VII GIORNATA 1O NOVEMBRE 2018: Intersezioni tra Psicoanalisi e Psichiatria.
"Intersezioni: esperienze di piccoli gruppi clinici al lavoro"

Psicoanalisi e Psichiatria: il confronto con il doppio

di Maria Pierri

Psicoanalisi e Psichiatria: il confronto con il doppio Maria Pierri
Psicoanalisi e Psichiatria: il confronto con il doppio
Maria Pierri

“Leonardo diceva che il giudizio del nemico non di rado è di maggior verità e beneficio di quello dell’amico.” (Eissler K.R., 1993, Psicoanalisi della calunnia)

Il posto del soggetto sta nell’intersezione di forze che, prese insieme, costituiscono un continuo interrogarsi sull’esistenza.” (Bollas C., 1995, Cracking Up. Il lavoro dell’inconscio)

 

Queste riflessioni prendono spunto da una recente iniziativa concepita all’interno del gruppo di analisti del Centro Veneto di Psicoanalisi che da tempo si riuniscono sul tema “Psicoanalisi e Psichiatria”. In questi anni il gruppo, sostenuto dagli Esecutivi del Centro, nell’intento di rinnovare il dialogo fra il sapere psicoanalitico e il sapere psichiatrico, anche dal punto di vista del rapporto fra le diverse istituzioni, aveva cominciato col promuovere occasioni di incontro, organizzando alcune giornate di studio in collaborazione con la Sezione Veneta della Società Italiana di Psichiatria, presto diventate appuntamento scientifico a cadenza annuale[1]. Ai lavori del mattino, in grande gruppo, cui erano invitati a parlare esponenti locali particolarmente rappresentativi delle due istituzioni, seguivano esperienze pomeridiane di approfondimento in piccolo gruppo, con presentazione di casi clinici, coordinate da uno psicoanalista e da uno psichiatra (le cosiddette “intervisioni” che si sono affiancate alle esperienze di supervisione psicoanalitica).

Ripensando alle difficoltà del confronto Psicoanalisi e Psichiatria, che sono state e sono tuttora molteplici, va notato che il primo disagio non sorgeva dall’incontro diretto e alla pari con i colleghi non analisti -psichiatri, neuropsichiatri infantili o psicologi e psicoterapeuti operanti nel pubblico e nel privato-, che potevano essere familiarizzati, assimilati o profondamente ostili ed estranei ad un indirizzo clinico ispirato alla psicoanalisi. Le resistenze più impegnative si facevano sentire all’interno del gruppo di analisti, al momento di riprendere i contatti con le proprie origini, di ripensare le vicende della propria formazione anche in vista di una rinegoziazione di aspetti adolescenziali (e non solo) nel rapporto con il gruppo dei pari (dei fratelli) e con l’istituzione. L’“estensibilità” della psicoanalisi metteva in discussione l’identità professionale e la storia formativa e affettiva dei singoli: entrava in gioco la modalità con cui ognuno aveva dovuto più o meno dolorosamente fare i conti con le patologie gravi e, specie per gli analisti anziani, come era venuto a patti con la propria formazione medica e psichiatrica (un tempo quella prevalente). Nel riaggiornarsi e riconsiderare la qualità psicoanalitica di esperienze cliniche con pazienti non nevrotici, anche sulla base delle acquisizioni della teoria e della pratica clinica contemporanea, è stato inevitabile mettere in discussione irrigidimenti identitari difensivi, e contrapposizioni, per disporsi a dare cittadinanza e validità scientifica a quanto era stato a lungo, spesso a torto, giudicato di area psicoanalitica “extracomunitaria” (le esperienze che venivano chiamate con diffidenza le “applicazioni” o più recentemente le “astensioni” della psicoanalisi, facendo il verso al termine estensioni).

Le relazioni che gli analisti avevano presentato alle giornate di studio contenevano quasi tutte un riferimento a questo lavoro interno. L’elaborazione della differenziazione da quella “matrice comune” costituita da un’ideale “psichiatria psicoanalitica”, poteva aver comportato rinunce, ferite e lutti rimasti iscritti profondamente non solo nell’identità di ciascuno (La Scala, 2012), ma anche nell’identità del gruppo e del Centro, riflettendosi con pari intensità nei vissuti contrapposti: degli analisti che avevano precocemente scelto di lasciare la psichiatria per l’attività privata come di coloro che avevano deciso di rimanervi cercando di abitarla e di affrontare la “crisi di (dis)adattamento” (Pierri, 2012; 2014).

Il confronto Psicoanalisi-Psichiatria, che riportava alla mente certe scelte e tappe della vita, come per ogni decisione che comporti un importante definizione dell’identità del soggetto, sollevava la questione del sosia o del gemello: quel soggetto che non siamo diventati, quella parte preziosa di noi che abbiamo collocato nelle viscere più profonde dello psichico, che l’altro rappresenta (Lopez,1997).

