*Per citare questo articolo:

Olivotto C., (2024) “Siamo fuori di testa, ma diversi da loro. Il Rock, l’Edipo e la trasgressione alla luce del passare del tempo”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 59-77

“Siamo fuori di testa, ma diversi da loro ”

Il Rock, l’Edipo e la trasgressione alla luce del passare del tempo

di Caterina Olivotto

(Padova), Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.

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Immergersi nella storia del Rock partendo dalle sue origini è come salire nella DeLorean di Ritorno al Futuro e con essa fare un viaggio nel tempo, ritrovandosi così in periodi ormai lontani e carichi di atmosfere avvolgenti in cui momenti storici, fasi politiche, condizioni sociali e movimenti culturali si mescolano, si intrecciano e si esprimono attraverso quella meravigliosa forma d’arte che è la musica. È un viaggio affascinante che non stanca, che incuriosisce, che cattura e che, se ti permette di passare da un’epoca all’altra fino ad arrivare alla nostra, ti lascia andare a malincuore, regalandoti una piacevole strana nostalgia. È il richiamo dell’Adolescenza, di quel periodo della nostra vita a volte difficile, complesso, intenso e molto doloroso – come ci fanno ben vedere molte star del Rock – ma al contempo così ricco di tante possibilità che si animano in nuove spinte elaborative e creative. E se pian piano si riesce a fare un piccolo salto di lato e guardare tutto con un occhio un po’ distaccato, si riesce anche a scorgere qualcosa che scorre sotterraneo, ma che fa capolino: è la forza e l’anima dell’Edipo. La musica Rock, in tutte le sue forme, ne è intrisa e ci illumina soprattutto sul suo versante della ribellione, della trasgressione, della differenza dei sessi e delle generazioni. Scrive Bonfiglio “Possiamo vedere nel desiderio di Edipo di indagare […] oscuri accadimenti ciò che lo spinge ad operare una ‘trasgressione’, cioè ‘andare al di là, oltrepassare il già noto (Gaburri 1982), per comprendere di più. Porsi un problema e tentare di risolverlo quale stimolo al pensare, alimento della mente, fonte di sviluppo per la mente stessa (Meltzer 1981)” (Bonfiglio, 1991, 61). Mi sembra che questo andare al di là rispecchi esattamente quanto accade in Adolescenza e nella musica Rock che forse potremmo immaginare come l’adolescenza della musica.

Mi piace pensare, in una mia libera interpretazione, che De André in Anime salve[1] ci racconti anche dell’anima del tempo che passa da una generazione all’altra, la fa vivere incarnandola, dandole corpo per poi scivolare via e trasferirsi a un’altra epoca, a un altro momento e ricominciare, proprio come la voce di De André pian piano lascia il posto a quella di Ivano Fossati, dopo essersi poeticamente sovrapposta all’altra per un attimo. “Mille anni al mondo mille ancora / Che bell’inganno sei anima mia / E che bello il mio tempo che bella compagnia/ […]  Solo passaggi e passaggi / Passaggi di tempo / Ore infinite di costellazioni e onde / Spietate come gli occhi della memoria / Altra memoria e non basta ancora / Cose svanite facce e poi il futuro”. Ecco, mi piace pensare così all’Edipo, inteso qui come struttura, come all’anima del tempo che prende corpo in modo dirompente nell’Adolescenza dei ragazzi di un’epoca rendendola intensamente viva, animandola per poi pian piano lasciarla andare e passare a quella di altri ragazzi di un altro periodo creando una continuità nelle differenze. Ma è proprio così e cosa può farci vedere il Rock di tutto questo?

Un pensiero ha cominciato allora a girovagare per la mia mente presentandosi con due versanti e trovando espressione nell’ascolto del brano Zitti e Buoni dei Måneskin  “Sono fuori di testa, ma diverso da loro – e tu sei fuori di testa, ma diversa da loro – siamo fuori di testa, ma diversi da loro”. Da quest’urlo che inneggia alla ribellione e alla differenza ho immaginato allora un concept album e le sue due facciate.

 

“Siamo fuori di testa, ma diversi da loro” – Lato A

Cosa c’entrano i Måneskin con tutto questo e con il Rock quello “vero”? Credo, che in un certo modo c’entrino molto, che siano davvero i figli – diversamente degeneri? – di quel Rock degli anni ’70 e ‘80: Rolling Stones, Led Zeppelin, Doors, David Bowie, Fleetwood Mac, Radiohead, Nirvana ma anche molti altri gruppi e artisti di quei tempi, perché nei loro brani si sentono le passate influenze, ma le mescolano in maniera che, per questi nostri anni che sembrano così assopiti, appare in un certo modo quasi originale.

