come “musica adolescenziale”, anche quando, beninteso, viene suonata dagli adulti.
Anarchy In The U.K[5]. Le parole del punk
È impossibile affrontare in poche righe il tema dei testi e dei contenuti delle canzoni punk; si corre il rischio di generalizzazioni o di classificazioni inevitabilmente riduttive, oltre che inutili per gli scopi di questo breve contributo. Mi limito a citare, en passant, un interessante studio riportato da Laing (1985), il quale mette a confronto i contenuti delle canzoni degli album di debutto dei primi cinque gruppi punk britannici giunti al successo negli anni 1976-1977 (Damned, Clash, Stranglers, Sex Pistols e Vibrators), con quelli dei singoli della Top 50 britannica dello stesso periodo: i testi punk trattano significativamente di meno, rispetto ai successi dell’epoca, il tema delle relazioni romantiche e sessuali; quando lo fanno, affrontano la sessualità con un linguaggio diretto, esplicito, spesso osceno, cosa impensabile per la musica che in quel periodo arriva al grande pubblico. Inoltre si rileva, nelle canzoni punk, una netta prevalenza di contenuti riguardanti i sentimenti affrontati in prima persona (“io!”) e la critica sociale e politica (“voi!”), quasi del tutto assenti nella musica da classifica messa a confronto.
Nel vasto panorama di un genere che ha attraversato ormai cinquant’anni di storia, vi sono gruppi che hanno privilegiato contenuti di protesta sociale e politica (come i Clash o gli italiani CCCP) ed altri che si sono attestati maggiormente su temi cosiddetti esistenziali, o che hanno prodotto canzoni fondamentalmente provocatorie e surreali (come, a mio parere, i Sex Pistols). Ma la musica punk sembra trovare un elemento unificante nel fatto che, a prescindere dai contenuti specifici, essa esprima protesta, contrapposizione, provocazione, sfida. Ciò che, di fatto, mi sembra renda riconoscibile il punk e gli conferisca una sua identità, è il suo atteggiamento, il suo carattere. E aggiungerei che il punk ha decisamente un caratteraccio: non può fare a meno di urtare, di scandalizzare, di produrre un effetto shock; non ha alcuna intenzione di compiacere, né di compiacersi, se non dell’effetto quasi repellente che suscita in chi non lo apprezza, o nell’essere, durante i concerti (la vera essenza del punk), il detonatore di corpi che “s-ballano” e che vanno “fuori giri”.
Il punk è “anti”, afferma Insolera in un interessante libro a più mani del 1978, che descrive “in diretta”, sebbene da lontano (il punk non ha ancora attecchito in Italia), l’affermarsi di questo fenomeno musicale e culturale: esso – secondo l’autore – ha un significato “(anti)musicale”, perché esprime una reazione viscerale al rock troppo complesso e una restituzione del rock ‘n’ roll alla gente; un significato “(anti)sociale”, perché esprime la rabbia e la frustrazione degli emarginati; un significato “(anti)ideologico”, per la sua generale sfiducia verso tutte le ideologie dominanti; infine, un significato “(anti)costume”, giacché persegue costantemente e primariamente la provocazione verso qualsiasi istituzione: politica, artistica, scientifica, ideologica, etica, religiosa (155 – 157). È interessante come l’autore utilizzi le parentesi e non i trattini, a mio avviso per riconoscere il fatto che il punk, pur essendo “anti”, è comunque portatore esso stesso di contenuti che si collocano in quegli ambiti.
È ancora attuale questa descrizione? Certamente i giovani punk dei sobborghi di Londra di fine anni ‘70, così come i loro antesignani americani, ad esempio gli Stooges, avevano in comune un sentimento di profonda insoddisfazione ed un vissuto di alienazione rispetto alle istituzioni e alla società (“no future” cantano i Sex Pistols in God Save the Queen[6]). Non credo che gli adolescenti di oggi provino meno insoddisfazione e frustrazione: semmai la differenza sta nel fatto che il “nemico” è più difficile da individuare, è meno definito il fronte a cui opporsi e rispetto al quale definirsi. A ciò si deve aggiungere che il sentimento di alienazione è comunque un vissuto tipicamente adolescenziale, a prescindere dall’epoca storica e dal contesto sociale.
