Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
*Per citare questo articolo:
Spagnolo R., (2024) “Un percorso inaspettato per lo scambio interpsichico: la musica nell’analisi di un giovane adulto”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 96-113
di Rosa Spagnolo
(Roma), Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Adriatico di Psicoanalisi.
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
Si ringrazia la Casa Editrice Astoria NY, e le curatrici del volume B.N.Seitler and K. Kleinman, per la gentile concessione alla riproduzione e upgrade del lavoro: Spagnolo R., An Unexpected Pathway for Interpsychic Exchange: Music in the Analysis of a Young Adult. In. B.N. Seitler and K. Kleinman (Eds), In honor of the Psychoanalytic Development Psychology of Sylvia Brody (pp. 341-357). Astoria NY: IPBooks, Astoria, NY, 2017
Introduzione
Di solito consideriamo la creatività, ed in generale l’arte, un modo per esplorare e rivelare la mente umana. D. Winnicott colloca la creatività primaria (Winnicott 1953) alle origini della vita, nella relazione primitiva madre-bambino. Seguendo l’autore (Winnicott, 1953, 1970) il bambino crea l’oggetto “madre” collocandolo in un’area di transizione tra me e non-me, durante i primi mesi di vita, ed è in quest’area illusionale che emerge la creatività grazie a questa sua capacità onnipotente di creare e trovare l’oggetto senza alcuna richiesta di adattamento alla realtà. La creatività musicale, essendo una comunicazione pre-verbale già presente nella vita intrauterina attraverso i suoni e i ritmi del corpo della madre, può essere collocabile in un periodo pre-transizionale. Scrive Di Benedetto (1991): “Se pensiamo per un attimo a cosa consiste la musica, scopriremo che contiene elementi derivati dall’esperienza corporea. Le componenti fondamentali della musica sono il ritmo, l’armonia e la melodia. Il ritmo è ovviamente legato al battito cardiaco; l’armonia, che agisce come elemento di coesione, è fondamentalmente analoga all’esperienza di un tessuto connettivo, di una rete che sostiene; la melodia, che consiste in suoni ascendenti e discendenti che si dipanano lungo un percorso sinuoso, può essere considerata come il respiro della musica. La musica è anche un insieme di stimoli sonori che colpiscono i nostri organi ricettivi non solo acusticamente, ma anche a livello tattile, così da riprodurre il primordiale ‘bagno di suoni’ (Anzieu 1985), una delle prime esperienze che definiscono i limiti del corpo. In uno spazio fisico di questo tipo, le rappresentazioni, e tanto meno gli elementi pensabili, non possono ancora esistere” (Di Benedetto, 1991, 418).
Potremmo quindi dire che la creatività musicale precede la creazione dell’area transizionale, cioè il suo potenziale creativo, e soprattutto la sua potente comunicazione, non è legato a fenomeni collocabili nell’area transizionale e, nemmeno, per come suggerito dalle neuroscienze affettive, a processi cognitivi rappresentazionali successivi: “La musica deriva la sua carica affettiva direttamente da aspetti dinamici dei sistemi cerebrali che normalmente controllano le emozioni reali e che sono distinti dai processi cognitivi, anche se altamente interattivi con essi” (Panksepp & Bernatzky, 2002, 135).
Il corridoio interpsichico
Durante il trattamento psicoanalitico trascorriamo molto tempo in un’area affettiva (fenomeno del transfert/controtransfert) al di fuori della coscienza, senza alcuna possibilità di controllo di ciò che accade dall’interno. Essere in contatto, dall’interno, con il mondo del paziente, significa vivere “insieme” in un doppio registro psichico in cui nessuno perde la propria soggettività. Quando ciò accade, ad esempio con pazienti che adottano difese molto primitive, la musica può aiutare a ripristinare il contatto perso della propria soggettività. La disponibilità della musica ad abitare lo spazio fisico senza appartenere a nessuno permette a tutti di utilizzarla in modo emotivo e soggettivo. Quello che propongo è di implementare il concetto di spazio transizionale già avanzato da Brody nel 1980 (lavoro in cui mostrava i limiti delle affermazioni di Winnicott sull’illusione e sul fenomeno transizionale) introducendo il concetto di regno interpsichico (Bolognini, 2004; 2022).
