Nachleben. Il principio speranza nella cura analitica

di Maurizio Balsamo

(Roma), Psicoanalista Membro Ordinario con funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Psicoanalitico di Roma.

 

“Sperare, ha scritto lo storico dell’arte Didi-Huberman, è vedere un tempo che non vede la realtà in cui siamo immersi. È vedere il tempo nella sua stessa possibilità di rimessa in gioco… Significa sperare di vedere, e far vedere, un tempo altro… inventando, reinventando il tempo di punto in bianco” (Didi-Huberman, 2020). Una posizione, questa, fortemente coincidente con quella di Agamben (Agamben, 2008) quando osserva che l’unico modo di poter leggere davvero il proprio tempo, di sfuggire alla sua presunta unicità, di coincidere totalmente con esso, è nel porsi in una situazione euristica di distanziamento, di (relativa) non contemporaneità. L’anacronismo che ne deriva, o da cui emerge la possibilità di aprire l’attuale alle sue componenti carsiche, permettendoci di vedere diversamente o di vedere ciò che ancora non c’è, non è forse al cuore dell’operazione analitica? Non nasce infatti essa stessa, come nella possibilità del principio-speranza di Bloch (Bloch, 2019), dall’“invenzione di uno sguardo”, dalla ricerca di letture respinte dalla visione ufficiale, di teorie mai giunte alla coscienza, dalla sua immaginazione redentrice? Non solo, come è ovvio, nel reperire un latente nel manifesto, un altro mondo nella scena apparentemente insignificante della realtà quotidiana, le dimensioni rimosse o scisse in attesa di ritorno e di reintegrazione nella scena psichica, ma nell’aprire il tempo nelle sue faglie costitutive, sfuggendo all’illusione o all’incubo di una realtà omogenea, permettendo così a ciò che è in giacenza, a ciò che si è iscritto nella memoria dei vinti (Benjamin), o a ciò che non è mai accaduto, di riacquistare il diritto di parola, di esistenza. In termini analoghi si esprime del resto Pontalis (Pontalis, 1999), quando chiede: (“Cos’è la psicoanalisi? Una quinta stagione”), dando di essa la rappresentazione di un fuori tempo costitutivo, di un’esperienza che utilizza l’anacronismo inerente al funzionamento psichico (nella sua modalità di riunificazione, sintesi, mescolamento, riscrittura, plasticità, confusione dei tempi, indeterminazione conseguente delle tracce), permettendone-in una sorta di capovolgimento operativo- una diversa risignificazione. Nel tentativo, così facendo, di realizzare lo sganciamento da una fedeltà delle tracce a se stesse, rendendole disponibili a quei nuovi incontri che in quelle tracce stesse si depositeranno, consegnate – a quel punto- alla loro inevitabile usura, alla loro liberazione energetica ed affettiva.  Contrariamente a ciò che pensava lo storico Lucien Febvre, (Febvre, 2003), l’anacronismo non è dunque un errore, quanto un clinamen, l’irruzione di un tempo altro nel tempo presente e, con esso, l’apertura di un orizzonte non prestabilito. “Vedere il tempo nella sua possibilità di rimessa in gioco”, significa sottrarsi alla credenza che il tempo del destino abbia inghiottito inesorabilmente quello della storia, permette l’accadere psichico del principio speranza, ciò che Freud pone nel momento in cui pensa il rapporto fra principio di piacere e principio di realtà, laddove cioè si realizza la convinzione fiduciosa nella forza del nostro desiderio. Nell’atto di sperare, nella possibilità che questo stesso atto possa accadere, il punto rilevante non è tanto ciò che potrebbe essere pensato come un diniego della realtà, “il non vedere la realtà in cui siamo immersi”, ma piuttosto il diniego di questa immersione, l’opposizione processuale che riusciamo a creare verso un’immagine di questa realtà come conclusa, fissata per sempre, infinitamente uguale a se stessa. Il che implica cogliere in questa speranza la sua dimensione conflittuale, e dunque analiticamente operativa, ciò che innanzitutto la trattiene, ne impedisce l’accadere. In primis, il peso del reale che istituisce la speranza medesima come suo possibile oltrepassamento, che la determina e la realizza come suo negativo potenziale, col rischio però di confinarla in esso; dall’altra, questo peso che la trattiene a sé e la rende incerta, contraddittoria, melanconica. Dovremmo allora pensare alla speranza innanzitutto come l’articolazione fra il campo del desiderio e quello del negativo che si oppone ad esso. Se la speranza riguarda un futuro possibile, il negativo, ricorda Green, istituisce la prevalenza dell’accaduto su ciò che potrà accadere, ferma il tempo in una eterna ripetizione di ciò che non è accaduto e mai potrà accadere. È qualcosa che ritroviamo nella descrizione che Benjamin fa a proposito dell’opera Spes di Andrea Pisano, nel Battistero di Firenze: “Sopra il portale la Spes di Andrea Pisano. Seduta, leva impotente le braccia verso un frutto che le rimane irraggiungibile. E tuttavia è alata. Nulla di più vero” (Benjamin, 2002, 443). Occorre dunque un lavoro affinché la speranza si levi, muova le ali, sia disincagliata dalle maglie del reale, dalla sua negativizzazione o dislocazione utopica. Quando André Green scrive che nei pazienti caratterizzati dal blocco del pensiero, dal funzionamento in seconda topica e dall’arresto della processualità di investimento oggettuale, ciò che sembra emergere costantemente è la scomparsa del principio speranza, allude esattamente all’impossibilità, per il campo del desiderio, di continuare ad operare senza amputazioni violente, interdetti assassini, e dove la posizione medesima dell’analista, catturato dalla disperazione che pervade la scena clinica, appare fortemente a rischio. Naturalmente, c’è sempre, in ciascuno di noi, una differenza fra ciò che possiamo vedere e ciò che non dobbiamo vedere per vivere, per mantenere la nostra sicurezza narcisistica, il livello di omeostasi accettabile o minimale atto a garantire un’esistenza, anche se -a volte- estremamente rarefatta. Questa dinamica, infatti, non si rende esplicita solo nelle vicende di cui Green tratta parlando sostanzialmente dei casi limite, ma appare presente in maniera strutturale in ogni funzionamento mentale. La vita psichica è una continua oscillazione fra affermazione dell’oggetto e sua negazione, accoglimento e suo disconoscimento, investimento e ritiro. Il campo del diniego – che si differenzia dunque dal rapporto strutturale, interno ad ogni atto psichico, fra affermazione e negazione, come si esprime Freud nel saggio