Così uno degli interrogativi posto da Semi (2013) a conclusione della presentazione del suo lavoro analitico con un caso assai impegnativo, degno di figurare fra i pazienti medio-gravi di un ambulatorio psichiatrico, a rischio cronicità, riguardava la contrapposizione privato-pubblico. Sia per il curante:

“(…) come mi sarei comportato se anziché nel mio studio mi fossi trovato a lavorare in un ambulatorio pubblico? (…) Avrei potuto, ad esempio, pensare con maggior agio e magari con un certo sollievo ad un trattamento farmacologico, vista l’angoscia e la aggressività della paziente? Quanto avrebbe pesato il fatto di poter incontrare nei corridoi i colleghi neurologi e di dover rispondere ai loro interrogativi o, viceversa, di non poter rispondere loro? E quanto e come avrebbe pesato il fatto di dovere comunque “classificare” la paziente in una cartella clinica che deve rispondere anche ad una tassonomia largamente determinata da fini epidemiologici-statistici?”

sia per il destino della paziente, capitata (casualmente?) sul lettino di uno psicoanalista invece che nell’ambulatorio di uno psichiatra:

“Badate che non sto dicendo che una soluzione sia migliore o peggiore dell’altra, sto chiedendo viceversa quanto il caso possa deviare il corso della vita di una persona indirizzandola verso una strada anziché verso un’altra. E sto anche chiedendomi se, una volta infilata una strada, sia possibile cambiarla o quanto sia difficile farlo. Insomma sto chiedendomi e chiedendovi se noi psichiatri e psicoanalisti non ci troviamo a volte anche a dover riflettere su cose apparentemente non di nostra competenza, come il destino, il caso o la libertà o i diritti civili.”

Ma se chi cura ha potuto decidere ad un certo punto quale strada prendere, in base ai desideri e alle circostanze  (e al giorno d’oggi vediamo drasticamente diminuite le richieste di training analitico da parte degli psichiatri), i pazienti solo nelle situazioni migliori sono in grado di scegliere una strada, spesso sconfinano tra pubblico e privato e in molti casi dimostrano di avere la necessità di prendere entrambe le strade, di essere contenuti e curati in un setting che comprenda spazi e persone talvolta distanti tra loro e molteplicità di interventi in un “setting esteso” (Di Chiara, 1997), a volte proprio in un setting “doppio”. In questa impossibilità di una scelta, c’è forse il bisogno di mettere insieme parti di Sé mai saldate per poter successivamente operare un primo rigetto e una rimozione, e spesso è in questo doppio-gemello, che si trova collocata la parte più significativa e fondamentale della propria umanità.

Così ad esempio nei ricordi infantili desertificati di Diana, che da piccola mai abbracciava la madre e in spiaggia si perdeva sempre sotto gli ombrelloni vicini, compariva isolata l’immagine confortante di una bambina che “aveva il mio stesso nome e la mia stessa età” e abitava nella casa di fronte: ogni tanto dal balcone Diana la chiamava e la dirimpettaia usciva, si guardavano e si salutavano. Poi l’altra Diana aveva “cambiato casa”. Il doppio era ritornato molti anni più tardi nel delirio di essere la figlia di altri e più illustri genitori (vedi Pierri, 2010).

E il primo ricordo infantile di Anita era di trovarsi “tranquilla e nuda distesa sul fasciatoio, con la testa appoggiata ai vestitini”, con verosimiglianza avendo del tutto proiettato e appoggiato la sua psiche dentro la sorellina appena nata e la sua identità, quella sorellina che aveva suscitato un catastrofico cambiamento quando aveva tre anni (omissis…) .

È il gemello che sostiene l’identificazione narcisistica con il compagno (Bergeret, 1987) e il lavoro psichico “in doppio” di cui scrivono i Botella, ricordando che Freud a proposito del Presidente Schreber, al di là del transfert omosessuale inconscio, già si riferiva ad un’“immagine materna originaria” (2001).

È possibile che successivamente, una volta fatte certe scelte e definiti certi rigetti, come nel negativo di una fotografia l’altro, da sfondo sul quale distinguersi, possa divenire il nostro più acerrimo nemico, proprio per il fatto di essersi impossessato di nostri intimi contenuti, cui con la crescita abbiamo dovuto rinunciare (in quanto gemello, alterazione della e nella madre, prima che prefigurazione edipica del padre, come indica Gaddini, 1974). Questa ostilità profonda può ricordare quanto Freud descrive nel “narcisismo delle piccole differenze” (1917;1921;1929) e Eissler cerca di approfondire nelle sue acute riflessioni sulla psicoanalisi della calunnia e sugli elementi più profondamente repressi dell’identità (1993).

 

Incroci ed incidenti

Il tema del “doppio” nel dialogo pubblico – privato, pur non essendo fra gli argomenti ufficiali delle giornate di studio, era comparso marginalmente in alcuni interventi non solo nelle relazioni citate ma anche in molte esemplificazioni cliniche nel corso delle intervisioni pomeridiane, come particolare di poco conto, rimosso e isolato quasi fosse un tabù. Era capitato ad esempio che qualche collega, nel riportare esperienze di presa in carico di pazienti gravi, citasse en passant situazioni in cui, anche solo per un breve periodo, psichiatri e/o psicoterapeuti dell’istituzione si erano trovati casualmente a trattare un paziente in contemporanea con psicoterapeuti e/o psicoanalisti privati. Sembrava che professionisti del privato e del pubblico, analisti e psichiatri che fossero, non sapessero se e come parlare insieme del paziente, se era permesso oltre che quale linguaggio usare: i primi legati in genere ad una pratica di confidenzialità e riservatezza quasi claustrofilica, i secondi costretti ad approfittare anche dei corridoi per scambiarsi informazioni. In questi incroci non programmati sembravano tutti in imbarazzo e a volte i ruoli potevano stranamente invertirsi, come se uno prendesse la strada dell’altro. Sintomaticamente a questi “incroci”, non programmati, evenienze che potremmo considerare assai auspicabili e che solo qualche voce isolata si alzava a sostenere, si faceva cenno di sfuggita o con manifesto imbarazzo: da entrambe le parti in queste intersezioni puntiformi, conflittuali ma potenzialmente preziose, emergeva la difficoltà ma anche il desiderio latente di riconoscere già la sola presenza dell’altro, e di quella parte del paziente e di sé che rappresenta.