È in questo spazio/estensione psichica che Bolognini ha collocato i suoi studi sulla dimensione interpsichica che descrive come segue: “L'”interpsichico” è una dimensione psichica estesa, che riguarda il funzionamento congiunto e le influenze reciproche di due menti. I concetti di ‘soggettività’ e ‘persona’ possono essere inclusi nell”interpsichico’. A volte possono sovrapporsi l’uno all’altro, e a volte tutti e tre insieme, ma non necessariamente coincidono” (Bolognini, 2004, 337).
Potremmo descrivere l’interpsichico non solo come un transito (corridoio attraverso il quale veicolare informazioni), ma anche come una zona di transizione tra dimensioni psichiche diverse (quelle segnate dalla soggettività). Un esempio, a latere, per meglio comprenderne la dimensione, potrebbe essere trovato nella dimensione collettiva dello spazio virtuale della rete, che sembra aver assunto le caratteristiche di un interpsichico planetario esteso tra milioni di persone, che non appartiene a nessuno, ma che è co-prodotto da tutti e influenza la psiche individuale trasformandola continuamente. Come meglio chiarisce Bolognini è un “funzionamento a ‘banda larga’ (l’interpsichico), in quanto permette la naturale, ininterrotta e non dissociata coesistenza di stati mentali in cui l’oggetto è riconosciuto nella sua separatezza accanto ad altri in cui il riconoscimento è meno chiaro” (Bolognini, 2004, 345).
Conoscere meglio le caratteristiche dell’interpsichico potrebbe fornirci ulteriori strumenti di esplorazione per poter attraversare più facilmente questo psichico esteso.
In particolare, acquisire familiarità con la visita all’area dell’interpsichico può essere essenziale con quei pazienti che non permettono all’analista di entrare nelle camere di lavoro della psiche (l’intrapsichico), richiedendo lunghe soste nell’anticamera del sé in attesa che “qualcosa accada”.
L’interpsichico e la musica
Partendo da questi due temi di punta, l’interpsichico (Bolognini 2004, 2011, 2022) e la musica, che “come i sogni, serve come punto d’ingresso agli affetti e all’inconscio” (Nagel J.J., 2008, 508), esploreremo il potenziale di quest’ultima nel percorrere un corridoio interpsichico tra l’analista e il paziente.
Attraverso il materiale clinico presentato, rifletteremo sull’analisi di un giovane paziente, in cui la musica ci ha dato la possibilità di aprire un’inaspettata via di scambio tra due menti chiuse e incapaci di comunicare. Questa apertura, inaspettatamente introdotta dalla musica rock[1], ha permesso il transito di informazioni reciproche (emozioni, affetti, tracce di ricordi) in grado di rimettere in moto quei processi intrapsichici che talvolta sembravano bloccati da un’eccessiva ricorrenza (uso ricorsivo) delle stesse immagini.
Y., 20 anni, capelli e occhi neri, è alto e forte. Ha concluso la scuola superiore e ora vive isolato in casa non sapendo cosa scegliere. Trascorre la giornata chiedendosi cosa lo renderebbe felice e quale potrebbe essere la scelta migliore per il suo futuro. Fin dal nostro primo colloquio ripete di non essere convinto di alcuna scelta già fatta. Sua madre, con cui vive da quando i suoi genitori si sono separati, ha appena deciso di trasferirsi in un altro Paese.
Nella tentazione psicotica, il ritiro dell’Io dalla realtà esterna e l’indebolimento della realtà stessa giocano un ruolo importante nell’organizzazione di uno stadio iniziale della psicosi (Freud, 1924). In questi primi incontri percepisco distintamente come stia scendendo velocemente lungo questo stretto crinale che conduce direttamente al ritiro psicotico. Percepisco cioè il possibile verificarsi di una forma strutturale di psicosi per come descritto da Monniello: “Sono le psicosi senza episodio delirante o allucinatorio, almeno inizialmente. Sono spesso molto più presenti nella seconda parte, o alla fine dell’adolescenza, cioè tra i 16 e i 20 anni… In cima alla lista ci sono il problema del ritiro narcisistico, la negativizzazione autoerotica e la defusione istintuale. Le pulsioni aggressive non correlate a quelle erotiche attaccheranno, in questo caso, soprattutto il pensiero nel suo complesso” (Monniello, 2012, comunicazione privata).
Durante i primi mesi di terapia parla raramente dei suoi genitori. A voce bassa, senza alcun colore emotivo, racconta dei suoi pochi amici e del suo non desiderio di frequentare l’università. Oscillerà continuamente tra una chiusura interattiva estremamente passiva e timidi tentativi di contatto emotivo con il suo nucleo solitario e sofferente.