Insomma, trascinata da questa onda – mi viene in mente l’immagine del Surf nella California dei primi Beach Boys – mi sono chiesta: chi sono questi loro di cui parla il testo della canzone? La risposta appare evidente e in un certo senso contiene in sé il seme delle tematiche dei primi testi Rock ‘n’ Roll che prendevano spunto dalla vita e dai problemi degli adolescenti di allora e, soprattutto, ne esprimevano il desiderio di evidenziare la differenza: loro sono quindi la generazione precedente, i genitori, cioè, da una parte e in contrapposizione, i ragazzi e dall’altra gli adulti, l’altra generazione che, in qualche modo, si deve rifiutare, per emanciparsi e per trovare la propria strada. Sono/siamo fuori di testa è allora il modo dirompente di presentarsi, trasgressivo, rumoroso, di rottura. E questo diventa un vanto in quel momento, un modo per rompere gli schemi e potersi pensare forti e abbastanza attrezzati per andare ad esplorare quello che c’è al di là, per trovare la strada della propria autonomia e pian piano costruire la propria identità. Mi piace pensare il fuori di testa proprio come l’immagine dell’uscire fuori, del provare a stare fuori da quella testa che fino a quel momento era la testa che in qualche modo il ragazzo sentiva dettata, imposta forse, dall’adulto. La trasgressione, la ribellione quindi come un o il modo per dire il proprio “no” e tracciare una linea di demarcazione, di differenziazione con la generazione precedente. La possibilità di opporsi ha una funzione insostituibile nella crescita e nel processo di individuazione e l’oscillare tra l’identificazione e l’opposizione permette l’affermarsi sia dei processi di apprendimento e di introiezione che quelli di separazione e di individuazione.

Mentre mi intrattenevo con questi pensieri fa capolino Edipo che mi dice “non pensi di star parlando di qualcosa che ha a che fare con me?” “Certo – gli rispondo – in effetti proprio te cercavo!”. Scrive ancora Bonfiglio “Sono le incrinature dei primi processi di rispecchiamento che si delineano con la crescita a rendere necessaria la creazione di una propria immagine di sé e fanno emergere differenze e incompatibilità. E lo sforzo di Edipo è rivolto a capire la sua origine e ad acquisire la propria identità attraverso un processo di differenziazione” (Bonfiglio, 1991, 67).

La ricerca di chi si è sembra allora centrale e basilare. Scrive L. Russo “Il sentimento di identità e la ricerca del senso di sé accompagnano gli individui lungo tutto l’arco della vita. Tuttavia il processo è asintotico e non sfocia in una struttura d’identità conclusa e definita, in quanto il suo motore è l’esperienza della separazione dell’infante dalla madre. «Separazione imperfetta»[2] perché l’esperienza della perdita dell’unità spinge le pulsioni sempre insoddisfatte, alla ricerca del godimento dell’unione perduta” (Russo, 2009, 52). E l’Adolescenza è il momento in cui separarsi: andare alla ricerca delle proprie origini per trasformare i vecchi legami con le figure genitoriali in nuovi legami nutritivi diventa così difficile, e nello stesso tempo così necessario, che sembra non poter far altro che passare per delle rotture che appaiono nette, ma che, a ben guardare e quando le cose vanno bene, non sono altro che un rimescolare i vari ingredienti per trovare poi creativamente qualcosa di nuovo. Le turbolenze affettive “non hanno luogo una sola volta, ma si ripetono nella crescita e nel divenire, ogni qualvolta avviene un mutamento di stato, come nell’adolescenza, nei cambiamenti esterni ed interni delle immagini degli altri, di sé e del proprio corpo […], nei lutti e nel prendere decisioni importanti” (Russo, 2009, 34).