Si potrebbe allora dire che negli anni ‘70 fosse più forte la coscienza politica e sociale nei giovani; anche questo è vero solo in parte e non tutti sono d’accordo sul fatto che il punk delle origini rappresentasse un veicolo di diffusione di pensieri “alti” sulla società. Ad esempio, Home (1995) afferma con provocatoria ironia che il punk “era vuoto, superficiale e futile, ed è per questo che era grande! […] era sound e furia, e non significava nulla” (33); “non fece altro che attingere da un serbatoio di malcontento sociale e provocare un’esplosione di rabbia ed energia: non offriva una soluzione, era semplicemente un genere musicale nuovo e sorprendente […] era puro clamore, non aveva niente da offrire a parte un senso di fuga dal tabù di parlare della melmosa realtà della vita mentre la fabbrica sociale andava in pezzi. Dopotutto, se i Punk rocker avessero preferito l’analisi alla retorica, avrebbero tentato di organizzare una rivoluzione anziché pogare su pop song di tre minuti” (39).
Ma allora, che significato attribuire a un insieme così vasto ed eterogeneo di contenuti, i quali tuttavia sembrano convergere nella protesta, nella sfida e in un rifiuto anarcoide di limiti e regole? E perché tutto ciò ha avuto una presa così forte sugli adolescenti? Non c’è dubbio che l’adolescente possa essere considerato un “naturale” filosofo e politico, sebbene non appartenga ad alcuna accademia o partito; ma il suo interesse sembra primariamente quello dell’utilizzare il pensiero, anche intellettualmente complesso, per la regolazione di sé e del proprio funzionamento rispetto al gruppo dei pari e al contesto sociale di appartenenza. Ciò non toglie che possa essere attivamente impegnato in attività di rilevanza politica o sociale; ma questi investimenti, che pure possono lasciare tracce e risultati significativi, sembrano per lo più alimentarsi della spinta degli ideali, il “sole” che illumina di luce accecante gli anni adolescenziali, ma che tende ad abbassarsi sull’orizzonte con l’avvicinarsi dell’età adulta. Forse è per questo che certi messaggi possono sembrare, agli adulti, “superficiali e futili”.
Una possibile chiave di lettura viene dallo stesso Home quando afferma che “il Rock, più che dei conflitti di classe, si nutre di contrasti generazionali, quindi tende a turbare i genitori in genere e non semplicemente persone che si sentono appartenenti alle classi medie o alte” (ibid., 18). Potremmo allora affermare che l’impeto iconoclasta del punk sia, per l’adolescente, innanzi tutto funzionale al compito psichico della differenziazione e della definizione di sé, il quale si esercita, in primis, nei confronti delle figure genitoriali. Compito che, come ci dice Winnicott (1971), non può essere assolto senza aggressività: “crescere significa prendere il posto dei genitori. Lo significa veramente. Nella fantasia inconscia, crescere è implicitamente un atto aggressivo. Ed il bambino non è più ora di proporzioni infantili. […] Ciò che noi dobbiamo fare è cercare il perenne nell’effimero. Occorre che noi traduciamo questo gioco infantile nel linguaggio della motivazione inconscia dell’adolescenza e della società. […] Nella psicoterapia del singolo adolescente […] si trova che c’è morte e trionfo personale come qualcosa di intrinseco nel processo di maturazione e nell’acquisizione della condizione di adulto” (222-223). L’“Io sono”, afferma Winnicott, diventa immancabilmente “Io sono il re del castello” (ibidem).
Da una prospettiva in parte diversa anche Blos (1979) mette l’aggressività al centro delle trasformazioni psichiche dell’adolescenza e sottolinea come questa, per essere compresa appieno, debba essere osservata nelle sue manifestazioni anche al di fuori del contesto familiare; egli afferma: “chiunque voglia fare ricerche sull’aggressività degli adolescenti deve entrare, seppure marginalmente e indirettamente, nell’ambito della psicologia di gruppo, della sociologia e delle scienze politiche. […] I giovani sono sempre stati l’indice più sensibile per verificare se «C’è qualcosa di marcio in Danimarca». L’adolescente con il suo comportamento disadattato denuncia spesso il disordine caotico delle funzioni della società […]. L’adolescente esprime questo stato di cose, sebbene sia incapace di definire la natura reale delle sue cause, o le misure necessarie per la rigenerazione sociale. Tuttavia per il giovane le cause di fondo e i rimedi risolutivi devono pur esistere: vengono perciò costruiti sulla base di fatti e di fantasie, con l’urgente scopo di armonizzare se stesso e l’ambiente. Ciò che emerge da questo processo è un amalgama di innovazioni costruttive, alternate spesso a rabbie distruttive” (28).
Mi sembra estremamente interessante ed ancora molto attuale quanto possiamo ricavare da questi fondamentali contributi psicoanalitici, che hanno la stessa età del punk: l’idea, cioè, che nella vita psichica di ogni singolo adolescente, prima ancora che nei gruppi e nelle sottoculture giovanili di cui fa parte, via sia un riflesso della società in cui vive, la quale costituisce un elemento strutturante della sua identità. La famiglia, intesa come “struttura intermedia tra individuo e società” (Losso, 2000, 49), permette la “graduale infiltrazione” del mondo nella realtà psichica del soggetto (Winnicott, 1965b). Non ci stanno forse dicendo, anche i giovani contemporanei, con le loro manifestazioni di sofferenza psichica prevalentemente “internalizzanti” (quali il ritiro e l’abbandono scolastico), che “c’è del marcio in Danimarca?”.