Non appena questo contatto si rende possibile, Y., dotato di una buona intelligenza cognitiva, individua la fonte di sofferenza e la cancella attraverso un crescendo di pensieri ossessivi, una sorta di “disfare ciò che è stato fatto e isolare” (Freud, 1926, 268), in cui dice ripetutamente: “Il problema è scomparso, non esiste più – risolto”. Le mie parole, che apparentemente condivide, seguono lo stesso destino, venendo cancellate attraverso questo crescendo di pensieri ossessivi focalizzati intorno a un’unica idea: “Questo non è un problema”.
I mesi passano velocemente e ci avviciniamo alla pausa estiva. Siamo esattamente allo stesso punto di partenza. Poi, un giorno, nel bel mezzo della sessione, la suoneria del mio cellulare irrompe in seduta poiché l’avevo dimenticato acceso nella stanza accanto. Lui salta sulla sedia dicendo, con molta enfasi:
“Ma sono i Muse, Starlight[2]. Ma tu non ascolti questa musica, vero?”.
“Beh! Scusa, ma perché no? ” rispondo immediatamente e spontaneamente.
E prosegue: “Beh, è solo che credevo che gli psicoanalisti fossero quelle cose antiche che ascoltano i Jethro Tull, o qualcosa di simile al flauto di Ian Anderson, o al massimo i Pink Floyd, piangendo su “wish you were here”, ma i Muse…non se ne parla! Ora mi dirai anche che andrai al concerto di luglio?”.
Chiedo divertita “Tu che tipo di musica ascolti invece?”.
“Rolling Stones”.
Incredula, pensando di non aver capito bene, replico: “Intendi i Rolling Stones degli anni 60/70?”.
“Già! Gli unici insormontabili!” Risponde con un ampio sorriso.
Mentre sorrido anche io, aggiungo: “Sembra che ci siamo scambiati le parti! Scusa, ma tu dovresti ascoltare Muse, Green Day, Linkin Park mentre io, dovrei correre dietro ai Jethro Tull, Bob Dylan, Lou Reed, e godermi la compagnia dei Rolling Stones, io che appartengo al secolo scorso!”.
Ride divertito, sorpreso dalla suoneria e dalla mia reazione. Era la prima volta che lo vedevo ridere. E prosegue: “Vado da mamma per due mesi, ma poi torno a luglio per i Rolling Stones, se sei ancora qui, ci vediamo”. E così sarà.
La comunicazione clandestina
La suoneria è stata il nostro “cat-flap“[3] e dopo questa breve interazione, il trattamento prende un ritmo diverso, a volte lento, a volte veloce e implacabile. Insieme riusciamo a salire il primo gradino verso la fiducia nel trattamento (non chiederà più perché viene analizzato) e poi verso la condivisione di sogni, emozioni e affetti. Tuttavia, arriveranno lunghe soste buie, senza alcuna progressione, in cui blocca attivamente ogni forma di comunicazione nel tentativo di contenere la sofferenza che lo circonda. La musica riesce ad aprire, a volte improvvisamente e inaspettatamente, un corridoio interpsichico attraverso il quale lo scambio può fluire. Questo inizia clandestinamente da qualche parte (impossibile sapere in anticipo chi inizierà e quale sarà l’oggetto dello scambio) e ha il potere di riavviare sia la comunicazione intrapsichica che lo scambio intersoggettivo. Zuckerkandl (1973) sostiene, in diversi passaggi, che la musica dissolve i confini tra il sé e gli altri; tesi ripresa da Rose nel 2004, quando afferma che la musica può essere utilizzata come un importante indicatore della permeabilità dei confini psichici (Dimitrijevic, 2008). Quando questa dissolvenza dei confini si verifica durante la seduta, il terapeuta deve avere l’abilità analitica di contenere lo scambio di informazioni che fluiscono liberamente, e prepararsi al loro successivo recupero per renderle operative all’interno del processo analitico e per mobilitare nuove risorse terapeutiche.
Torniamo all’analisi del materiale clinico.
Mi dice che vorrebbe parlarne, ma si vergogna perché si sente male come il cantante. Lo guardo a lungo in silenzio, mentre nella mia mente si mescolano e scorrono le immagini colorate di un mondo universitario variopinto e il nero di questa musica triste. Nel frattempo mi rendo conto che sta avendo una micro-crisi di panico (suda, soffre la mancanza d’aria e chiede se la finestra è aperta o chiusa).