Ma perché i Måneskin mi hanno risvegliato tutti questi pensieri? Perché attraverso la loro musica si è sentito così forte e chiaro il richiamo e l’essenza dell’Adolescenza e perché proprio in questo nostro momento storico? Questo gruppo, composto da quattro giovani, tre ragazzi e una ragazza[3] che non hanno ancora vent’anni quando vincono il Pulse Contest[4], che esplode prima a XFactor nel 2017 e poi al Festival di Sanremo e all’Eurovision nel 2021, trasmette un’energia positiva e travolgente alla quale sembra difficile resistere. Per loro non perdono la testa solo i loro coetanei che sembrano ridare vita a modalità e ad atmosfere proprie dei fan di lontani concerti anni ’60 e ’70, ma anche molti adulti che forse ritrovano il sapore di qualcosa che avevano vissuto intensamente e che, in qualche modo, sembrava perduto o assopito. La loro musica si rifà principalmente al Rock degli anni ’70 e ‘80 ed inizialmente appare semplice e lineare, consapevoli del fatto che hanno ancora tanto da imparare, da sperimentare, da tentare di creare. Pian piano si arricchisce di sfumature Pop, soprattutto Funky ed essendo pur sempre figli di questa generazione si lasciano influenzare anche dal Rap, dal Trap e dall’Hip Hop. Ne viene fuori un bel miscuglio, piacevole, divertente e trascinante. Niente di nuovo, dicono in molti, solo un vuoto scopiazzare privo di creatività, qualcosa di piatto, di confezionato secondo un adeguamento conformista (Setola S., 2023), ma siamo sicuri che sia proprio così? Non possiamo invece vedere in questi tentativi di attingere al passato, rimescolandolo, il lavoro dell’Edipo alla ricerca delle proprie origini per cercare di elaborare le proprie identificazioni primarie e secondarie in un modo che possa essere almeno un po’ originale? Confesso che all’inizio di questo incontro ravvicinato con i Måneskin ero un po’ prevenuta: pur apprezzando giocosamente la loro musica e divertendomi molto nell’ascoltarla, lasciandomi trascinare e soprattutto trovando molto significativi i testi delle ballad che sottolineavano in modo evocativo le vicissitudini adolescenziali, e che alcuni miei giovani pazienti in seduta usavano per raccontarmi ciò che sentivano, avvertivo un’allerta, come se mi trovassi di fronte ad una bella facciata, ma che dietro non ci fosse la sostanza. Mi sono un po’ ricreduta, ma di questo vi racconterò nell’altra facciata dell’album …   

Tornando ai testi, i Måneskin portano la loro esperienza di adolescenti che cercano di far fronte alle turbolenze alle quali questo periodo della loro vita li espone. Scrive Giaconia: “La ricerca di una immagine completa di sé in relazione con un oggetto completo è possibile, poiché esiste la fiducia di ritrovare una felicità di cui la memoria porta le tracce ma non la figurazione. Attraverso la fantasia, l’adolescente cerca di crearla – e di costruire una storia – che dia ordine e senso alle vicissitudini fantasmatiche” (G. Giaconia, 1989, 880). Le loro canzoni sottolineano la forza di essere giovani, il diritto di lottare per la libertà di essere ciò che si è, la necessità di essere diversi. Vent’anni[5] ci racconta con delicatezza il diritto di sbagliare, la paura di non riuscire a realizzare i propri sogni e la speranza di riuscire a farcela potendo vivere per come si è, cercando di essere diversi dagli altri, cosa non semplice per questa generazione stretta tra catastrofi ambientali, pandemia, guerre strazianti e insensate. Torna a casa[6]  e soprattutto Le parole lontane[7] parlano del timore di perdere la musa ispiratrice di passione, libertà e differenza, Marlena, e di non riuscire a camminare nella via della creatività. Coraline[8] ci racconta di purezza e fragilità che non hanno però un lieto fine e The loneliest[9] della morte. Ancora Giaconia: “La produzione fantastica rende tollerabile il dolore nella creazione di una metafora. La scrittura introduce un elemento spaziale: lo spazio virtuale del tempo che il foglio stesso potrebbe rappresentare – testimone della parte osservativa dell’Io – schermo sul quale le rappresentazioni restano iscritte, provenienti dall’Io ma non identiche all’Io, schermo separante e difensivo della relazione d’oggetto” (Giaconia, 1989, 883).

