Migranti e profughi. Illusione e speranza.

di Patrizia Montagner

(Venezia), Membro Ordinario con funzione di Training della Società Psicoanalitica Italiana, Presidente del Centro Veneto di Psicoanalisi.

Quando arrivo nel Centro di Accoglienza dove seguo da anni un percorso di osservazione e supervisione degli Operatori, non li trovo nella solita stanza riunioni. Sono in infermeria, con un nuovo ospite. Sono preoccupati e disorientati. Lui è lì, con la testa fra le mani, dice qualche parola, in risposta alle loro domande: è sconvolto, sperduto, il suo sguardo mi colpisce, è vuoto, come se solo ora si accorgesse di dove si trova, e si trovasse sperduto, senza speranza.

Sto assistendo ad un crollo, uno dei tanti che gli operatori ed io vediamo all’arrivo di un ospite nuovo.

Verrò a sapere poi che Amed (così lo chiamo) è arrivato in Italia con i barconi da pochi giorni. Viene da un Paese dell’Africa sudoccidentale. Ha attraversato il Niger, forse il Mali, la Libia, ed è arrivato in Tunisia. Non sappiamo bene quanti mesi o anni di viaggio, che cosa ha passato, quanta sofferenza, ma lo immaginiamo benissimo. É uno dei tanti che ne ha viste di indescrivibili, di inimmaginabili, un enorme carico di disumanità. Ormai siamo abituati a sentire questi racconti, purtroppo. Come se non riguardassero esseri umani ma merci con destinazione incerta. Lì in Tunisia, in attesa di poter trovare una barca che lo portasse in Europa (perchè a loro non interessa venire in Italia, interessa venire in Europa) ha incontrato una ragazza, di un altro Paese dell’Est Africa, hanno fatto la traversata insieme. Lei è stata portata in un Centro nel nord Italia, lui invece al Sud. E lui è riuscito a venire qui per rivederla, ma lei non vuole continuare la loro storia. Che forse non è una storia, ma soltanto un pezzo di strada insieme.

E lui ora ha perso la sua ancora, il suo riferimento. Forse quel riferimento esterno che aveva a che fare con quello interno, penso. Così ha perso la speranza.

E sono sperduti anche gli operatori.

Come si riuscirà ad aiutarlo? Sarà in grado, anche grazie al supporto che gli offrono, oltre all’intervento medico che è stato chiesto, di superare questo momento così terribile? Riuscirà a trovare un po’ di forza, quella che lo ha sostenuto in tanti mesi di viaggio? O è uno distrutto, che non troverà collocazione, ma soltanto un momentaneo luogo per sopravvivere? E gli operatori saranno di aspettare e lasciare che le risorse, se ci sono, si riattivino? Saranno in grado di individuare e offrire quegli interventi minimi ed essenziali per recuperare la speranza?

 

Nel lavoro con profughi e immigrati il recupero e/o il mantenimento del sentimento di speranza rappresenta un elemento importante che condiziona il reinserimento nella nuova realtà sociale e ambientale.

Speranza: “sentimento di aspettazione fiduciosa nella realizzazione presente o futura di quanto si desidera” (così la definisce la Enciclopedia Treccani).

La speranza non è un concetto psicoanalitico, è piuttosto un sentimento umano, implica tuttavia concetti che la psicoanalisi ha approfondito, come la fiducia, il desiderio, il senso del tempo.

Nel lavoro clinico quotidiano teniamo conto della speranza. Lo facciamo sempre quando incontriamo un paziente nuovo.

Ci troviamo talvolta a fare i conti con una situazione di totale mancanza di speranza, di disperazione, allora uno degli obbiettivi che ci poniamo può essere quello di far rinascere un sentimento di speranza.

Lo stesso può avvenire nel lavoro con i profughi e migranti.

Della speranza parla D. Winnicott.

Farò ripetutamente riferimento al suo pensiero per diverse ragioni.

– Innanzitutto perché è uno dei pochi psicoanalisti che ne parla in termini espliciti.

– Poi perché la sua teoria dello sviluppo infantile, implica un passaggio in cui mi pare di riconoscerla.

– E infine, ma non da ultimo, poiché spesso Winnicott si riferisce al senso e al valore di azioni ed interventi che vengono fatti in ambito di assistenza, e non direttamente al lavoro clinico della psicoterapia o dell’analisi, che di frequente con i migranti non è possibile, ma ne approfondisce in termini psicoanalitici il senso e il valore.