Who is Who[7]. Alla ricerca del vero sé
Vitaliano (2013), nell’ultimo capitolo del suo divertente libro dedicato ai Sex Pistols (e, aggiungerei, all’adolescenza), stila ironicamente una lista personale di cosa è punk e cosa non lo è, precisando che si tratta di una concessione ai quindici anni che ancora sente di avere, nonostante abbia superato i cinquanta. L’elenco inizia, guarda caso, con la psicoanalisi, che secondo l’autore NON è punk.
Colpisce molto, esplorando il punk attraverso documenti e testimonianze dirette, come torni ripetutamente la questione di cosa sia da considerarsi genuinamente punk e cosa non lo sia, cosa sia originale e cosa contraffatto; insomma, il tema del vero e del falso, riconducibile a quello più ampio dell’identità. L’interrogativo, come abbiamo visto, si pone innanzitutto rispetto al tentativo di classificazione del punk come genere musicale; ma esso, in realtà, si estende al suo rapporto con l’arte e con l’estetica, nonché alla sua collocazione rispetto al pensiero politico e sociologico. Ed è proprio quando il punk viene assunto come fenomeno culturale e sociale che sembra emergere con più forza la necessità di definizioni e di distinguo, generando contrapposizioni anche forti. Credo che la musica suonata e ascoltata, in realtà, conservi una sua intrinseca unità, anche quando la si divide in generi, e soprattutto che resti, per suoi i fruitori, un’esperienza fortemente unificante.
Se la domanda è “chi sono io?” Chi sono gli altri?”, non si può non partire dal nome. Punk è una parola dall’etimologia non chiara. Un primo ordine di significati rimanda a “marcio”, oppure “senza valore”; oppure ancora, nello slang americano, a “teppista”. Chi ne ha ricostruito le origini e lo sviluppo dei significati con i quali storicamente la si trova usata, ci segnala come questa parola, prima di diventare il termine relativamente neutro che oggi indica il genere musicale, abbia assunto significati per lo più dispregiativi e, in alcuni contesti, riferiti ad aspetti di perversione sessuale (violenza, sottomissione, abuso).
Dunque il punk si presenta, provocatoriamente, con questo biglietto da visita: vuole urtare, scioccare; il giovane musicista che sale sul palco non vuole essere “carino”. Non a caso i Sex Pistols, che rappresentano indiscutibilmente il “mito fondativo” di questo genere musicale, anche per la brevità della loro parabola artistica, hanno come leader Johnny “Rotten” (“marcio”) e Sid “Vicious” (“cattivo”, “crudele”).
Da questo punto di vista, il Punk può essere considerato un clamoroso esempio dell’affermazione artistica del brutto. Molto interessante, a questo proposito, quanto afferma Umberto Eco (2007) nel suo libro Storia della bruttezza, nel quale cita, tra gli esempi del brutto nell’arte contemporanea, proprio il punk, affermando che esso, così come altre forme ed espressioni artistiche, è rilevante in quanto richiama all’attenzione del soggetto gli aspetti “maligni” dell’essere umano e della vita in generale. Eco parte da un esempio in campo musicale: ciò che anticamente veniva avvertito come dissonante, come l’intervallo di quarta aumentata o eccedente (non a caso definito nel Medioevo come diabolus in musica), in epoche successive verrà adottato dai più importanti compositori, come Bach e Mozart, per generare un importante effetto di tensione e di instabilità che poi si risolve nel successivo sviluppo armonico[8]. Quindi ciò che prima era visto come il diabolus, poi viene assunto come elemento che può essere sfruttato creativamente per ampliare le possibilità espressive di un’opera. Eco conclude, dunque, che “il brutto è relativo ai tempi e alle culture, l’inaccettabile di ieri può diventare ciò che sarà accettato domani, e ciò che viene avvertito come brutto può contribuire, in contesto adeguato, alla bellezza dell’insieme” (2007, 421). Ma poi aggiunge – e questo è il punto più interessante ai fini della mia riflessione – che questa prospettiva relativistica trova una significativa eccezione: “se il diabolus è sempre stato impiegato per creare tensione, allora ci sono reazioni basate sulla nostra fisiologia che rimangono più o meno inalterate attraverso i tempi e le culture. Il diabolus è stato via via accettato non perché fosse diventato piacevole, ma proprio a causa di quell’odore di zolfo che non ha mai perduto” (ibidem). E più avanti conclude: “nessuna coscienza della relatività dei valori estetici elimina il fatto che […] noi riconosciamo senza esitazioni il brutto e non riusciamo a trasformarlo in oggetto di piacere. Allora comprendiamo perché l’arte dei vari secoli è tornata con tanta insistenza a raffigurarci il brutto. Per marginale che fosse la sua voce, ha cercato di ricordarci che, malgrado l’ottimismo di alcuni metafisici, a questo mondo c’è qualcosa di irriducibilmente e tristemente maligno” (op. cit., 436).