Zitti e buoni, invece, appare come il ritratto di una generazione di giovani che si ribellano con rabbia al mondo che si ritrovano davanti e agli adulti che hanno contribuito a renderlo tale. Appare come un appello diretto e forte a questa generazione a non accettare tutto passivamente, ma a reagire essendo fieri di ciò che si è. La rabbia generazionale viene richiamata e deve diventare la molla per cambiare tutto, quella molla che permette di ribellarsi, ma che resiste alla distruttività grazie alla musica e alle parole che permettono attraverso la creatività di trovare nuove forme di espressione. “La scrittura, diffusa tra gli adolescenti […], può evitare che le rappresentazioni a carattere conflittuale siano disperse con le proiezioni fornendo nel contempo all’Io una protezione dal loro effetto traumatico”. (Giaconia, 1989, 883). E Rosolato: “con la musica il fantasma inconscio fornisce il suo quadro ad una metafora, che non sostiene necessariamente la figurazione, ma al contrario risveglia più elettivamente la finzione o piuttosto il mito della pulsione” (Rosolato, 1978. cit. in Giaconia, 1989, 876).

C’è però un altro aspetto che irrompe con forza nei loro brani e nelle performance del gruppo a ogni loro apparizione e che, a mio avviso, segnala che l’anima dell’Edipo è in circolo: è la presenza e il risalto che viene dato al corpo nella pienezza della sua esplosione sensuale, eccitante ed erotica. Il corpo si sveste e prende spazio e ciò che non viene espresso nel testo appare alla vista. È curioso che questa esplosione venga raccontata maggiormente nei testi in inglese, non credo soltanto perché la musicalità della lingua si addice di più ai ritmi del Rock, ma forse – mi chiedo – per un lieve pudore nascosto dietro alla sfrontatezza adolescenziale che magari può essere più difficile da esprimere attraverso e di fronte alla lingua madre. Damiano appare il frontman ideale per mettere in scena un corpo pieno di spinte passionali che cercano spazio e che liberamente se lo prendono, ma anche Victoria, Thomas e Ethan non sono da meno e sembrano finalmente portare sul palco un corpo vivente, animato da pulsioni vitali come da tanto tempo non si vedeva. Morirò da re[10], Beggin’[11] e sopratutto I wanna be your slave[12] per citarne solo alcune aprono la porta a Eros che sembra finalmente essere tornato protagonista soprattutto nella sua funzione di legamento, tanto che le spinte distruttive e dissacranti trovano comunque una loro espressione in qualche modo mitigata. È un sollievo in questo nostro tempo, in cui per molti ragazzi è così difficile avvicinarsi alla sessualità, sperimentarla e con essa l’amore e dare il giusto spazio al corpo nel suo pieno significato immersi come si trovano a volte ad essere in un mondo virtuale in cui tutto è possibile, ma nulla è reale. I Måneskin appaiono come un gruppo di amici molto legati tra di loro: l’amicizia è vissuta in carne e ossa sopra e fuori dal palco con momenti di scontro e di grande intesa e questo quasi stupisce se guardiamo al prevalere in questi nostri ultimi tempi di legami virtuali mediati e protetti da uno schermo.

Ma anche qualcos’altro salta agli occhi: tutto il Gruppo si presenta sul palco con un look che esprime contemporaneamente il femminile e il maschile che si intersecano e si confondono sfumando uno nell’altro. Ognuno di loro, pur mantenendo la propria virilità o il proprio essere donna, ci offre ogni volta una immagine composita dei due versanti. Suona come una rivendicazione a sentirsi liberi nel proprio corpo con la propria personalità. Sul palco colpisce questo mettere insieme aspetti contrastanti (tacchi a spillo, borchie, calze a rete, pizzo, tute trasparenti, smalto e trucco marcato). Anche in questo caso si potrebbe obiettare che non c’è niente di nuovo, che Robert Plant, Mick Jagger, David Bowie e molti altri avevano già fatto tutto questo e molto molto bene o forse pure meglio: è vero, ma forse se in questi nostri tempi è diventato necessario riaffermarlo con così tanta forza, magari c’è qualcosa che va al di là del semplice ‘copia e incolla’ e che porta con sé una spinta a risvegliare tutto ciò che è collegato al corpo, alla sua forza pulsionale e al riconoscimento di un maschile e un femminile che se accettati nelle loro differenze e nella loro intima intricazione rendono possibile sostenere la via di ciò che può liberamente discostarsene. 

Seguendo Winnicott (1966) che, parlando delle vicissitudini dell’identità, definisce l’Essere come il puro elemento femminile contrapposto all’elemento pulsionale, attivo e maschile compresenti però nello stesso individuo, mi chiedo se nell’accentuare nella propria immagine la presenza del Maschile e del Femminile non possiamo vedere la spinta di questa generazione ad affermare un corpo libero che cerca la propria completezza, forse un po’ dispersa, nel vivere questi due versanti intrecciandoli creativamente nel proprio mondo interno rispecchiato nell’immagine che di sé offrono agli altri. Non possiamo allora pensare che ciò che vediamo sia anche una reazione a quella spinta verso la neutralità che scivolando nella fluidità non può permettere di godere né dell’uno né dell’altro aspetto nel proprio corpo e nella propria sessualità?