Dunque egli la considera un elemento importante nel lavoro, ad esempio con bambini e adolescenti deprivati, cioè ragazzi/e per i quali l’ambiente ha svolto un ruolo almeno parzialmente fallimentare. In proposito egli afferma che “Anche gli atti antisociali (…) indicano che, sia pure momentaneamente può esservi speranza, speranza di riscoprire una madre, una casa, un rapporto interparentale che siano accettabili. Anche l’ira può indicare che c’è speranza…” (1968, 179).

Winnicott ci suggerisce qui di essere disponibili a dare un senso diverso ad alcune azioni che sembrano, a prima vista, solo distruttive.

Sempre Winnicott parla della speranza nei casi di depressione e afferma: “C’è qualche speranza nei casi in cui la depressione prende la forma di preoccupazione riguardo a qualcosa. Il nostro compito è […] di dare un limitato aiuto per un tempo determinato nel punto specifico in cui l’individuo registra il fallimento e, così facendo, comunica speranza” (1968, 78).

 

E più avanti sempre Winnicott, (1971) afferma che il bambino per giungere al riconoscimento dell’oggetto come Altro da sé attraversa una prima fase di illusione:

“quando l’adattamento della madre ai bisogni del bambino è sufficientemente buono, esso dà al bambino l’illusione che vi sia una realtà esterna che corrisponde alla capacità propria del bambino di creare” (1971, 39). Questa viene naturalmente seguita dalla creazione dell’oggetto transizionale, che si colloca nello spazio dove prima era l’illusione. Si assiste poi sempre più all’allargamento di esso nella costituzione di un’area intermedia in cui ha luogo l’azione creativa, la comunicazione, l’arte ecc. cioè quello che Winnicott descrive come “il luogo in cui viviamo”, (1971, 179) nel senso dell’area in cui sentiamo di poter essere vivi e di creare il mondo, essendo tuttavia capaci di collocarci nello spazio e nel tempo.

É in quest’area, che sta tra la realtà concreta e il mondo interno, nello spazio intermedio, che si colloca a mio avviso l’esperienza della speranza.

L’oggetto si costituisce come tale quando avviene l’abbandono dell’illusione, ma tale abbandono non distrugge la possibilità di pensare ad un proprio futuro, di immaginare, almeno parzialmente di crearlo, dopo essere passati attraverso l’esperienza della disillusione, ed essere stati in grado, grazie all’apporto del mondo esterno, ma anche della forza della propria vita interiore, e delle identificazioni che in essa operano, di trasformare tutto ciò in un pensiero creativo.

Sempre Winnicott in un suo lavoro su “La libertà” scrive: “L’essenza della crudeltà consiste nel distruggere all’interno dell’individuo quell’elemento di speranza che rende significativi gli impulsi, il pensiero e la vita creativa” (1986, 250, corsivo mio).

La speranza si costituisce a partire dalla capacità di mantenere insieme, nella propria mente, sia gli aspetti positivi che quelli negativi della realtà, sia quella esterna, concreta, che quella interiore con la quale abbiamo a che fare noi stessi, solo noi stessi, ma dalla quale non possiamo fuggire.

Credo che la migrazione implichi per certi versi la creazione di un altro sé nuovo, almeno parzialmente e che questo percorso, che richiede talvolta nel concreto passaggi repentini, possa essere pensato come analogo a quello che il bambino segue nell’entrare nel mondo.

La condizione psichica in cui si trovano migranti e profughi che arrivano nel nostro Paese è spesso una condizione senza speranza: molti sono dei disperati, come Amed.

E con questa loro disperazione ci obbligano a confrontarci, se vogliamo davvero pensare di fornire loro l’aiuto di cui hanno bisogno.

Molti di loro hanno fatto una esperienza della crudeltà umana che è stata interiormente distruttiva.

Il corrispondente emotivo di tutto ciò è uno stato di protrazione fisica e mentale in cui precipitano, che ha tutti i tratti della depressione.

L’incontro con i profughi ucraini, con cui ultimamente mi sono confrontata, e con la loro sofferenza psichica, mi porta a fare delle considerazioni sulla somiglianza e sulla diversità che la loro condizione interiore e socioambientale presenta rispetto ad altri migranti o richiedenti asilo provenienti da contesti diversi, in particolare rispetto alla capacità/ possibilità di tenere vivo un elemento di speranza.