Lo guardo intensamente e gli dico: “Non siamo Peter Murphy incastrati tra la tristezza e la morte, soli nel buio… abbiamo anche altri strumenti che conosciamo e possiamo suonare”.
Si calma e parla dei suoi attacchi di panico. In questa occasione, sostando nel corridoio interpsichico dell’ascolto musicale, abbiamo potuto “pescare” esperienze vissute (e sintomi) di patologie mai espresse prima.
“La musica può funzionare come un grido o un lamento surrogato o ausiliario, un’esternalizzazione di uno stato interno intollerabilmente opprimente, incomprensibile o schiacciante. Può dare voce a sentimenti altrimenti inesprimibili, a vaste aree di affetti travolgenti per i quali il linguaggio parlato e scritto può essere inadeguato, parlando in sostanza per il sé cancellato o messo a tacere dalla disperazione, o simboleggiando esperienze e affetti altrimenti troppo intensi o travolgenti per essere espressi direttamente.” (Stein A., 2004, 807)
Il contatto ravvicinato con tali esperienze era ancora intollerabile all’epoca, tanto che durante le sedute successive egli elaborava la cancellazione degli affetti, annullando ciò che era stato fatto (Ungeschehenmachen, Freud, 1926). Nelle parole del paziente: “Quello che è stato detto non è un problema, sono in grado di controllare tutto con il pensiero mentre parlarne è assolutamente inutile. È meglio che metta tutto sotto il tappeto”.
Andremo avanti così finché un giorno verrà in seduta allarmato lamentandosi di non ricevere calore, che il nostro non è un rapporto umano.
“Non ci sono abbracci, carezze o qualsiasi tipo di contatto. Non è uno scambio alla pari, non c’è nulla di umano”.
Sento che sta entrando in contatto con oggetti bizzarri (Bion, 1992), duri, pungenti che di solito tiene lontani. Tuttavia, ora irrompono nella nostra stanza, lo molestano (sembra sofferente) e aggiunge frettolosamente:
“È meglio che tenga tutto nascosto sotto il tappeto, altrimenti potrei sentirmi come quei pezzetti di polvere… che vengono gettati in giro per la stanza… più tardi sarà troppo faticoso per me rimettere tutto sotto il tappeto”.
Con molta cautela, in diversi momenti, provo a mettere insieme tutte queste sensazioni e immagini (la polvere che vaga silenziosa) dicendo, a più riprese, che sembra volermi mostrare qualcosa di sé (la polvere che vaga) e/o del suo rapporto con mamma o papà (il rapporto umano con me), ma sembra anche che l’unica cosa che io posso fare per lui sia alzare il tappeto e aiutarlo a nascondere tutto. Infine parla apertamente di sua madre, giovane e bella e del padre sfuggente:
“La mamma è così mutevole che a volte ho paura che anche tu possa essere così. È capace di una grande vicinanza, ma poi è così ipercritica che non le sfugge nulla e non ti lascia fare. Non puoi dirle “no”, altrimenti si impunta e non molla. Papà è fluido ed evanescente, incoerente, sempre pronto a dubitare di tutto, in costante conflitto con lei. Mi porto dentro queste due metà e a volte non so come tenerle insieme”.
Mentre continua a parlarne, li immagino, quasi li vedo con lui, come un bambino che giace tra di loro sotto il tappeto, quasi senza vita, che non respira (la stessa asfissia che abbiamo sperimentato reciprocamente nelle nostre sedute) affinché non entrino in conflitto e per evitare di dover scegliere. Lo lascio parlare fino alla fine mentre ascolto in silenzio. Quando sta quasi per andare aggiungo:
“Ho avuto l’impressione che oggi ci fossero molte persone qui dentro, io, tu, mamma, papà, e anche tutte le tue cose fuori dal tappeto e le nostre qui con noi, quelle di cui parliamo sempre”.
Sorride e mi chiede un minuto ancora per raccontarmi un paio di cose:
“Una buona e una cattiva. La prima: prima di venire a trovarti … avevo ascoltato i Rolling Stones e mentre ballavo e cantavo con loro sono riuscito a sentire il mio corpo… la seconda, triste e luttuosa, è che a volte mi sento come un pezzo di carne in decomposizione a cui aggiungo un po’ di spezie per non percepirne l’odore”.