L’impatto della musica dei Måneskin è stato molto forte tra i loro coetanei, li ha catturati in un modo particolare, come se i nostri adolescenti non si aspettassero proprio qualcosa di simile. Non che prima di loro non ci fossero stati altri gruppi in Italia e soprattutto in Inghilterra e in America, patrie riconosciute del Rock, a muovere le acque; ma forse, anche per una certa dose di fortuna che non deve mai mancare e per il loro talento emerso al momento giusto, è successo qualcosa di diverso.

Mi chiedo se, almeno da noi ma anche all’estero visto il successo e i riconoscimenti internazionali, non si siano trovati a risvegliare – finalmente direi e poteva questo esser fatto se non attraverso il Rock? – qualcosa che in loro e nei loro coetanei era come addormentato; o meglio, abbiano dimostrato di aver sentito il richiamo e di non aver avuto paura a incamminarsi di nuovo per la via indicata dall’Edipo, cercando di sbirciare oltre la Sfinge e provare a vedere se c’è ancora qualcosa.

Visione troppo rosea? Cosa resterà ai nostri adolescenti dopo questa scossa iniziale? Le vicissitudini della nostra epoca, molto diversa da quelle in cui il Rock ne era l’espressione culturale e artistica travolgente, permetteranno che qualcosa abbia seguito? E soprattutto loro, i Måneskin, riusciranno a mantenerla viva – solo i Rolling Stones per ora ci sono riusciti! –  o tutto si scioglierà in loro velocemente come neve al sole?

A proposito dei fan del Gruppo, scrive Assante in un articolo su La Repubblica all’indomani del loro Concerto al Circo Massimo nel luglio 2023 “Ragazzi “normali” ma che hanno voglia, bisogno, necessità del rumore, di qualcosa che spezzi l’orizzonte fisso che hanno davanti agli occhi. Niente di eccessivo, sia chiaro, l’eccesso non fa parte della cultura dei Måneskin, non è nel loro messaggio visivo o nei testi, ma quanto basta per dichiarare una qualche piccola difformità dall’ovvio quotidiano, che li ricatturerà appena il concerto sarà finito. Poco? Sì, certo, ma non nulla, e di questi tempi accontentarsi non è di certo godere, ma è già qualcosa” (Assante E., 2023). E l’Edipo, quando non viene soffocato, è capace di fare tanto rumore …

 

 

“Siamo fuori di testa, ma diversi da loro” – Lato B

Una delle cose belle dei vinili è che, terminata una facciata, ci si deve prendere un piccolo tempo per girare il disco, muovere il braccio dello stereo per far ripartire il piatto, risistemare la puntina e riprendere l’ascolto… un tempo breve, ma importante perché permette uno stacco, la possibilità di separare le due parti, spostarsi leggermente da ciò che abbiamo appena ascoltato e fare nuovo spazio a ciò che ascolteremo senza perdere però il filo.

Mi trovo con sorpresa a chiedermi perché mai mi sia venuta in mente questa immagine nel momento in cui mi appresto ad affrontare il secondo versante di quel pensiero che mi era venuto all’inizio: ma gli adolescenti di oggi sono veramente diversi dagli adolescenti di ieri, dagli adolescenti, ad esempio, della mia e delle altre generazioni passate e il Rock, con le sue evoluzioni e trasformazioni, può aiutarmi a capire qualcosa di tutto questo? E l’Edipo? È una domanda apparentemente semplice, ovvia, ma che invece nasconde molte insidie.

Certo, gli adolescenti di oggi sono diversi da quelli di ieri, come il Rock di oggi – se ce n’è ancora – è diverso da quello di ieri; ma cosa – se è possibile trovarlo – è diverso negli adolescenti di oggi e cosa nel modo diverso di fare e di fruire della musica oggi, mi può dire qualcosa di questa differenza?