 

I migranti dal Mediterraneo e dalla Rotta Balcanica

Chi attraversa il Mediterraneo, o segue la Rotta balcanica, per giungere nel nostro Paese, spesso si trova ad affrontare difficoltà inimmaginabili, è vittima di violenze, torture, prigionia, le donne subiscono stupri. Talvolta queste esperienze traumatiche li portano a perdere la fiducia nell’umanità. La distruzione dell’umano non è purtroppo soltanto un elemento esterno, ma ritorna come oggetto interno che diviene cattivo e persecutorio. Quando arrivano da noi, quanto è vivo il desiderio di costruire una nuova vita e di ricreare dentro di loro uno spazio di speranza?

In questo percorso la funzione di coloro che li accolgono, la modalità di accoglienza, la comprensione dello loro problematiche, la capacità di dare un senso ai loro comportamenti, di riconoscere il riemergere della vita, svolge un ruolo fondamentale. Altri Umani si incontrano e si prendono cura di loro. L’ambiente aiuta certamente molto a contenere e bonificare questo elemento disumano. Credo che si debba considerare comunque che almeno parzialmente gli aspetti traumatici avranno bisogno di un ulteriore lungo lavoro interno, anche di anni, per essere sufficientemente bonificati (Montagner, 2019).

IL recupero del desiderio a volte si presenta immediatamente, altre si manifesta dopo un periodo di disorientamento che gli operatori chiamano “tempo per riprendersi”. É l’attesa degli operatori.

Cosa può significare questo? Penso che significhi “tempo per riprendere dentro di sé il contatto con la propria storia e i propri desideri”, tempo per tornare a pensare al futuro possibile.

Chi migra da Paesi in cui la condizione di vita è difficile, lo fa perchè si trova a non vedere prospettive di un lavoro e di una crescita nel luogo di origine. Il più delle volte sceglie di andare via, lasciando i propri affetti, le abitudini, la cultura, la storia, perché ha il sogno di stare meglio, di costruire un futuro buono altrove.

L’esperienza traumatica della migrazione può distruggere questo futuro, perché questo non succeda spesso viene messa da parte. Essa prende la strada della rimozione, del diniego o peggio della scissione, in tal modo non è né elaborata, né trasformata, ma tornerà così a disturbare la vita di chi l’ha subita, o a ricadere addosso alla/e generazioni future (trasmissione transgenerazionale).

Del resto questo movimento psichico di difesa talvolta è indispensabile per poter procedere.

Ho osservato che il percorso psichico, in questi casi, presuppone tre tappe distinte: l’illusione, la disillusione, la speranza. Segue cioè in qualche modo la linea evolutiva che Winnicott ha individuato.

L’illusione è ciò che muove molte volte i migranti e richiedenti asilo. Tramite i media, la televisione e soprattutto tutti quei canali sociali che mostrano vignette della vita nel nostro Paese o nel nostro Continente, si costruiscono una fantasia che da noi, o comunque in Europa, ci sia la possibilità di stare molto bene, di avere un guadagno facile, di costruirsi una famiglia, trovare un lavoro e una condizione molto soddisfacente.

Questa illusione a volte è davvero priva di un contatto con la realtà.

Tuttavia svolge una importante funzione di spinta e di attivazione delle risorse psichiche interiori, soprattutto nei momenti in cui è necessario un di più di esse, quando è in gioco la sopravvivenza. Credo che senza questa  non avrebbero trovato la forza di proseguire in momenti difficili.

Più l’attraversamento è stato doloroso e magari violento, e più la persona che lo ha compiuto, per non perdere il contatto con sé stesso e una minima fiducia nella capacità di recuperare, ha dovuto appoggiarsi psichicamente ad un “oggetto da salvare” (Amati Sas, 2020) cioè ad una idea, un desiderio, ma anche al pensiero di una persona cara, la cui importanza affettiva deve essere sufficientemente forte da mantenere in vita il percorso di sopravvivenza, fornire una qualche àncora psichica. (come la ragazza tunisina per Amed). Credo che anche il contenuto dell’illusione possa funzionare come potente oggetto da salvare.

Dall’altra, più tutto questo è stato faticoso, doloroso, violento, traumatico e più la delusione nell’arrivare nel nostro Paese, è forte e potenzialmente distruttiva per la vita psichica.

Dobbiamo qui distinguere tra disillusione (che è naturale e implica un processo graduale) e la delusione che è potenzialmente distruttiva.