Mi viene subito in mente Di Benedetto: “La musica è un linguaggio unico, diverso da tutti gli altri linguaggi umani. A differenza degli altri linguaggi, che tendono a spostarsi dal corpo alla mente, la musica spinge la nostra conoscenza a spostarsi dalla mente al corpo, dal simbolico al sensoriale, verso una matrice musicale ad ampio potenziale e di natura emozionale” (Di Benedetto, 1991, 424).
I sogni, come la musica, punto di ingresso degli affetti
L’investimento prodotto dal corpo in movimento quando danza in un contatto emotivo con la musica, coinvolge vari livelli sensoriali costringendo la mente a percepire sia il dentro che il fuori, che si intrecciano confusamente. A mio avviso, il faticoso, duro e segreto lavoro di copertura (spezie, profumi, filtri, tappeti) gli aveva permesso di sopportare il contatto con le parti morte o inanimate. Quando queste parti, che avevano il loro fetore o la loro acutezza, irrompevano nell’ordine ossessivo che aveva faticosamente costruito, lo spaventavano. In questi momenti di irruzione, mi rendo conto che se non riuscissi a trattenere quegli elementi, che ora fluiscono attraverso il corridoio interpsichico, questi tornerebbero sotto il tappeto diventando indisponibili per ulteriori trasformazioni. Condividiamo questa mia preoccupazione e lui comincia a sognare.
I suoi sogni sono abitati sia dalle poche persone che incontra, sia dall’improvvisa irruzione di elementi bizzarri. Sono indecifrabili e li tratteniamo senza precipitarci a dar loro forma. C’è, per esempio, il sogno di una strana danza di colori in movimento che lo angoscia fin da bambino:
“È un sogno che va e viene, non so come descriverlo ma mi insegue da quando ero bambino. Manca di immagini e sembra essere composto sia da una parte calma che da una movimentata, la prima parte è gialla e io ci navigo dentro, la seconda è verde/nera. È una forma che mi colpisce; come se fossero pugni che mi colpiscono e mi sballottano su e giù, ma non sono forme definite o cose reali”.
Si guarda intorno nella stanza alla ricerca dei confini tra giallo e verde. Poi parla della serie televisiva “Walking Dead“. Lo vedo piuttosto angosciato.
Gli dico: “A volte anche ciò che sembra essere solo virtuale, informe o irreale, come i sogni e la musica, hanno il potere di evocare emozioni e sentimenti reali e profondi come tutte le cose che mi stai raccontando oggi”.
Si sofferma a descrivere questa sensazione di non riconoscimento. Credo che ci sia anche una mancanza di riconoscimento di parti del sé che non riesce ancora a contattare. Nella seduta successiva porta sul volto un’espressione di disgusto per tutta la durata della seduta, che alterna con un tic orale altrettanto bizzarro creando una strana coreografia corporea che corrisponde al suo discorso.
Ogni corridoio viene nuovamente bloccato e, a parte quelle strane smorfie che componeva ritmicamente e ripetutamente, nulla tradiva un discorso inconscio tra parti del sé. Sappiamo che la ripetizione può essere talvolta organizzata su binari relazionali non simbolizzati. Ci si aspetta che ogni analista li riconosca, poiché si presentano all’interno della seduta analitica sotto forma di elementi corporei, come gesti, movimenti, posture, prosodia. Così, rimango invischiata in quelle immagini bizzarre fino al suo ritorno dalle vacanze.
Parte in anticipo per le vacanze estive e mi rassicura che tornerà perché deve andare ad un concerto. È la metà di luglio quando mi manda un messaggio: vogliono ricoverarlo. Gli viene detto che è in uno stato delirante e che gli verranno somministrati dei farmaci. Continua a scrivermi molti messaggi per alcune ore perché è profondamente angosciato poiché sua madre vorrebbe trattenerlo con sé. Non sa cosa fare. Essendo così lontana da lui, non so cosa avviene e cosa dire e, dopo averlo rassicurato, gli scrivo: “Perché non ti fermi a pensare un po’ alla tua musica”.
Quando le sue vacanze finiranno, rientrerà dicendo: “Come hai fatto a sapere che stavo pensando ai Rolling Stones, ho dovuto continuare a vivere per poterli riascoltare”.