Tornando all’immagine del vinile mi accorgo che nelle parole che ho usato per descriverla compare più volte il prefisso ri a sottolineare la ripetizione (Freud S. 1914),  espressa nel gesto e nel tempo, un tempo che può scorrere con lentezza. Mi chiedo allora se non faccia parte della struttura del mio pensare riferirmi a un qualcosa che si ripete di generazione in generazione e che, al di là del modo in cui esso viene espresso, ritorna come una invariante passando attraverso il tempo; mi riferisco all’Edipo come ad uno schema primordiale attivo già in origine e inteso come tendenza alla ricerca di dare un senso, un ordine nelle differenze che esso porta con sé attraverso i fantasmi originari (Green, 1992).

Quello che mi colpiva nella evoluzione del Rock era notare una certa ciclicità, un qualcosa che, seppur con toni e colori diversi, si ripeteva nella sua sostanza. Il Rock fin dalle sue prime origini, a partire dalle sue radici blues, ha sempre dato voce e rappresentazione alla ribellione, alla protesta e al mettere in atto una trasgressione che rompeva di netto con la generazione precedente e con forza cercava di affermare la propria libertà e desiderio innovativo. Il Rock sembrava creare la colonna sonora a questa spinta di rottura che andava più in una direzione o in un’altra a seconda di dove spingeva di più il divieto “genitoriale” espresso dalla società del momento.

Muddy Waters soleva dire “il blues ha avuto un figlio e l’hanno chiamato Rock ‘n’ Roll”. Si tratta dunque di un passaggio tra genitori e figli.  È il leitmotiv di questo Album immaginario che ci canta dell’adolescenza, dove Edipo irrompe portando con sé anche le vicissitudini delle fantasie originate dall’Edipo precoce kleiniano e cerca la sua affermazione per poter oltrepassare il confine attraverso nuove elaborazioni che permettano l’ingresso a pieno titolo nel mondo degli adulti. Che fosse l’accesso alla sfera sessuale così fortemente proibita ai giovani, l’opporsi alle guerre e alla politica del proprio Stato, difendere i diritti civili delle minoranze, la libertà, il culto dell’amore e della pace, la ricerca di superare i limiti della conoscenza e allargare i propri orizzonti attraverso l’uso di droghe psichedeliche, tutto contribuiva a creare la controcultura giovanile che diventava pian piano Arte illuminando gli animi di importanti ideali.

Lo scontro con la realtà poi, proprio come in adolescenza, ha chiamato al confronto e molti di quegli ideali, anche espressione di un Io ideale, sono caduti, alcuni perché proprio irrealizzabili, e spesso le delusioni sono state scottanti. Non sempre la musica è riuscita a contenere il malessere interiore che alcuni artisti portavano con sé nel profondo e, soprattutto in alcuni periodi, si sono persi fino a distruggere sé stessi. “Ritengo che […] il nucleo dell’Io ideale, sia la fonte di quella fiducia di base che rende tollerabile la posizione depressiva e rappresenti un vettore nella ricerca di creatività di nuovi oggetti. Nel momento critico dell’adolescenza, esso ha il valore di un organizzatore del mondo esterno” (Giaconia G., 1997, 877).

Con il passare del tempo qualcosa però comincia a cambiare, già durante gli anni ’90, caduti i grandi ideali degli anni ’60 e ’70, il Rock e la controcultura giovanile sembrano in qualche modo perdere terreno; ma è con il passaggio al nuovo millennio che tutto sembra assumere una luce diversa. Il Rock sembra perdersi e spegnersi così come i ragazzi che creativamente lo nutrivano e se ne nutrivano. Ci si chiede se esso sia davvero morto, ma forse semplicemente molte cose stanno radicalmente cambiando, la ciclicità che sottolinea la verticalità, a mio avviso frutto del lavoro dell’Edipo, sembra interrompersi e lasciare il posto ad altro, sia nella musica che nella nuova generazione.

Ma a cosa? L’avvento della Rete e poi dei Social cambia totalmente il modo di fruire la musica che non ha più come un tempo una funzione identificatoria e di aggregazione sociale. I nuovi eroi non sono più i Gruppi Rock e i loro frontman, ma sono le Pop Star; l’emergere singolarmente e l’individualità cominciano ad essere la via privilegiata tra i nuovi artisti che sono anche espressione di ciò a cui giovani tendono. Lo streaming permette un ascolto illimitato attraverso Internet, si comprano così meno dischi e l’ascolto sembra diventare più superficiale, legato a singole canzoni raggruppate in playlist da riprodurre in ordine casuale o per rispondere allo stato d’animo del momento come colonna sonora di una particolare situazione.