In effetti dobbiamo riconoscere che l’orrore di taluni eventi che hanno vissuto è intollerabile e che il numero di persone seriamente disturbate psichicamente tra coloro che sono ospiti dei Centri di Accoglienza è molto alto.

Non mi riferisco qui tanto a persone traumatizzate che presentano tutti gli effetti dell’esperienza post – traumatica, (Elton V. e altri, 2023) ma a coloro che, dopo un certo periodo di permanenza e di “assestamento” sono nella incapacità di affrontare la realtà e si “rifugiano” nel grave disturbo psichico. Quest’ultimo può essere l’esito di eventi traumatici che arrivano a minare le fondamenta della personalità, magari dei più fragili, non consentendole più di riavviare un processo di recupero e ricostruzione.

In ogni caso questo percorso non è semplice per un migrante, poiché per certi versi si tratta davvero di dare forma ad una nuova vita, tuttavia vediamo che esso è possibile, anche se doloroso in quanto richiede il passaggio attraverso una delicata fase di lutto. (Volkan, 2017). Essa, come dicevo più sopra, ha tutti i tratti della depressione. A questo proposito dice Winnicott: “La nostra attività è regolata da una legge economica, e possiamo adempiere al nostro compito solo se interveniamo nel modo giusto nel momento opportuno; se invece tentiamo l’impossibile, la depressione si impadronisce anche di noi e il caso rimane inalterato” (1968, 79).

All’interno dei Centri di Accoglienza, quando viene dato sufficiente ascolto e attenzione a questi bisogni psichici da parte di un altro essere umano, questo passaggio viene favorito e si assiste ad un rinascere della speranza. Quello che cerchiamo di fare è appunto individuare queste azioni minime ma indispensabili.

A questo scopo abbiamo osservato che tutte le azioni, che implicano anche un minimo riconoscimento e una individuazione della persona, come essere chiamati per nome dall’operatore, essere ricordati, vedere che l’altro ha in mente le proprie caratteristiche e propri gusti, sono di grande aiuto. Si tratta di accorgersi che si è nella mente dell’altro, che si esiste come individuo non solo per sé, ma anche per qualcun altro.

Di contro tutto ciò che equipara, come la complessità dell’iter burocratico, in cui si perdono, li fa sentire dei numeri, li prostra.

É un percorso molto faticoso, il loro e anche il nostro, ma quando ce la fanno è una grande gioia ed è anche un dispiacere quando se ne vanno, come succede per i genitori che sono felici e allo stesso tempo tristi quando i figli prendono la loro strada.

Non sempre, ma spesso ce la fanno. Trovano un lavoro, trovano un posto dove vivere, magari anche una ragazza o un ragazzo, e ricostruiscono un futuro.

Non tutti, naturalmente.

Un elemento di speranza, speranza che il lavoro con loro sia davvero un seme che mette radici è dato da un fatto imprevisto e fantastico che gli operatori mi raccontano.

Più d’uno di coloro che sono stati ospiti del Centro, che se ne sono andati, hanno trovato lavoro e un luogo dove vivere, quando hanno le loro ferie tornano per qualche giorno al Centro. Come se andassero in vacanza o meglio come se tornassero alla loro casa natale. E questo ci fa pensare quanto il contenimento dato da un ambiente umano aiuti a ricreare radici.

 

I profughi ucraini

Accenno soltanto alla situazione dei profughi Ucraini che meriterebbe una lunga e approfondita riflessione (Montagner, 2023).

Lo faccio per due ragioni:

-la prima è che ho osservato che la condizione psichica nella quale si trovano a vivere i profughi ucraini fuggiti dalla guerra, è diversa e paradossalmente talvolta molto più difficile, e il nostro lavoro con loro ci ha posto continuamente problemi e interrogativi che non avevamo incontrato prima con altri migranti É stata una sfida ma anche una grande occasione di approfondimento, di pensiero, anche di ridimensionamento delle nostre conoscenze sulla dimensione psichica del passaggio.

-L’altra è data dal fatto che si tratta di una vicenda che ha attraversato la realtà italiana come una meteora. E ora è caduto su di essa un profondo silenzio. Ma non è una esperienza finita. É ignorata. Con tutto ciò che comporta questo silenzio che cancella.

In una fase iniziale queste persone hanno ricevuto una accoglienza buona.

In poco tempo lo Stato si è attivato per fornire loro documenti, alloggi, riconoscimento di diritti simili a quelli dei cittadini italiani, possibilità di frequentare la scuola, ecc.