Ricordo quanto uno psichiatra riferì a proposito del setting articolato che era riuscito ad organizzare per una grave paziente borderline ereditata dalla neuropsichiatria infantile dopo il primo di un serie di ricoveri per agiti suicidari. La paziente, dopo la precoce separazione dei genitori, che avevano avuto entrambi problemi di tossicodipendenza, viveva con i nonni molto anziani. Il collega, descrivendo le vicende del trattamento intrapreso, una psicoterapia a una seduta settimanale all’interno di una molteplicità di interventi istituzionali, sembrava aver scelto di cominciare quasi da zero, senza tener presente la psicoterapia bisettimanale che la paziente aveva comunque in corso presso un privato. A proposito dello psicoterapeuta privato, tacitamente e forse anche legittimamente ritenuto poco competente – similmente ai genitori e agli stessi nonni- il collega faceva intendere di aver atteso con neutralità che tale rapporto parallelo continuasse per la sua strada, portasse a qualche beneficio e traesse fuori dalla Psichiatria il paziente o eventualmente si esaurisse, nella sua illusoria sterilità. Di fatto era l’ultima evenienza ad essersi verificata, dopo la morte del nonno, e la paziente era rimasta presa più strettamente nelle maglie della Psichiatria.  

Si evidenziava come lo spazio lasciato silenzioso, il dialogo mancato fra psichiatra del pubblico e psicoterapeuta privato, si rendesse disponibile ad ospitare malintesi, sfiducia, pregiudizi e, come segnala Forrester al proposito, le verità interne al “pettegolezzo” (1990). 

In un’altra delle nostre giornate di studio, sempre nel corso di una presentazione clinica, una psichiatra riferì di aver casualmente appreso durante una conversazione con un amico psicoanalista, e stimato, che la paziente che la stava discretamente impegnando per la sua gravità nell’ambulatorio pubblico, da qualche tempo aveva intrapreso con costui, senza informarla, una psicoterapia privata parallela. Il confronto, qui ineludibile, era stato vissuto con piacere se pur con imbarazzo, come se la comunicazione fra i due terapeuti, pubblico e privato, fosse da evitare per motivi di riservatezza, forse, di neutralità o di contaminazione dei reciproci setting…  Come due rette che se hanno più di un punto in comune rischiano di coincidere, le due terapie erano proseguite senza incontrarsi ulteriormente (non ne parlarono davvero più, ci si chiede?) e la circostanza ascritta ad una strana coincidenza.

Almeno in apparenza gli “incidenti” descritti non avevano potuto essere utilizzati per la comprensione di quanto il paziente implicato stesse investendo transferalmente nelle due relazioni parallele, né per l’insight degli elementi preconsci e inconsci di resistenza al riconoscimento della presenza dell’altro curante, sosia o alterEgo del primo: affetti e pensieri segreti forse impregnati di sentimenti difficili da affrontare e da esprimere (curiosità, idealizzazione, invidia, gelosia, complicità, incestuosità…?) potevano andare ad alimentare l’area del pregiudizio e della maldicenza, i sensi di colpa e di inadeguatezza, quanto Lopez e Lopez e Zorzi hanno descritto, integrando il punto di vista di René Girard, nel concetto di “conflitto mimetico narcisistico con il doppio” che ostacola la possibilità di vivere un accoppiamento genitale e generativo (1990; 1991; 1997; 2003).

Si rendeva evidente soprattutto come non si sapesse cosa dire, se fosse etico parlare del paziente, fra confidenzialità e riservatezza analitica e anonimato o mancanza di privatezza istituzionale. Ma conosciamo il danno di certi segreti, cripte traumatiche transgenerazionali, e sappiamo anche come il far parlare di sé costituisca per i pazienti gravi la prima modalità di contenimento. Tale bisogno si esprime perfino in quel timore paranoico del “complotto”, del “furto del pensiero”, dell’essere “spiati da telecamere”, nel delirio in cui concretizzano il difetto e il desiderio dello sguardo, del pensiero e delle parole dei genitori: e quale riconoscimento e sollievo è per il bambino sentire che i genitori parlano con fiducia e attenzione di lui! (Pierri, 1999; 2010)

Tra segreto ed esposizione, il tema privato-pubblico era emerso in forma ancora diversa nel corso di una supervisione pomeridiana allargata delle più apprezzate ed interessanti, esprimendosi in un singolare cortocircuito. 