Alla luce di queste riflessioni, possiamo affermare che il punk abbia, tra le sue caratteristiche distintive, la capacità di mostrare il “brutto” e il “male”, attraverso elementi simbolici rintracciabili nella musica, nelle modalità espressive degli artisti e nel modo di presentare/rappresentare il corpo (abbigliamento, piercing, capelli modellati in creste colorate, ecc.). L’atteggiamento urtante e dissonante del punk sembra opporsi alla tendenza della mente umana a rimuovere o a negare la “bruttezza” insita nell’essere umano e nella vita. Il punk rifiuta il successo e la popolarità perché essi soffocano questa voce, ma soprattutto perché è solo evitando la normalizzazione (il “così fan tutti”) che si può lasciare aperta la possibilità che la psiche compia, attraverso l’arte e le esperienze culturali, un’integrazione del brutto con il bello, inserendo le “dissonanze” in un insieme che può diventare non solo tollerabile, ma anche piacevole ed esteticamente bello.
Forse è per questa ragione che, allora come oggi, i puristi del genere considerano come non autenticamente punk qualsiasi interesse per l’aspetto commerciale della musica, qualsiasi tentazione di suonare con la finalità di compiacere il pubblico e di entrare a far parte del cosiddetto mainstream; tanto meno il produrre un disco assoggettandosi ai limiti e alle indicazioni di una major discografica. Il punk nasce e vuole restare underground.
Tornando ai Sex Pistols, essi, paradossalmente, non sono considerati come rappresentanti del “vero punk”: innanzi tutto perché, dal punto di vista musicale, hanno uno stile che non rispecchia affatto la dura essenzialità del punk ritenuto più genuino; lo stesso Johnny Rotten si distingue per uno stile canoro unico ed “anomalo” rispetto a quello della maggior parte dei cantanti degli altri gruppi dell’epoca. Ma soprattutto perché raggiungono troppo rapidamente la popolarità: il loro unico album, pur venendo bandito dalle principali stazioni radiotelevisive dell’epoca e dalle più importanti catene di negozi di dischi, in poche settimane scala le classifiche di vendita diventando un clamoroso successo, sia in Europa che oltreoceano.
Il punk più radicale “non ama il successo”; non a caso gruppi come i Green Day, che, quindici anni dopo i Sex Pistols, hanno fatto ritornare il punk ai primi posti in classifica, sono stati duramente criticati dai puristi, in quanto di fatto considerati un fenomeno pop.
Se osserviamo tutto ciò dalla prospettiva dell’adolescenza, ancora una volta troviamo spunti di riflessione preziosi nell’opera di Winnicott: questa continua ricerca dell’essenza e della genuinità, nonché la rivendicazione di una libertà espressiva senza compromessi, mi sembra rimandino alla tensione tra vero sé e falso sé insita nel soggetto e particolarmente rilevante nel funzionamento psichico adolescenziale. Mi piace immaginare che Winnicott abbia elaborato queste teorie osservando in diretta quel fermento sociale e giovanile che, solo qualche anno dopo, avrebbe portato all’esplosione del fenomeno punk a Londra e in altre città della Gran Bretagna. Egli scrive: “È una caratteristica fondamentale degli adolescenti quella di non accettare false soluzioni. Questa cruda moralità fondata sul vero e sul falso” (1965b, 113). “Nello stato di salute: il falso sé è rappresentato da tutta l’organizzazione dell’atteggiamento sociale educato o, per così dire, dal «non avere il cuore in mano». Molto è dovuto alla capacità dell’individuo di superare l’onnipotenza e il processo primario in generale per ottenere il vantaggio di avere un posto nella società che il vero sé da solo non potrebbe mai conquistare o conservare. […] Nel primissimo stadio il vero sé è la posizione, postulata teoreticamente, da cui vengono il gesto spontaneo e l’idea personale. Il gesto spontaneo è il vero sé in azione. Solo il vero sé può essere creativo e può sentirsi reale. […] Nella vita sana esiste un aspetto compiacente del vero sé, una capacità dell’infante di essere compiacente senza esporsi; questa capacità, che poi è la capacità del compromesso, rappresenta una conquista. […] Nello stesso tempo, nella situazione di salute, il compromesso cessa di diventare lecito quando la posta in gioco diventa cruciale. Quando succede questo, il vero sé è capace di annullare il sé compiacente. Clinicamente questo costituisce un problema tipico dell’adolescenza” (1965a, 181-190).