sulla Negazione-, disarticola questa oscillazione in una sola modalità, quella della non esistenza di una data realtà, procedendo dalle forme più estreme, -si pensi al diniego maniacale-, a quelle più frammentarie, dove ad essere negato è piuttosto un carattere parziale, un aspetto del valore o del senso dell’oggetto. Tuttavia, proprio per la vastità e l’enormità delle forze psichiche necessarie per mantenere in piedi un diniego totale, possiamo capire che questo evolve o verso una forma radicale, ed allora saremmo nella coincidenza fra diniego e psicosi, o in una sua forma frammentata, modulata, fatta di compromessi variabili nel tempo fra istanze e potenzialità differenti, dando origine a quelle singolarità o stranezze che incontriamo ogni giorno, nella vita, o nella stanza d’analisi. Conseguentemente, creare le condizioni di un taglio nell’apparente omogeneità dei processi determinati dal meccanismo del diniego, evitando cioè la logica del tutto o nulla, apre correlativamente a quella discontinuità necessaria per immaginare un tempo diverso da quello attuale, meglio, per istituire la categoria stessa della temporalità schiacciata o annullata dall’attuale, ipotizzando l’entrata in scena di modalità differenti di relazionalità. Significa cercare, nel materiale della seduta, contraddizioni nelle rappresentazioni del diniego, passibili di ridiscutere la logica imperante. Potremmo allora ipotizzare che per aprire la realtà clinica ad altri ed insondati livelli, rendere usufruibile il possibile che giace comunque in essa, dispiegandone il suo anacronismo fondativo, occorre dire no a ciò che è in vista, a ciò che ci appare compiuto, dato, fissato per sempre nella sua cancellazione, nel suo verdetto di non esistenza. Occorre in qualche modo accecarsi artificialmente, realizzare quel “non vedere” di cui parla Didi Huberman, e che mi sembra possa essere pensato come una modalità di giocare in maniera imprevista con il non poter vedere del diniego, che data la sua forza, la sua struttura negativizzante, ci obbliga a vedere in un solo modo, accettandolo cioè come l’unico modo di vedere esistente nel soggetto. Eppure, già la presenza della scissione in ogni fenomeno di diniego dovrebbe farci almeno ricordare dell’esistenza di un’altra corrente psichica che riconosce la realtà, seppure scissa, resa inerte; pur sempre presente, anche se disattivata. Forse, in questa paradossale operazione analitica del diniego del diniego, (che non è l’incarnazione del principio di realtà da parte dell’analista offerto al paziente, nella fantasia di una sua correzione, dimensione del tutto inutile, ma la messa in evidenza dello scacco a cui è di fatto sottoposto il principio di piacere del soggetto, aprendolo alle sue contraddizioni, alle sua faglie), riusciamo a dar luogo ad un processo immaginativo passibile di smontare il costrutto che abbiamo dinanzi, la logica che ci pare fondare la totalità del funzionamento psichico del soggetto. Si tratta, ancor più chiaramente, di riuscire a lasciarsi sorprendere dalla possibilità dell’esistenza del nuovo o della differenza in una logica di ripetizione, di scomporre la ripetizione stessa nelle sue varie componenti, per rimontare diversamente la scena clinica. Senza queste operazioni di smontaggio e di rimontaggio, al cuore, come ho già detto, del funzionamento anacronico dello psichico e che caratterizzano l’ascolto dell’analista a partire dall’eterogeneità delle tracce, dalla molteplicità dei livelli che si evidenziano nel discorso o nell’agire del paziente, dalla necessità di raffigurare attraverso la produzione di immagini traduttive ciò che irrompe nella sua domanda di immobilità o di fissità, non si vede niente. Non solo, infatti, non vediamo il tempo altro che è in gioco nel tempo presente, il campo dei possibili operanti segretamente in ogni scena, la dimensione anacronica, stratificata, di ogni sintomo, del sogno, dell’affetto, ma non scorgiamo nemmeno ciò che ci appare nella sua semplice offerta al nostro sguardo. Non saremmo infatti capaci di cogliere la polifonia o la sovradeterminazione di un gesto, di un sogno, di un racconto, piegandolo erroneamente al solo tempo presente; non saremmo capaci nemmeno di cogliere il valore dell’immagine stessa, privata della sua storicità e della sua necessità di un tempo ulteriore per essere compresa. La dimensione della Nachträglichkeit, dell’après coup freudiano, non indica che questo: se occorre una seconda scena perché vi sia un trauma, se occorre un tempo successivo perché vi sia un evento, è perché ogni origine è coglibile solo nel ritardo del suo apparire. O, se si vuole, è ciò che esprime Benjamin quando scrive che le immagini giungono alla loro leggibilità solo in un’epoca determinata. Questa leggibilità implica, come egli scrive, (ma è una questione centrale nello stesso Freud), il principio del montaggio, il principio che opera in ogni seduta coi nostri pazienti, che si istituisce nel gioco fra libera associazione e attenzione fluttuante, ponendo le basi per un processo che ritaglia diversamente il discorso, disloca gli elementi della scena per legarli a ciò che è apparso in un altro momento, in un altro contesto, in un altro luogo, tempo o individuo. Da qui si produce quel momento unico, critico, a volte pericoloso per la stabilità narcisistica, in cui qualcosa precipita infine nella sua visibilità dopo un viaggio senza meta e senza destinatario apparente. Il montaggio rilega diversamente ciò che era legato in un senso unico, destinale; lega ciò che non è mai stato legato; ritesse il passato, riapre futuri in giacenza. Nel suo opporsi alla logicità del discorso cosciente, o alla forza di un movimento espulsivo, alla presunta assolutezza di una realtà che non esiste, o esiste nella sua unica rappresentazione, nega innanzitutto la credenza in una storia eternamente già scritta. Ma soprattutto assume, a vantaggio dell’esperienza analitica, l’idea che più spesso di quanto non si creda il diniego è un diniego condiviso, trasmesso, è l’esito di un patto inconscio, ed è in quella relazione originaria che occorre allora far entrare un nuovo sguardo, o un nuovo interlocutore. Se il diniego ha infatti un interlocutore, segreto o manifesto che sia, allora esso, anche nel suo rifiuto, dialoga, discute, polemizza, con degli oggetti interni, ed è quel brusio al fondo dello psichico che bisogna dunque cercare di portare alla luce, per uscire dal nero della sua cancellazione.