Tutto questo ha consentito un apparente inserimento nel nostro contesto sociale. Tuttavia le cose non sono andate evolvendosi così bene come pareva all’inizio. Molti sono rientrati in Ucraina, e molti si sono trasferiti in altri Paesi a causa delle condizioni di accoglienza e sostegno in cui si sono trovati dopo un inizio molto promettente.

Sono stati accolti circa 170.000 profughi, si stima ne siano rimasti in Italia oltre un terzo.

Ai profughi attuali sono applicate le stesse regole imposte a tutti i richiedenti asilo. Le difficoltà con la burocrazia sono enormi.

Per gli ucraini, per la maggior parte di loro, il desiderio più grande è quello di poter tornare a casa, riprendere la vita che facevano prima della guerra nel loro Paese, ritrovare la casa, il lavoro e gli affetti e riprendere un percorso che la guerra ha brutalmente interrotto.

Dunque non si tratta di un desiderio di andare avanti, ma, per così dire, di poter tornare indietro, perché il buono della vita è sentito nel passato, non nel futuro.

L’attuale impossibilità a realizzarlo, accompagnata dalla costante consapevolezza che la guerra in Ucraina sta andando molto più a lungo del previsto e la distruzione e i danni causati da essa sono davvero enormi, per non parlare delle vite umane perdute, fanno sì che sia davvero difficile pensare a dei propositi creativi in tal senso. Il risultato il più delle volte è l’immobilità, l’attesa, la tristezza e il dolore.

 

La guerra e il vissuto di essere stati cacciati a forza dalla loro terra e allontanati dagli averi e dagli affetti conduce a un senso di perdita della libertà. Non intendo qui soltanto la libertà di essere concretamente sicuri e vivi nel proprio paese, ma anche di quella interiore che consiste nella possibilità di poter fare delle scelte libere, cioè di poter dare ascolto al proprio desiderio e scegliere se e come realizzarlo.

La mia idea è che nel lavoro con loro si sia trattato e si tratti prima di tutto di riconoscere e mantenere viva la speranza che la guerra finirà, che l’Ucraina tornerà ad essere un Paese libero e che gli ucraini potranno rientrarvi e ricostruirlo, sia che vogliano farlo per tornare definitivamente o soltanto per rivedere i loro cari.

Questo desiderio è la base, non rappresenta soltanto una realizzazione concreta, ma costituisce un elemento interiore fondamentale su cui è costituita l’identità del singolo, la sua storia personale, familiare, sociale.

Non ci stupisce quindi l’intensità dei sentimenti di odio e di rabbia che manifestano nei confronti del nemico. Credo facciano proprio parte della possibilità di sentire e mantenere viva la speranza di proteggere e/o ricostruire questo oggetto interno fondamentale per la propria identità.

Tanto più se pensiamo che il nemico è un altro molto simile, che parla una lingua simile, che scrive usando gli stessi caratteri cirillici, che non ci sono qui da noi. Più è simile e più è necessario differenziarsi per individuarsi.

 

Il punto problematico per noi psicoanalisti è rappresentato dalle situazioni in cui vediamo la necessità di un lavoro clinico perché la persona si presenta molto sofferente e provata.

Il conflitto riguarda il fatto che si trovano comunque in una condizione di dipendenza concreta da chi li aiuta. Mentre ciò che desiderano è non aggiungere dipendenza a dipendenza. Qualsiasi intervento clinico o di supporto psichico anche indiretto non può prescindere da questo bisogno di sottolineare l’importanza della libertà, costitutivo del sé, che in altri contesti passa inosservato.

Vediamo la diffidenza nell’affidarsi alle persone che offrono aiuto, come se accettare volesse dire tradire le proprie origini e il proprio Paese di provenienza. É il bisogno di mantenere e tutelare una “appartenenza” che è vitale in senso psichico.

Winnicott ci fa riflettere sul fatto che la speranza vive in uno spazio di libertà, quella psichica, collegata ma non sovrapponibile a quella fisica. Capacità fondamentale perché si possa vivere come protagonisti della nostra vita.

L’intervento clinico non può prescindere da questo desiderio, e deve stare in uno spazio/tempo in cui questo sia riconosciuto, rispettato e valorizzato come elemento di speranza.