Aggiungerei brevemente che, in adolescenza, la ricerca dei canali espressivi per il vero sé e, più in generale, per la definizione di un’identità propria, può estendersi dal singolo soggetto, che vuole emergere come “voce fuori dal coro”, al suo gruppo di appartenenza, diventando un “noi contro di voi”. Nella Londra di fine anni ‘70 erano frequenti gli scontri tra bande di Punk e di Teds: ciò che nelle sale dei concerti punk, per quanto estremo, rimaneva per lo più all’interno del registro della parola e del simbolico, ovvero di una “teatralità antisociale” (Home, 1995, 88) che vedeva l’organizzarsi estemporaneo di un gruppo giovanile intorno a un leader che non imbracciava un fucile, ma una chitarra, nella strada prendeva la forma di un’aggregazione violenta intorno ai soggetti più antisociali. In entrambi i casi mi sembra si possa osservare l’oscillazione tra una polarità in cui la soggettività dell’adolescente tende a disperdersi nella massa, secondo i meccanismi descritti da Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), e una in cui, all’opposto, l’adesione al leader antisociale di un gruppo ha l’effetto di rafforzare i confini del sé (come, ancora una volta, ci indica Winnicott). Due “pulsazioni”, due momenti diversi del funzionamento psichico dell’adolescente, posti in una tensione dialettica l’uno rispetto all’altro.
Gimme danger[9]. Il corpo “in scena”, il corpo “fuori scena”
Il punk rappresenta un genere musicale che si fonda essenzialmente sulle performance live, sui concerti. Il corpo ne è l’assoluto protagonista. Nel titolo di questo paragrafo ho voluto giocare con la parola “scena” per riferirmi sia alla scena fisica nella quale si svolge il concerto, divisa nelle due parti fondamentali del palco e della platea, sia alla scena come sinonimo di rappresentazione psichica, di pensabilità. Infatti, in adolescenza, il corpo assume un ruolo duplice e contraddittorio: da un lato, quello di base sensoriale e motoria che contiene la mente ed orienta le rappresentazioni di sé, come il “nord magnetico” della bussola; dall’altro, paradossalmente, a causa delle trasformazioni della pubertà, quello di perturbante che può mettere in scacco il pensiero (Cahn, 2013). Proviamo a vedere le due facce della medaglia attraverso il punk.
Abbiamo visto come il punk, dal punto di vista ritmico, non sia adatto a sostenere la danza; la sua energia, fondata sui tempi veloci e sull’estrema linearità ritmica delle canzoni, si è tradotta in quella peculiare forma di ballo che è il pogo, consistente nel saltare sul posto scontrandosi e spingendosi gli uni con gli altri. Il pogo, quando fu inventato, “rappresentava il massimo del ballo minimale, adatto a (e evidentemente ispirato da) una tendenza ritmica della musica – quella ad eliminare distinzioni e differenze” (Laing, 1985, 118).
In questa accezione, il pogo può essere considerato un ballo non di gruppo, ma “di massa” (con un chiaro riferimento al già citato saggio di Freud): una forma di eccitazione e di incitazione collettiva, fortemente catartica, nella quale il soggetto accetta i rischi di “perdersi” psichicamente nella massa, lasciando che il proprio corpo si abbandoni ad una dinamica che risponde più alle leggi della fisica che non a quelle delle scienze comportamentali.
Ma quel che è interessante è che, nonostante questa energia sfrenata e fuori controllo, il pogo non viene considerato come un comportamento violento o distruttivo per le persone. Ancora Laing (ibid.) sottolinea che “nel punk non esiste il problema di azioni realmente violente compiute durante gli spettacoli. […] L’incidenza di offese fisiche significative durante i concerti punk non sembra essere stata rilevante, e il baccano fatto dai media sui «tumulti» riguardava i danni alla proprietà (sedili rotti ecc.), fatti di ordinaria amministrazione nel vandalismo dei tifosi di calcio dell’epoca” (119). Siamo cioè di fronte a situazioni nelle quali, nonostante l’uso sfrenato e rischioso del corpo, sembra conservarsi una capacità rappresentativa che funge da limite per la soggettività.