Una équipe terapeutica riferì di un paziente con molti ricoveri alle spalle per il quale si stava decidendo l’opportunità dell’inserimento in una comunità. Il ragazzo era figlio ultimogenito di una famiglia molto in vista e, inconsapevolmente, attraverso un piccolo dettaglio fornito, nell’esposizione del caso i colleghi non preservarono la sua anonimità.  Questa rottura privato–pubblico si verificava senza che fosse rilevata dai più ma, nel ripensamento di tale situazione, come di quelle precedentemente descritte, riconosciute e rielaborate all’interno del gruppo di analisti di “Psicoanalisi e Psichiatria”, il fatto sorprendente che tutta la scena esprimesse proprio le pressanti esigenze del paziente (una sua richiesta non ancora compresa, “mandato” di cui curanti, supervisore e pubblico si erano fatti carico, in una sorta di messa in rappresentazione “teatrale”) si rendeva evidente nelle associazioni fornite dagli operatori nel corso della discussione, quando era stato aggiunto alla presentazione iniziale il fatto che il paziente, qualche giorno prima dell’incontro scientifico (e mentre essi erano verosimilmente occupati dal pensiero della preparazione di tale incontro), fosse esploso in una delle sue periodiche crisi di rabbia, protestando inspiegabilmente contro di loro di non essere “un fenomeno da baraccone”. Quella che era stata considerata una ennesima ricaduta, inaspettata e poco comprensibile, poteva rappresentare in realtà il frutto di un’intuizione diretta e apparentemente oracolare, “transpsichica” la definirebbe Bolognini (2008), di quanto i curanti avevano nella mente (e del combattuto desiderio di essere guardato, riconosciuto e confermato in una identità fuori dal comune, per così dire sconfinata). D’altra parte i Botella insegnano che l’esibizione è la cura della paranoia (2001).

Il riflettere su questi ripetuti segnali, emersi nelle giornate di studio, aveva confermato l’impressione iniziale che le esperienze di collaborazione clinica e di integrazione Psicoanalisi – Psichiatria pur costituendo un terreno minato, contenessero un ricco potenziale psichico non sempre riconosciuto, per lo più destinato a rimanere inutilizzato o lasciato all’improvvisazione e alla inventività dei singoli. La questione era particolarmente interessante perché nelle situazioni considerate era evidente come fossero proprio i pazienti a cercare di far parlare analisti e psichiatri, a partire dal far loro vivere inconsciamente, in un “processo di riflessione” (Searls, 1965), quelle illusioni mancate, fratture, scissioni, contaminazioni e confusioni cui non sapevano dar voce. 

E’ forse inutile ribadire come il controtransfert verso il paziente non sia solo quanto proviamo profondamente verso di lui, verso i suoi genitori o verso gli altri colleghi e operatori che partecipano alla cura, ma si esprima preconsciamente in quanto mettiamo in atto nei confronti di costoro, in quanto possiamo trovarci a comunicare o a non comunicare e che finisce comunque per passare, anche del tutto inconsciamente (Pierri, 2015a). Serge Leclaire (1971) sottolineò per primo la reticenza quasi insuperabile degli analisti a parlare fra di loro dell’analisi, “se non in articoli formali, in supervisioni o nella privacy dello spazio familiare”. Non a caso per Forrester la questione di come si parla del paziente e della relazione analitica posta da Leclaire si pone proprio nei termini di distinguere, in psicoanalisi, le comunicazioni scientifiche, l’acting out, il pettegolezzo e infine la “telepatia” nel gruppo (vedi anche Pirri, 2018) : tutti elementi che, riprendendo Jacques Lacan, rimanderebbero a quanto resta di non-analizzato, oltre che di irriducibile (1990). 

Rimettere in dialogo Psicoanalisi e Psichiatria –ma anche analista e analista- , si dimostra una via di conoscenza e ricerca scientifica per far parlare e ricomporre aspetti diversi del paziente “sotto la sua regia”, (Ogden 1982; 1994) superando quel pregiudizio che, fa assumere un atteggiamento genericamente ostile verso modi di procedere diversi (Bollas, 2015), troppo presto rifiutati perché giudicati “errori”, impedisce la costituzione di una coppia generativa di pensieri che è poi la scena di accoglienza che vorremmo essere in grado di offrire al paziente.  Esiste accordo generale sul fatto che nella clinica dei pazienti gravi sia fondamentale costruire “una rete di professionisti” che assicuri la sopravvivenza, la sicurezza di base della cura, non soltanto per mettere in sicurezza e “sostenere il lavoro che lo psicoanalista svolge con il paziente” come afferma Bollas  privilegiando il vertice analitico (ibidem), ma come modalità di lavorare in coppia con reciproco sostegno affettivo di conoscenza e curiosità, in un dialogo che costituisca il primo incrocio di sguardi e ripristino narrativo, ricontestualizzante, di cui il paziente grave ha estrema necessità per recuperare la complessità e lo spessore della sua “dimensione umana” e viva.

Obiettivo di un lavoro che possa dirsi psicoanalitico, in psichiatria, non è la parziale “applicazione” della teoria e della tecnica, ma il riconoscere la particolare modalità di associare liberamente e i transfert frammentati dei pazienti, con la finalità di attivare quel processo che porta alla nascita del soggetto: anche in questo caso vale quanto Freud affermò a proposito del fatto che la cura psicoanalitica non può contemplare che ci si dedichi solo ad un aspetto del paziente:

 L’uomo più vigoroso può si generare un bambino intero, ma non può far nascere nell’organismo femminile una testa, un braccio o una gamba soltanto; e neppure può decidere sul sesso del bambino. Anch’egli appunto non fa che avviare un processo estremamente complicato e originato da eventi remotissimi, processo che si conclude con il distacco del bambino dalla madre. (1913, p.340 )

Questa rete di accoglimento si rivela risorsa formidabile per riuscire ad acchiappare il paziente in tempo in prossimità del breakdown, e per afferrarlo tutto poiché, se è importante la precocità dell’intervento terapeutico, come raccomanda Bollas (2013), è fondamentale la bontà e coordinazione della presa (Pierri, 2015b).