L’ascolto attento degli Album per comprendere ciò che il musicista cercava di trasmettere condividendone le emozioni sembra pian piano perdersi. Le novità tecnologiche sovvertono in qualche modo le regole sociali di base e la comunicazione viene trasferita, per la maggior parte, dal mondo reale a quello della Rete che mette a disposizione tutta una serie di strumenti che poi finiscono, in molti casi, a soppiantare i rapporti umani e il confronto personale. I Social trasmettono senza limiti di tempo e di spazio una cultura spesso frammentaria e approssimativa  che però facilita l’accesso alle informazioni e abbatte le distanze tra le persone che si sentono così più vicine agli artisti e sullo stesso piano. Si fa sempre più strada una visione simmetrica delle relazioni, una parvenza di “uguaglianza” che tende ad annullare qualsiasi differenza. In un certo modo sembra prevalere il bisogno di avere tutto quello che si può prendere senza però poterlo assaporare.

Penso alla messa in moto di una pulsione che, invece di presentarsi nei suoi due versanti, quello dell’emprise unito a quello della soddisfazione (Denis, 1997), si riduce a muoversi soltanto verso un accaparramento continuo che non è mai sufficiente e non permette il poter godere, in una sorta di passività accogliente, quello che si è trovato nell’oggetto esterno e di potersene nutrire. Sono sorprendenti quelle immagini di concerti in cui il pubblico è più concentrato nel riprendere con il cellulare ciò che accade sul palco piuttosto che partecipare emotivamente all’evento. L’importante è esserci per poterlo raccontare, per farlo vedere.

L’immagine, ciò che appare, prende il sopravvento. La Rete permette ai giovani musicisti di fare da soli, di sganciarsi almeno inizialmente dal predominio delle case discografiche, di presentarsi al pubblico attraverso i propri canali e guadagnare così terreno e successo per conto proprio. Le nuove regole diventano gli ascolti medi su Spotify, iTunes, le visualizzazioni su YouTube, le vendite dei biglietti per i Live e i passaggi in TV e soprattutto i Talent Show che concorrono alla creazione di nuovi fenomeni musicali pilotati poi dalle case discografiche alle spalle. La velocità di arrivare al pubblico viene premiata e ricercata, ma spesso questa stessa velocità crea delle meteore che passano così velocemente da lasciare una labile traccia; la velocità però sta anche nell’ascolto a cui non viene quasi più riservato un momento particolare del proprio tempo nel quale ci si ferma e ci si dedica alla musica, ma la musica ci accompagna ovunque e diventa, in alcune situazioni, un sottofondo e un riempitivo costante che sembra un antidoto al vuoto che i nostri adolescenti spesso sentono fortemente dentro di loro. La tendenza è quella di rimanere sempre connessi all’interno di un tutt’uno che apparentemente allontana l’angoscia di perdita e la mancanza.

La Pandemia accentua tutto questo: Internet diventa l’unica finestra per affacciarsi al mondo e i PC e i telefoni sostituiscono la presenza reale delle persone. C’è un eccesso di condivisioni per sentirsi vicini agli altri. Soprattutto per gli adolescenti, la vita cambia improvvisamente e drasticamente, vengono privati proprio di ciò che a quell’età è più importante e vitale: lo stare con i propri amici, nel proprio gruppo e fare esperienza insieme per affrontare i rimescolamenti interni a cui quel particolare periodo li espone; si ritrovano così a vivere un tempo che scorre in remoto e spesso questa esperienza di privazione di contatto ha portato ad un aumento dell’ansia, dello stress, dei comportamenti violenti e dei fenomeni depressivi.

Non voglio però cadere nella trappola dell’ “era meglio prima” perché non risponde a verità e rischierebbe di coprire la ricerca del senso di tutti questi cambiamenti. Mi chiedo invece, se è vero che, nella mia ipotesi, l’anima del Rock rispecchia l’anima dell’Edipo che incarna l’adolescenza, come possiamo reinterpretare oggi i suoi aspetti invarianti coniugandoli con i cambiamenti a cui assistiamo? Di fronte ad una orizzontalità che sembra renderci tutti, adulti e ragazzi, sullo stesso piano – dei fratelli senza padre – che tende ad annullare le differenze di sesso, che sembra evitare il conflitto e ogni separazione per evitare qualsiasi perdita e delusione, come possiamo coniugare l’Edipo in una nuova maniera che possa dare senso a quello che vediamo accadere nei nostri studi ai nostri giovani pazienti e nella nostra società? Kaës (2008) ci introduce al complesso fraterno attribuendogli una sua specificità strutturale che permette di superare l’idea che esso sia semplicemente uno spostamento, un sostituto o una difesa dall’Edipo.