L’impalcatura sonora del sé
Con il rientro dalle vacanze parleremo più francamente della sua ipocondria e dei suoi pensieri suicidi. Anche il discorso apparentemente strano e bizzarro sulle onde della musica, sulla loro costituzione, di cui a volte parlava a lungo, riusciamo a racchiuderlo in una battuta: “Presta le parole alle onde affinché anch’esse diventino intelligibili”. Cercando così di trasformare il traumatico allucinatorio in forme simboliche che possano liberarsi dalla coazione a ripetere l’esperienza traumatica della relazione primaria. Sento che il debole canale interpsichico originario è ora diventato un corridoio costruito su una struttura più forte attraverso cui viaggiare.
Pochi mesi dopo il suo episodio di derealizzazione e depersonalizzazione, su cui siamo ripetutamente tornati, lo vedo perso nelle sue ossessioni. Dico qualcosa su questo lavoro di disconnessione e isolamento degli affetti dal legame e sul suo funzionamento difensivo che richiede tanta energia per essere mantenuto. Si confonde, si perde. Più tardi riemerge parlando di un sistema sonoro elettronico in cui utilizzando gli stessi elementi di base i musicisti possono produrre molte performance diverse (mi fa diversi esempi musicali): “È una vera e propria impalcatura sonora che riescono a costruire combinando pochi elementi“, aggiunge continuando a parlare della struttura della musica.
Mi scopro a pensare a come sia fatto lo spazio psichico, a che tipo di impalcatura lo sostenga e se la cosiddetta impalcatura possa essere simile a quella “costruzione Geomag” la cui struttura può essere modificata mettendo o togliendo sfere e aste metalliche. Penso che anche il nostro spazio psichico si componga come un “Geomag”, aggiungendo o sottraendo pezzi per costruire l’impalcatura che sosterrà momentaneamente il nostro lavoro. Alla fine della sessione, dice:
“Oggi abbiamo avuto una seduta strana, di cosa abbiamo parlato? Eppure, non so perché, ma mi è sembrato molto bello”.
Gli rispondo (ma forse sto rispondendo a me stessa):
“Abbiamo trovato questa espressione: ‘impalcatura sonora’ e siamo entrati in uno spazio interpsichico dove ognuno di noi ha contribuito con un pezzo di qualcosa a costruire un’impalcatura. La musica ci ha aiutato a sentire che le cose possono essere condivise senza perdere la nostra soggettività”.
Quando se ne va, chiaramente soddisfatto, sono del tutto consapevole di essergli grata per questo dono: l’impalcatura di suoni che ci permetterà sicuramente di costruire nuove melodie e che mi aiuta a contenere tutti quegli elementi bizzarri che aspettano una nuova trasformazione.
Conclusione
Ci sono molti lavori riguardanti la musica e la psicoanalisi, come quelli di Di Benedetto (1991, 2001), Rose (1991, 1993, 2004), Stein (2004), Nagel (2008), Grassi (2014, 2021), Grier (2021), per citarne solo alcuni, che mostrano l’interazione reciproca a diversi livelli: dagli elementi costitutivi pre-simbolici della musica all’ascolto musicale. Purtroppo sarebbe troppo lungo addentrarsi nei singoli modelli teorici relativi alla creazione artistica, ma vorrei sottolineare che la premessa del nostro lavoro, che è ovviamente ciò che ci accomuna, è l’ascolto analitico. Ho cercato di avvicinarlo all’ascolto della musica, perché l’oggetto mancante può sempre essere allucinato, fantasticato o immaginato, ma difficilmente può essere sentito o ascoltato. In effetti per il paziente non era possibile, all’inizio, portare in seduta alcuna traccia sonora, musica o ritmo, perché mancavano nella relazione primaria costruita sul non investimento. Alcune tracce venivano riversate nell’interazione con l’analista come elementi percettivi (elementi bizzarri) che generavano un caos interno. L’analista doveva leggere, dedurre il senso, legare queste tracce per aiutarlo ad emergere dal caos cacofonico del suo mondo interno. E attraverso le diverse presentazioni sonore, è stato possibile parlare delle identificazioni affettive disarmoniche fornite dai suoi genitori. Da questo momento in poi la condivisione degli stati affettivi avverrà attraverso l’espressione linguistica del suo stile narrativo e il processo analitico si alimenterà anche delle parole (parole prestate alle onde, seguendo una battuta che ci accomunava).