A tal fine gli obiettivi del gruppo “Psicoanalisi e Psichiatria” intendevano concretamente aprire un dialogo fra specialisti della cura, al fine di un reciproco aggiornamento e del riconoscimento di forme di collaborazione utili e nuove, particolarmente negli esordi. C’era la consapevolezza della criticità del momento presente, di cui entrambe le istituzioni, psicoanalitica e psichiatrica, risentono e la preoccupazione per il rischio di impoverimento nello spessore delle rispettive tradizioni culturali, nonostante i progressi scientifici raggiunti da entrambe le discipline. Non mancavano sentimenti di insoddisfazione per le modalità di dialogo per decenni sperimentate. Quelle supervisioni psicoanalitiche istituzionali che pur avendo così tanto contribuito a rendere vivibili gli ambienti psichiatrici per gli operatori, “ad aprire prospettive e ad abbassare i livelli di tensione e di incomprensibilità di tanti pazienti” non avevano conquistato il meritato riconoscimento (Bolognini 2012) e nel tempo si erano dimostrate un po’ troppo funzionali all’organizzazione difensiva dei servizi stessi. Dando atto che queste isolate e felici esperienze, “ a tutti noi è nota la bellezza e la fecondità del lavoro di supervisione”, non sono mai diventate il “prototipo del gruppo del servizio al lavoro”, e considerando che neppure le riunioni di équipe si sono dimostrate in grado di modificare e far crescere i meccanismi istituzionali, Correale recentemente (2012) auspicava la promozione all’interno dell’istituzione di “piccoli gruppi specializzati” di due o tre persone molto motivate, con una cultura comune, disponibili a lavorare e a riflettere su un ambito clinico definito (patologie borderline, esordi psicotici, anoressia…), con una leadership finalizzata a tale compito: gruppi clinici in grado di delimitare i fantasmi sollevati dalla psicosi e di dare accoglienza a movimenti transferali altrimenti dispersi, facendoli crescere e sviluppare con investimenti personali sui singoli e sulla loro relazione.

 Questa proposta, che Correale definiva “scandalosa” forse proprio per la quota di desiderio degli operatori che introduce e di sana conflittualità – a partire dal dubbio che tali “funzioni” differenziate all’interno dei servizi possano essere viste come “riserve per privilegiati, luoghi di fuga dal quotidiano e duro lavoro di miniera” come notava Campoli (2012) – a mio parere apre davvero alla possibilità di fare le differenze e permettere, attraverso l’introduzione del fattore personale, che tali esperienze siano non solo riabilitanti per i pazienti e per i curanti, ma possano segnare il fattore istituzionale e inciderne la memoria (Pierri, 2012). Questi piccoli aggregati operosi e generosi, in grado di rappresentare elementi positivi ed etici dell’istituzione, per necessità del tutto estemporanei, mai scontati, non replicabili nella forma e identità ma rinnovabili nella sostanza prima del prendersi cura, dipenderebbero strettamente dalla creatività e dalla ricerca di piacere delle persone che le avviano, e che le concludono, e sarebbero relativamente indipendenti dai luoghi e circostanze che in questo modo abitano e su cui lasciano un segno: traccia orale particolarmente viva ma labile, che andrà fatta ogni volta rinascere, in una forma diversa, da chi arriva dopo (Pierri, 2008).

Va detto che l’obiettivo degli analisti del gruppo “Psicoanalisi e Psichiatria” era particolarmente ambizioso: riguardava la possibilità di realizzare esperienze in cui si potesse parlare insieme del paziente, rispettando e integrando le differenze. Ma come intendersi fra membri delle due diverse istituzioni? Su quale “cultura comune”, come suggerisce Campoli, poter contare?

Dopo la promozione di giornate scientifiche di presentazione ufficiale reciproca, e di narrazioni cliniche e teoriche “a confronto”, già nel titolo dell’ultima giornata, significativamente dedicata al passaggio adolescenziale, a testimonianza di uno spazio intermedio che si stava preparando compariva l’intestazione “Tra Psicoanalisi e Psichiatria”, mentre faticosamente prendeva corpo, con entusiasmi e conflitti, il progetto di distinguere e far partire un ristretto gruppo di ricerca clinica, Intersezioni, formato da analisti e non analisti, interessati a trovare nuove strade di comunicazione e condivisione di esperienze cliniche con pazienti gravi, per provare a ricomporre insieme una narrazione sul paziente e sulla relazione. 

Forse il problema è rinunciare e modulare la propria formazione altamente specializzata, tornare indietro su certe scelte identitarie (analitica o psichiatrica), e recuperare il piacere e la capacità di parlare fra colleghi “in umanità” (Zapparoli 1988) fra “dirimpettai”, ritrovando quel linguaggio universale che può dar voce ad esperienze del quotidiano, come il “linguaggio ordinario” proposto da Wittgenstein (Boccanegra, 2012)? Qualcosa che ha a che fare con il recuperare anche la propria “dimensione umana” (Bollas, 2012) sapendo attingere dagli aspetti più personali dell’identità, dalla propria matrice relazionale di base, dalla consistenza del Sé (Bolognini1991) e quindi dalla possibilità di muoversi fra integrazioni e non integrazioni, al di là di forme e modulazioni più evolute caratteristiche delle identificazioni professionali mature.

 

Intersezioni: un fare conoscenza

“Non sarà tutto qui quello che faremo, non si tratterà solo di fare conoscenza?” affermazione sorpresa di un partecipante al secondo incontro di Intersezioni.