Ancora ad una rappresentazione, sebbene di qualcosa di estremo e di “inaccettabile per la società”, rimanda la descrizione impressionistica che Antipirina et al. (1978) forniscono dei primi concerti punk: “Indumenti di plastica, svastiche e spille di sicurezza sugli abiti stracciati, catene e camicie sporche di vernice, i nuovi barbari conquistano la scena sulla quale sono preceduti da una nuova e tenebrosa Erinni: MADONNA ISTERIA! Per terra, centinaia di lattine di birra e di bottigliette vuote, nell’aria una perfida atmosfera sado/masochista. Pubblico e scena, ognuno per proprio conto, si devono ad ogni incontro accollare i rischi dell’happening. Non ci vollero molte repliche prima che fossero banditi da ogni sala da concerti e da ogni teatro” (10). Senza entrare nel dettaglio dell’iconografia punk – che ricorre ad abiti di scena e ad oggetti che solo raramente vengono utilizzati per rappresentare una precisa ideologia, ma per lo più come simboli per generare un effetto provocatorio e scioccante – vorrei qui mettere in evidenza come il punk, almeno quello delle origini, si proponesse come un esempio, trasgressivo e scandaloso, di arte performativa, nella quale si inseguiva “il sogno impossibile […] di abolire la distanza, e quindi la differenza, tra esecutore e pubblico, tra il ruolo attivo del primo e quello passivo del secondo. Il punk era nato in opposizione al rock fatto di superstar che se ne andavano in giro con apparati super-tecnologici di fronte a un pubblico che non poteva far altro che comprare dei biglietti carissimi. Un effetto prodotto dai primi gruppi punk fu quello di trasformare gli ascoltatori in musicisti” (Laing, 1985, 109).
In tutto ciò il corpo la fa da protagonista. Musicisti e pubblico si incitano e provocano reciprocamente, come testimonia l’usanza tipicamente punk dello sputo: “lo sputo costituisce un fatto speciale per due ragioni. Rappresentò un contributo personale del punk al lessico dell’interazione pubblico/performer, e fu un rituale adottato sia dai musicisti sia dal pubblico: sputavano l’uno all’altro, e spesso l’uno sull’altro” (ibid., 112). Nei concerti punk l’artista sul palco non aveva alcuna intenzione di ingraziarsi il pubblico[10], ma accettava anche di esporsi alla reazione di una platea la quale, a sua volta, si sentiva autorizzata ad annullare la distanza tra sé e l’artista: “l’incitamento proveniente dal palco trovava una risposta in sala. Non appena i musicisti lanciavano un assalto rituale, la reazione del pubblico era assicurata” (ibid., 111).
I “confini” interni alla scena, ovvero quelli che dividono fisicamente gli artisti dal pubblico, vengono sospesi, ma mi sembra che anche in questo caso, come in quello del pogo, il tutto resti per lo più all’interno di una cornice di rappresentabilità.
Tuttavia, situazioni del genere si muovono inevitabilmente sull’orlo del caos: musica e rappresentazione sono sempre a rischio di scomparire. Osservandole dall’esterno, possiamo rintracciare, da un lato il ripetersi di elementi che, seppur estremi (come lo sputo), fanno parte del rituale punk, quindi hanno una valenza simbolica e si inseriscono in una “struttura di significati”; dall’altro, momenti nei quali si può pensare avvenga una sorta di dissociazione tra la mente offuscata e il corpo “gettato nella mischia”, una condizione psichica, individuale e gruppale, vicina alla perdita dei confini. In queste dinamiche il corpo oscilla tra “azioni parlanti” ed agiti che lo spingono vicino, e a volte pericolosamente oltre, il limite.
Se penso a un adolescente immerso in questo genere di situazioni, inevitabilmente me lo immagino come molto a rischio, in quanto ancora immaturo psichicamente e fortemente attratto da esperienze di limite che definiscano il sé. L’adolescente, spinto dal proprio “corpo pulsionale”, si muove psichicamente lungo il crinale che separa il campo del rappresentabile da quello del non più rappresentabile: segnala l’esigenza psichica di affermare la sua assoluta giurisdizione sul proprio corpo, ma al tempo stesso può viverlo come “estraneo”, come un “mezzo di cui ha perso il controllo”. Nicolò afferma che, in adolescenza, “talora esiste una sorta di dissociazione affettiva dal corpo. Il corpo diventa «oggetto del parlare», «sorgente di sensazioni» non integrato nella mente e perciò nella soggettività in via di costruzione dell’adolescente [il quale] si guarda come se fosse all’esterno di sé, è lo spettatore di se stesso ed esiste nel sentire, nelle sensazioni che prova, sulla superficie della pelle, vista dall’esterno o vissuta sul piano sensoriale” (2016, 26-27).