Possiamo dire che, una volta aperto il transito interpsichico, attraverso l’ascolto della musica, è stato possibile lavorare sul registro intrapsichico rimescolando le tracce presenti e le nuove trascrizioni.
Vorrei concludere tornando ai due temi iniziali fondamentali, la musica e l’interpsichico. Sono convinta che il loro intreccio abbia favorito quel nostro particolare tipo di ascolto. Oltre ad altri vertici osservativi, che avrebbero potuto essere utilizzati per descrivere ciò che accadeva all’interno della stanza dell’analista, come le riflessioni di Bion sugli elementi bizzarri (1992), traccerei alcuni punti di contatto tra musica e psicoanalisi che potrebbero invece essere di qualche contributo a ulteriori indagini.
Innanzitutto la melodia. A. D. Patel, nel suo libro “Music, Language and The Brain” (2008) definisce la melodia attraverso due prospettive strategiche: da un lato può essere vista come sequenze sonore che contengono molte informazioni affettive, sintattiche, pragmatiche ed empatiche e, dall’altro, può qualificarsi come melodia in virtù dei ricchi schemi mentali che genera nell’ascoltatore.
Qui si può porre il riferimento clinico alla breve sequenza musicale ascoltata dalla suoneria del mio cellulare. La sua struttura melodica, più complessa delle nostre stesse voci, può aver favorito l’apertura del corridoio interpsichico che ha permesso l’avvio di un tipo di comunicazione meno legata alla ripetizione dei soliti elementi biograficici (narrazione storica degli stessi eventi).
In secondo luogo, non dimentichiamo il ritmo. L. Grassi (2014) descrive il ritmo all’origine della vita, dove alcuni ritmi di base combinano l’elemento visivo, l’elemento sonoro e altri canali percettivi. Il ritmo è nell’alternanza tra notte e giorno, sonno e veglia, presenza e assenza. In altre parole, il ritmo accompagna lo sviluppo umano per tutta la vita (Grassi, 2021). Per questo il trattamento psicoanalitico è stato molto importante per superare il ritmo ossessivo delle parole battute, sempre allo stesso modo, sul caos oniroide, muto e senza forma.
Infine, ritorno all’interpsichico avanzando un’altra potenzialità da esplorare: “La capacità di frequentare l’interpsichico con un accettabile grado di consapevolezza e di competenza tecnica, di ridurre l’aleatorietà degli sviluppi analitici e di aprire nuove vie d’accesso all’intrapsichico, richiede quindi una costante autoanalisi, un senso di rispetto e di continuità con il lavoro di chi ci ha preceduto in un secolo di ricerca psicoanalitica, e una ‘fiduciosa rassegnazione’ nella straordinaria paradossalità del nostro lavoro” (Bolognini, 2004, 353).
Note:
[1] “Va anche notato che certa musica rock, con i suoi testi e le sue pratiche esecutive spesso sovversive, contrarie all’establishment e alla controcultura, può svolgere un ruolo importante, soprattutto nell’adolescenza e nella prima età adulta (fasi di sviluppo transitorio che comportano la rinuncia a rappresentazioni dell’oggetto-sé precedentemente detenute), nel fornire un rispecchiamento e un’affermazione dell’esperienza di tipo kohutiano e nel servire a diminuire i sentimenti di isolamento o alienazione. In questo caso, la musica contiene e placa gli affetti opprimenti e può quindi svolgere una funzione consolatoria simile a quella della più convenzionale musica del lutto.” A. Stein, (2004, p. 795).
[2] Muse, “Starlight” (2006): https://www.youtube.com/watch?v=Pgum6OT_VH8
[3] “Vorrei soffermarmi brevemente su questo elemento della ‘gattaiola’. A mio parere, è un buon simbolo per un dispositivo strutturale (fa parte della porta) e funzionale (è stato specificamente progettato affinché il gatto possa svolgere la sua funzione di catturare i topi dentro e fuori casa) che non è solo intrapsichico, ma anche interpsichico. La gattaiola è ben distinta dalla porta, che permette il passaggio delle persone, e dalle fessure accidentali, che permettono il passaggio dei topi, ospiti clandestini e parassitari che danneggiano l’apparato comunitario/interpsichico-relazionale.” (Bolognini 2004, 343)
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*Per citare questo articolo:
Spagnolo R., (2024) “Un percorso inaspettato per lo scambio interpsichico: la musica nell’analisi di un giovane adulto”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 96-113
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