 

Intersezioni costituisce uno dei primi gruppi istituzionali “misti” o “ibridi” del Centro Veneto: non è un gruppo di Supervisione né un Seminario di formazione, e per le sue caratteristiche e finalità si differenzia anche dai gruppi di Intervisione o dai gruppi fra pari Weaving Thoughts, inizialmente sorti nella formazione degli analisti e in funzione ormai abituale negli incontri F.E.P. (Norman e  Salomonsson, 2005). Nella primavera del 2015, in qualità di segretaria scientifica del Centro Veneto, avevo caldamente sostenuto la realizzazione di gruppi clinici, da tempo in programmazione ma mai avviati, suggerendo il termine di “Intersezioni” a sottolineare la specificità delle rispettive posizioni e competenze professionali e la necessità di individuare punti di incontro, dove evidenziare convergenze e divergenze[2]. Andando a consultare il dizionario, Intersezione sta ad indicare vari gradi di incontro fra due distinti elementi, orientati secondo direzioni diverse: ciò in matematica può esprimersi come un solo punto d’incrocio e coincidenza, se si pensa a due rette, come una linea, nel caso di due piani, ecc. infine come un luogo discreto e definito formato da tutti gli elementi in comune, nel caso di due insiemi. Il termine contiene inoltre sia il concetto del taglio, della spaccatura, che quello di un possibile attraversamento.

Sorprendentemente, fin dall’organizzazione dei primi incontri, è stato evidente come questa interfaccia diventasse una sorta di catalizzatore, che il crocevia stesso potesse costituire un punto di attrazione e di aggregazione dove si orientavano, reindirizzavano e anche si chiarivano o dissolvevano le motivazioni dei singoli partecipanti, analisti e non. E come vedremo, mentre si rimettevano in dialogo aspetti diversi del paziente che psicoanalisti e psichiatri impersonano, le maglie di questa rete di relazioni, ancora prima che il gruppo conquistasse una configurazione stabile, cominciarono a funzionare come luogo di raccolta e di accoglimento clinico delle richieste disperse ed erranti dei primi pazienti. Intanto fra i partecipanti si distinguevano o si aggregavano ex novo numerosi piccoli gruppi di lavoro su un caso, anche solo coppie di curanti. Il primo ad essere interpellato dal paziente poteva essere lo psichiatra o lo psicologo del servizio pubblico, altre volte l’analista del privato: in meno di un paio di anni Intersezioni ha dato ospitalità e ha fatto crescere al suo interno un Centro Clinico in incognito, servizio spontaneo di specialisti reclutati nel trattamento del paziente, con sede e responsabilità presso gli studi o le istituzioni dove ciascuno si trova ad operare.  La composizione del gruppo si è attestata su una quindicina di partecipanti fissi fra analisti e non, a partire da un numero doppio di adesioni iniziali; la coordinazione è stata affidata ad uno psicoanalista e ad uno psichiatra, con il mandato non di supervisionare o di guidare la discussione ma di mantenerla e riportarla sulla consegna concordata. Il lavoro non era finalizzato semplicemente alla discussione del caso, da cui certamente ogni volta si parte e che ciascun professionista segue secondo la propria competenza, capacità ed esperienza, ma alla riflessione sulle problematiche della collaborazione e interazione fra curanti.

Riporto qui le prime finalità individuate:

1) il confronto con esperienze cliniche, in atto o sperimentate in passato, di collaborazione analisti – psichiatri su casi gravi o medio gravi, o casi di adolescenti, vincolando gli incontri alla presentazione dettagliata del caso e delle sue circostanze. Il suggerimento è, per chi lavora in psichiatria, di avere un particolare riguardo al contesto organizzativo istituzionale del lavoro (dagli orari dell’ambulatorio ai ticket al monitoraggio farmacologico, alle procedure di ricovero, alla computerizzazione degli interventi alla disponibilità di personale, ai turni, al rispetto della privacy e altro ancora) e, per gli analisti, al setting e alle sue variazioni o cosiddette interruzioni, alla modalità di presa in carico, di interpretare o intervenire, all’imbarazzo di nuovi assetti creativi che possano andare incontro alle modalità di presentarsi dei sintomi della sofferenza psichica.

2) la riflessione e la ricerca in comune al fine di individuare modelli di collaborazione minimali di “contenimento di base e sopravvivenza”, in particolare nei casi all’esordio, per una “presa in sicurezza” del paziente pronta ed efficace, sul cui sfondo poter allora riconoscere movimenti transferali e contro-transferali sollecitati nei diversi contesti e nelle distinte persone impegnate nella cura.

3) il reciproco aggiornamento e il riconoscimento di modalità comunicative nuove o già sperimentate, fra stanza di analisi e ambulatorio psichiatrico o reparto; l’individuazione delle fasi o dei luoghi – farmaco, ricoveri, comunità, lavoro con genitori? – dove si possono evidenziare maggiormente i pericoli di rottura, lacerazione della comunicazione-cooperazione fra curanti e il riconoscimento degli accorgimenti che possono aiutare a comprendere e utilizzare le conflittualità senza evitarle o esasperarle.

Nei primi incontri, molto ricchi e partecipati, i punti salienti riguardarono:

– l’attenzione ai protocolli che i servizi di psichiatria stanno concordando (con particolare interesse agli esordi psicotici e al lavoro con i genitori), così come la distinzione delle teorie che li sostengono (fenomenologica, cognitiva, dinamica, biologica…);

– il problema della precocità di certi esordi nel periodo puberale non sempre riconosciuti, della transizione di pazienti adolescenti dai servizi di neuropsichiatria infantile ai servizi per pazienti adulti, e il notevole impegno, qualitativo e anche quantitativo, che questi casi comportano attualmente per la psichiatria. Era riscontrata e riferita la particolare utilità ai fini prognostici, che i colleghi dell’età infantile e quelli dell’età adulta incontrassero insieme il paziente, per aiutarlo a transitare in questo passaggio interno e relazionale.