 

Conclusioni

La riflessione sulla importanza della speranza mi ha portato a considerare come, in rapporto ad essa, l’esperienza del lavoro con migranti provenienti dall’Africa e dalla Rotta Balcanica, e quella dell’incontro con i profughi ucraini, presentino aspetti comuni e non.

Nonostante si tratti per entrambi di affrontare l’esperienza di aver lasciato il proprio paese e di collocarci in un luogo nuovo, nel primo gruppo prevale l’esigenza di prospettarsi un futuro, e questo costituisce, almeno in parte, una spinta al ricercare la speranza, oltre l’illusione e la disillusione.

Nel lavoro con gli ucraini ho osservato che emerge prepotente per loro il pensiero del passato e di un futuro possibile come ritorno al passato.

In questa seconda condizione non si assiste al passaggio da illusione a speranza attraverso il lutto. Il nostro modo di accoglierli, oltre che la condizione del loro Paese, rischia di far prevalere la delusione.

Voglio concludere mettendo in luce il fatto che esistono alcune attività che possiamo proporre e sostenere che in qualche modo aiutano a recuperare la speranza.

Esse sono quelle che si situano nell’area che Winnnicott definisce “transizionale”.

MI riferisco ad attività come il lavoro, l’arte, la musica, la cultura. Esse sono basate sulla capacità di riconoscere l’oggetto come esterno ma allo stesso tempo creato dal soggetto, sulla capacità di dare forma e senso nuovo all’oggetto stesso Ne vedo una

felice rappresentazione in questa installazione* esposta in un Centro che accoglie Migranti.

Opere come questa contribuiscono a cogliere nella realtà dimenticata un valore prezioso. E a fare esperienza della bellezza. Lo fanno consentendo di investire un’area che è appunto intermedia così da mantenere una pellicola di protezione del proprio mondo interno, che è fondamentale per tutelare la continuità del senso di sé, della propria vita, e del proprio futuro.

ricorrenze
*VERSO_altrove Legni di barconi dei migranti (Lampedusa, 2019), foglia d'oro, gommalacca.

Legni che parlano di un viaggio.

Un viaggio “verso altrove”.

Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano

la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro.

Ritengono che se qualcosa ha subito una ferita ed ha una

storia, diventa più bello.

Questa tecnica è chiamata Kintsugi.

Questi legni parlano di ferite e d’identità negate.

Sono legni lacerati come chi ha conosciuto sofferenze e

tribolazioni.

Crepe che possono diventare trame preziose: oltre il dolore

una possibilità di riscatto, dignità, ritrovamento di sé.

Oro come attenzione e cura, come opportunità e

cambiamento.

Verso altrove, in una nuova e più Umana dimensione.

Michela Sbuelz, 2020

 

Bibliografia

Amati Sas S. (2020). Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale. Milano, Franco Angeli.

Elton V., Leuzinger-Bohleber M., Schlesinger-Kipp G., Pender V. (2023). Trauma, Flight and Migration. Psychoanalytic Perspectives. London, Routlege.

Montagner P. (2019). Un luogo per vivere? Psiche, VI, 249-266.

Montagner P. (2023). Migranti e profughi: una riflessione psicoanalitica sulla speranza. In R. di Iorio (a cura di), Nel tempo sospeso. Pandemia e guerre: esperienze in Psicologia delle emergenze. Roma, Vecchiarelli.

Volkan V. (2017). Immigrants and Refugees. Trauma, Perennial Mourning, Prejudice and Border Psychology. London, Karnac.

Winnicott D.W. (1965). La Teoria del rapporto Infante-Genitore In Sviluppo affettivo e Ambiente. Roma, Armando, 1970.

Winnicott D.W. (1968). Il bimbo deprivato e come può essere compensato della perdita della vita familiare. In La Famiglia e lo Sviluppo dell’Individuo. Roma, Armando, 2005.

Winnicott D.W. (1968). Gli effetti sulla famiglia della malattia depressiva di uno o entrambi i genitori. In La Famiglia e lo Sviluppo dell’Individuo. Roma, Armando, 2005.

Winnicott D.W. (1971). Oggetti transizionali e fenomeni transizionali. In Gioco e Realtà. Roma, Armando, 1974.

Winnicott D.W. (1986) La Libertà in Dal Luogo delle Origini. Milano, Raffaello Cortina, 1990.

Speranza. testo disponibile dal sito https://www.treccani.it/vocabolario/speranza/

Patrizia Montagner, Portogruaro

Centro Veneto di Psicoanalisi

Patmontagner28@gmail.com

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