Il complesso fraterno viene così inteso come l’asse orizzontale della strutturazione dell’apparato psichico ed ha un suo ruolo nella costituzione dell’Io, del narcisismo e delle identificazioni, mentre l’Edipo ne rappresenta l’asse verticale. “Questi due assi entrano costantemente in rapporto fecondandosi reciprocamente – anche se spesso in maniera conflittuale – e non possono esistere pienamente uno senza l’altro rendendo conto dell’ipotesi secondo la quale ‘l’avvenire del complesso edipico è il complesso fraterno’ che, a sua volta ‘giunge ad una impasse se non si struttura con l’Edipo’ – nella sua valenza di ‘fattore di trasformazione’ del primo; un rapporto complementare, dunque, quello tra i due complessi, che mostra come le qualità fondamentali dell’uno, ‘in particolare la sua struttura triangolare’, si sviluppino in variazioni che trovano probabilmente corrispondenze e risonanze nell’altro” (Sommantico M., 2009, 7).

Possiamo dunque pensare che sia questo prevalere dell’asse orizzontale che, in qualche modo, si slega dall’asse verticale e tende ad ignorarlo, che dà il senso a quel “cosa” è cambiato interrompendo la ciclicità? Il pensiero va al lavorio della pulsione di morte che tenta di slegare costantemente e alla speranza e alla fiducia nella forza legante di Eros.

Tornando per un attimo ai Måneskin, mi sembra allora di vedere in loro quello spirito del Rock intriso di Edipo, di verticalità, che cerca di tornare a galla per riprendersi il suo posto, cercando di legare di nuovo l’orizzontalità che oggi prevale e che, attraverso le varie contaminazioni, espressione di questo nostro periodo e della nostra storia, cerca di ribadire un certo ordine nel tempo e nello spazio. I Måneskin sono figli di questi tempi, ci vivono immersi e sono frutto dei cambiamenti di questa nostra epoca e la loro creatività, come quella di tanti ragazzi, può essere forse vista nell’andare a cercare qualcosa proprio lì dove ora si pensa di non trovarlo più, cioè nel Rock e nelle sue innumerevoli evoluzioni trasformative. Non so se si possa inventare ancora qualcosa, ma certo si può trasformare ciò che è vecchio alla luce di ciò che di nuovo abbiamo a disposizione.

E se da lontano il Rock, anche se non più quello di un tempo, ci facesse sentire la forza e il senso della sua voce attraverso tanti Måneskin, che spero appaiano sempre di più all’orizzonte, sarebbe un magico regalo che solo la musica può donarci.

                                                   “Sarai qualcuno se resterai diverso dagli altri

                                                                                     Ma c’hai solo vent’anni”[13]

 

Note:

[1] De André, “Anime salve” (1996).

[2] Gribinski M. (2002), Le separazioni imperfette, Borla, Roma, 2004

[3] I Måneskin si formano nel 2016 e sono Damiano David (voce), Victoria De Angelis (basso), Thomas Raggi (chitarra) e Ethan Torchio (batteria).

[4] Il Pulse Contest è il primo contest musicale dedicato a band emergenti formate da studenti di scuole superiori e nasce come spazio per permettere a musicisti adolescenti di esprimere la loro musica e la loro arte.

[5] Måneskin, “Vent’anni” (2020).

[6] Måneskin, “Torna a casa” (2018).

[7] Måneskin, “Le parole lontane” (2019).

[8] Måneskin, “Coraline” (2021).

[9] Måneskin, “The loneliest” (2022).

[10] Måneskin, “Morirò da re” (2018).

[11] Måneskin, “Beggin” (2017).

 bellissima cover dell’originale dei Four Season del 1967 e della versione più recente dei Madcon ( 2010).

[12] Måneskin, “I wanna be your slave” (2021), riproposta poi nella versione insieme a Iggy Pop:

[13] Måneskin, “Vent’anni” (2020).

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Caterina Olivotto, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

caterina.olivotto@gmail.com

*Per citare questo articolo:

Olivotto C., (2024) “Siamo fuori di testa, ma diversi da loro. Il Rock, l’Edipo e la trasgressione alla luce del passare del tempo”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 59-77

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