– l’importanza e la difficoltà nella ricostruzione della storia dei legami affettivi dei pazienti ospiti delle comunità terapeutiche, di cui spesso sembrano perdersi del tutto le radici. Era stata citata, come situazione estrema, nel caso di un paziente non riconosciuto dai genitori, il cui “sedicente” padre naturale si era fatto vivo inaspettatamente per incontrarlo, le difficoltà e le resistenze della comunità stessa a validare questo riconoscimento (a cominciare dal rispetto delle esigenze della privacy).

Emergeva  infine la curiosità e la voglia di stabilire migliori relazioni fra curanti: se un’analista poteva finalmente esprimere il proprio rammarico e disappunto nell’essere stata sempre tenuta fuori dagli psichiatri in occasione dei ricoveri di suoi pazienti, uno psichiatra si interrogava su come interagire quando un suo paziente ambulatoriale si lamentava dell’analista privato, riflettendo sul come una conoscenza personale del collega (con cui comunicava via mail ma che non aveva “mai visto in faccia”) avrebbe potuto far cambiare il suo atteggiamento, ad esempio sostenendo la cura con maggiore fiducia ed efficacia. Ci si poneva anche il problema di come e quando poteva essere opportuno effettuare l’invio ad un collega coterapeuta, dopo la fase diagnostica.

 

Libertà di pensiero in coppia

Per concludere, una sintetica presentazione clinica del caso da me proposto ad uno dei primi incontri di Intersezione e poi un paio di altre volte a distanza di mesi, seguito in collaborazione con uno psichiatra partecipante al gruppo, può essere utile per comprendere come la graduale costruzione di una rete di pensiero e di accoglimento, e la stabilità del dialogo fra me e il collega, nella cornice di tale esperienza di ricerca clinica promossa dal Centro Veneto, si sia riflessa nella conquista da parte della paziente di una primo senso di coesione e solidarietà sia nella relazione con i genitori che internamente fra parti sane di sé frammentate e “franate”, inizialmente in reciproca competizione.

Sul limitare delle vacanze estive mi era arrivata la telefonata della madre di Andrea che chiedeva un appuntamento per la figlia. Il mio nome le era stato fatto da una psicologa del servizio di neuropsichatria infantile, a me sconosciuta, che aveva già seguito in passato la figlia. (Recentemente è stato possibile ricostruire che l’invio era passato indirettamente attraverso uno dei partecipanti alle giornate scientifiche del Centro, che avrebbe poi preso parte a Intersezioni).

Andrea soffriva di dubbi ossessivi e la situazione era diventata recentemente insostenibile (omissis…) Il caso si presentava impegnativo e urgente: nel corso della stessa consultazione, interrotta più volte dalle ferie, mie e della paziente, arrivai a temere il breakdown quando, verso la fine dell’estate, ricevetti una seconda telefonata allarmata dei genitori, combattuti se accompagnare o no la figlia in Ospedale.  

Il mio rapporto di conoscenza con una psichiatra ambulatoriale e con la psichiatra di guardia quel giorno in Pronto Soccorso (tutte già partecipi ad Intersezioni) aveva potuto evitare ad Andrea e ai suoi genitori la drammaticità di un ricovero e aveva permesso che anch’io, meno spaventata, potessi decidere di prendere in terapia la paziente.

Nel gruppo Intersezioni furono affrontate le difficoltà emotive di questa presa in carico e della seria minaccia di abortire il progetto terapeutico che singolarmente rifletteva i temi proposti da Andrea (omissis…) tutti relativi al pericolo di non tenersi e di non essere tenuta (omissis…) “raggomitolata sul letto come un feto”.

L’incoraggiamento dello psichiatra e la presenza del gruppo cui fare riferimento mi aveva sollevato da pesanti vissuti di inadeguatezza, di poca prontezza, di colpa e soprattutto di rifiuto suscitati dal primo contatto con il nucleo profondo di sofferenza della paziente. Nel giro di alcuni mesi Andrea poté avviare con me una psicoterapia vis a vis a tre sedute settimanali (in meno di due anni è passata sul lettino) e sostanziare il rapporto con lo psichiatra in un intenso lavoro di sostegno e di guida, a lei e soprattutto ai suoi genitori, che arrivò molto gradualmente a far accettare/desiderare sia la cura analitica che una terapia psicofarmacologica, riconoscendo l’utilità di entrambe.

Mi accorsi fin dall’inizio che era sufficiente la mia presenza e la mia costante disponibilità, anche telefonica o con SMS, a rassicurarla e a farle stabilire una “fiducia cieca” in me: insieme imparammo ad arginare la sua angoscia – e a sostenere il peso emotivo che la responsabilità di tale “onnipotenza” mi faceva sentire –  individuando per le loro caratteristiche specifiche e costanti, e disinnescando uno per uno, i dubbi parassiti fin dal loro sorgere nella mente, “falsi” pensieri che non davano “vero” contenimento. Questi prendevano spunto da ogni occasione di separazione per minacciarle l’imminenza di qualcosa di catastrofico, potenzialmente irreparabile, che si figurava causato da piccoli errori o fraintendimenti nel riconoscere bene la realtà di qualcosa di visto, udito o detto. Altri elementi caratteristici riguardavano la forma invasiva, difficilmente delimitabile del “tarlo” nella mente, appiccicaticcio, rimuginante, paralizzante e costrittivo, Col tempo il fatto catastrofico sarà raffigurato con immagini di fallimento del proprio destino esistenziale, quali l’aver preso una strada per l’altra, il poter aver sprecato una bellissima esperienza. 