Un ulteriore spunto di riflessione su tale complessa questione mi è giunto dalla visione di Gimme Danger[11], film-documentario di Jim Jarmusch su Iggy Pop e gli Stooges, considerati tra i principali esponenti del cosiddetto proto-punk. Sono rimasto colpito dall’uso esibizionistico, provocatorio, quasi sacrificale, che l’“Iguana” faceva del proprio corpo quando era sul palco. Insolera (1978) lo descrive così: “In scena, Iggy Pop si frusta la schiena a sangue, si masturba con il microfono, aggredisce. Nella vita, vive sulla propria pelle la corsa verso la morte: è un junkie, e la sua energia viene risucchiata via: dalla droga, dal suo morire sul palco, estenuato alla fine di ogni concerto” (160). Mi sono chiesto che differenza sussista, dal punto di vista intrapsichico, tra l’esposizione teatrale del corpo fatta dal frontman degli Stooges (e come lui tanti altri, non solo nel mondo del punk) e l’“agire sul corpo, agire con il corpo” di cui parla Nicolò (2016, 26) a proposito degli adolescenti. Fermo restando che, in questi casi, non credo si possa tracciare un confine netto tra rappresentazione ed agito, credo che la prima si abbia quando il soggetto integra dentro di sé la sensorialità e la sensualità (Nicolò, 2016), ovvero quando l’investimento libidico del corpo funge da “rete di sicurezza” contro il superamento del limite; al contrario, quando si verifica una scissione tra sensorialità e sensualità, il corpo è sempre esposto a grandi rischi.
Solo quando la mente avrà completato il processo di integrazione del corpo, oggetto di uno stabile investimento libidico, il soggetto potrà scegliere di portarlo al limite, metaforizzando quella vicinanza tra la vita e la morte che invece, nella mente adolescente, può essere ancora un rischio reale.
See No Evil[12]. L’immaturità creativa
Il punk è ancora attuale? Il fenomeno musicale di cui ho parlato in queste pagine, maturato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti a partire dagli anni sessanta ed esploso negli anni settanta, sembra avere avuto, seppur con alterne vicende, un suo sviluppo fino alla fine del secolo scorso, per poi “disciogliersi” e venire “riassorbito” nel mare magnum del pop-rock. Come genere musicale esso ha ancora un suo seguito ed è fonte di ispirazione per molti giovani musicisti. Come movimento giovanile possiamo dire che il punk sia tramontato assieme alla giovinezza di coloro che l’avevano fatto esplodere. D’altro canto sono venuti meno i presupposti sociali e culturali che ne erano stati il terreno di coltura.
Nel corso di una parabola che dura ormai da cinquant’anni, il punk è stato dato per morto più di una volta; eppure fa ancora parlare di sé, ritorna in continuazione. Credo che ciò dipenda dal fatto che esso esprime una vitale esigenza di crescita e di rinnovamento, che è insita nell’essere umano e che, come abbiamo visto, si presenta ciclicamente nell’arte. Crescita e rinnovamento che si possono realizzare solo se si accetta di avere a che fare con ciò che, ad un primo sguardo, sembra estraneo, inquietante, quindi non integrabile (il “diabolus”), come ci dimostra efficacemente la Psicoanalisi.
Da questo punto di vista possiamo dire che il punk, così come l’adolescenza, rappresenti una sorta di “enzima”, un fattore psichico trasformativo che è sempre pronto ad attivarsi nel soggetto, anche durante la vita adulta. Se i generi musicali fossero assimilabili ai microelementi necessari al corpo, così che solo la bilanciata presenza di tutti essi – nessuno escluso – ne garantisse la salute, si potrebbe dire che la mente umana ha certamente bisogno di una giusta dose di “punk”, per poter rimanere in salute.
Il punk si presta perfettamente a rappresentare l’urgenza espressiva e quella che nel titolo ho definito l’“immaturità creativa”, tipiche del pensiero adolescente: come questo, ha il compito di rompere i vecchi schemi e di aprire nuovi spazi di rappresentabilità e, così come l’adolescenza, è destinato a passare o, meglio, ad evolvere. “Nei giornali dicono che il punk sta per morire. La sola ragione per cui potrebbe farlo, è che i punks sono cambiati in qualcos’altro”, affermava Vivienne Westwood (cit. in: Antipirina et al, 1978, 57).
Questa “immaturità creativa”, come ci mostra ancora una volta Winnicott (1971), non rappresenta solamente un’indispensabile spinta per la crescita psichica del soggetto, ma anche un elemento vitale per la società: “L’immaturità è una parte preziosa della scena dell’adolescente. In questa sono contenute le più eccitanti caratteristiche del pensiero creativo, un nuovo e fresco sentire, idee per un vivere nuovo. La società ha bisogno di essere scossa dalle aspirazioni di coloro che non sono responsabili. Se gli adulti abdicano, l’adolescente diventa adulto prematuramente ed attraverso un processo falso” (225). “Una delle cose emozionanti dei ragazzi e delle ragazze adolescenti si può dire che sia il loro idealismo. Essi non si sono ancora cristallizzati nella disillusione, ed il corollario di ciò è che essi sono liberi di formulare programmi ideali. […] Non tocca all’adolescente avere una visione a distanza, che può venire più naturalmente a coloro che hanno vissuto attraverso molti decenni, ed incominciano ad invecchiare” (229).
Note:
[1] Titolo di un brano del gruppo punk degli Adverts, dall’album: Crossing The Read Sea With The Adverts, Bright Records, 1978. [Per la discografia, salvo diversamente indicato, faccio riferimento a quella citata nel libro di Stefano Gilardino, La storia del Punk, Hoepli, 2017]
The Adverts, “One Chord Wonders” (1978).
[2] Pensiamo, ad esempio, all’inconfondibile riff di “Smoke On The Water” dei Deep Purple.
[3]“Un accordo è ok. Due accordi sono il limite massimo. Tre accordi e stai suonando jazz” (Lou Reed) (cit. in: Gilardino, 2017, 2).
[4]Nessun gruppo, meglio degli americani Ramones, può darci una dimostrazione più convincente di questa evoluzione del rock’n’roll.
[5] Tratto dall’album dei Sex Pistols: Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols, Virgin, 1977
Sex Pistols, “Anarchy in the Uk” (1976).
[6] Tratto dall’album dei Sex Pistols: Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols, Virgin, 1977.
Sex Pistols, “God Save The Queen Revisited”.
[7] Brano della band californiana degli Adolescents, tratto dall’album omonimo Adolescents (Frontier, 1981)
Adolescents, “Who is who” (1981).
[8] Possiamo trovarne esempi celebri anche nella musica contemporanea e nel rock, come le prime note di Purple Haze di Jimi Hendrix.
[9] Canzone di Iggy & The Stooges, tratta dall’album: Raw Power, Columbia Records, 1973.
Iggy & The Stooges, “Gimme Danger” (Bowie Mix) (1973).
[10] “Non sono qui per il vostro divertimento, voi siete qui per il mio”, affermava Johnny Rotten (Gilardino, op. Cit. 45).
[11] Jarmusch J. (2016). Gimme Danger. USA.
[12] Brano dei Television, tratto dall’album: Marquee Moon, Elektra, 1977.
Television, “See no Evil” (1977).
Bibliografia
Antipirina R. (1978). Il dolce stil novo degli anni ‘80. In Antipirina R., Binaghi W., Insolera M., Veleno R. (a cura di), Punk. I “nuovi filosofi” della musica pop, Milano, Arcana Editrice.
Blos P. (1979). L’adolescenza come fase di transizione. Roma, Armando, 1988.
Cahn R. (2013). La psicoanalisi alla prova dell’adolescenza. In Cahn R., Gutton P., Robert P., Tisseron S. (a cura di), L’adolescente e il suo psicoanalista, Roma, Astrolabio, 2014.
Eco U. (a cura di) (2007). Storia della bruttezza. Milano-Firenze, Bompiani-Giunti.
Freud S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. O.S.F., 9.
Gilardino S. (2017). La storia del Punk. Milano, Hoepli.
Home S. (1995). Marci sporchi imbecilli. Attraverso la rivolta punk. Roma, Arcana Editrice, 2012.
Insolera M. (1978). Per una definizione discografica del fenomeno punk. In Antipirina R., Binaghi W., Insolera M., Veleno R. (a cura di), Punk. I “nuovi filosofi” della musica pop, Milano, Arcana Editrice.
Laing D. (1985). Il Punk. Storia di una sottocultura rock. Torino, E.D.T. Edizioni, 1991.
Losso R. (2000). Psicoanalisi della famiglia. Milano, Franco Angeli.
Nicolò A.M. (2016). Il corpo estraneo in adolescenza. In Nicolò A.M., Ruggiero I. (a cura di), La mente adolescente e il corpo ripudiato, Milano, Franco Angeli.
Vitaliano F. (2013). Sex Pistols. La più sincera delle truffe. Milano, Laurana Editore.
Winnicott D.W. (1965a). Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando, 1970.
Winnicott D.W. (1965b). La famiglia e lo sviluppo dell’individuo. Roma, Armando, 1999.
Winnicott D.W. (1971). Gioco e realtà. Roma, Armando, 2006.
*Per citare questo articolo:
Onofri F., (2024) “Il punk: l’immaturità creativa”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 181-205
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
Condividi questa pagina:
Centro Veneto di Psicoanalisi
Vicolo dei Conti 14
35122 Padova
Tel. 049 659711
P.I. 03323130280