Nel definirsi di un’ipotesi diagnostica comune, negli incontri di Intersezioni si rese in seguito evidente che la coppia analista-psichiatra aveva negoziato all’inizio, difensivamente, una diagnosi più favorevole; con il procedere della presa in carico, e la sicurezza della sua tenuta, fu possibile arrivare a confrontarci con la serietà della condizione psicopatologica di Andrea, ma anche confidare sulla possibilità terapeutica, per la precocità e la tenuta dell’intervento e la buona risposta alle cure. Questo passaggio avvenne anche in relazione alla decisione di partire da questo caso clinico per dedicare alcuni incontri di Intersezioni alla compilazione in gruppo del Profilo metapsicologico[1] costruito da Anna Freud, di cui una collega era esperta°°, e alla condivisione delle diverse modalità di pensare i pazienti sulla base comune di tale strumento diagnostico.

Un sogno di Andrea all’inizio della cura mi sembra ben riflettere l’avvio di una possibile alleanza, fra parti interne del Sé e fra i curanti. (omissis…)

Nel sogno si può riconoscere la ricerca della cura per i pensieri virali e contagiosi che avevamo avviato, e il fatto che le parti di realtà psichica sopravvissute e sane potevano essere sentite come reciprocamente minacciose, divise e nemiche: ma nella riconciliazione con una compagna, e nella sua gentilezza, si poteva trovare anche la rappresentazione di quella possibilità di parlare ricostruita faticosamente fra di noi nel corso della consultazione, e nel lavoro fra me e il collega psichiatra all’interno di Intersezioni.

Ad un anno dal primo nostro incontro, i contenuti portati da Andrea in una seduta dopo l’interruzione estiva confermano la bontà di tale conciliazione. (omissis…) Parla di un piccolo “incidente” in montagna in cui ha rischiato di perdere la strada, attraversando un ghiaione anticamente franato e in seguito piantumato.  (omissis…)

Alla mia interpretazione che il percorso accidentato e tortuoso può essere una metafora per rappresentare la sua difficoltà nel percorrere la separazione delle vacanze analitiche, separazione che l’anno precedente aveva sentito come un vero franare, e che le aveva rammentato catastrofi ben precedenti – “Ora ha qualche indicazione per orientarsi  e ritrovare me e lo psichiatra”-  Andrea aggiunge: “Allora c’è qualcosa in più, qualcuno si è preso cura di mettere nuove piantine e pensieri sulla frana.”

(omissis…)

Recentemente, grazie all’organizzazione del pensiero tramite il Profilo Metapsicologico , è stato possibile cercare di immaginare insieme, anche dal punto di vista delle vicende del primo sviluppo infantile, come un dato anamnestico precoce riferito dai genitori, possa fornire elementi per illuminare le difficoltà nella sintonizzazione madre figlia, (nell’allattamento, nella deglutizione e nella fonazione), imprimendo una peculiare traccia, forma psichica, alle angosce che Andrea avrebbe poi sviluppato.

 

 

 

 

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[1] nella fattispecie quello per l’adulto, v. Freud, A., Nagera, H. and Freud, W. E. (1965). Metapsychological Assessment of the Adult Personality—The Adult Profile.  Psychoanalytic Study of the Child   20:  9-41.

°° Mariagrazia Capitanio, psicoanalista SPI, che ringrazio per aver messo a disposizione del gruppo Intersezioni la sua preziosa esperienza con il Profilo Metapsicologico, comprese le modificazioni ad hoc che vi ha apportato nel corso degli anni per adattarlo a persone con difetto- deficit- disabilità e valutare le interferenze tra difetto/ deficit e sviluppo libidico e aggressivo.

[1] 14/01/2012 Psicoanalisi e Psichiatria: un confronto La domanda di cura in Psicoanalisi ed in Psichiatria: un confronto, 11/02/2012 Il processo di cura dei pazienti borderline: due metodi di lavoro a confronto ; 30/11/2013Nuove forme di psicopatologia e flessibilità degli assetti terapeutici; 29/11/2014  Esplorazioni psicoanalitiche in ambito istituzionale; 21/11/2015 Tra psicoanalisi e psichiatria. La crisi di passaggio in adolescenza.

[2] L’iniziativa, alla cui partecipazione fanno riferimento queste riflessioni personali, costituiva per me una tappa di sviluppo attesa, nel percorso che mi aveva portato ad organizzare e lavorare per quasi trent’anni un “Ambulatorio di Consultazione e Psicoterapia per Genitori e Figli e del Ciclo della vita” presso il C.S.M. del 3°S.P.D.C. della Clinica Psichiatrica dell’Università di Padova, rivolto a pazienti gravi o medio gravi: qui avevo avuto modo di sperimentare una modalità di Supervisione Istituzionale, per così dire Interna, nel gruppo di lavoro che conducevo come coordinatore e psicoanalista, in collaborazione con gli psicoterapeuti in formazione delle Scuole di Specializzazione in Psichiatria e in Psicologia Clinica (vedi Pierri 1999, 2010, 2015a e b).

Mariella Pierri, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

mariella.pierri@gmail.com

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