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 Questa operazione di montaggio dell’eterogeneo è ciò che parimenti esprime Jean Luc Godard nella sua teoria del cinema (Godard, 2007), allorché mette in correlazione l’uso della pellicola 16 mm della Kodak da parte del regista Stevens ad Auschwitz e la possibilità di filmare il sorriso di Elizabeth Taylor in Un posto al sole. Non solo perché, osserva Didi Huberman, senza la vittoria sul nazismo non ci sarebbe stato Hollywood, ma perché entrambe le immagini, quelle dei campi e quella del sorriso di Elizabeth, “si dibattono insieme nella stessa tragedia della cultura”. Il montaggio crea un filo là dove esso era silente o invisibile ai nostri occhi, crea connessioni insolite, alla maniera di un Warburg che correla la danza di un primitivo coi serpenti, per catturarne la potenza dinamica e con essa la possibilità della pioggia, alla fotografia dello zio Sam sotto un palo della luce nella metropoli contemporanea. Stessa dynamis, stessa forza energetica, stessa potenza da controllare, seppure in contesti e luoghi completamente diversi. Questa operazione di montaggio/smontaggio della scena clinica, di immaginarizzazione, è ciò che ogni giorno, nella sua stanza, compie in silenzio un analista. “Nella nostra pratica contemporanea, scrive Green, non si cerca tanto di rendere manifesto il latente, quanto di produrre una dinamica creatrice nella seduta analitica. In un articolo dal titolo “La capacità di reverie e il mito eziologico”, continua Green, “io parlo del lavoro di immaginarizzazione dell’ascolto dell’analista in rapporto al discorso del paziente. Una volta che il senso manifesto del discorso è stato compreso, ancora bisogna immaginarlo, figurarlo, renderlo visibile per il pensiero dell’analista. Io insisto giustamente sull’importanza decisiva del preconscio dell’analista come luogo di lavoro psichico dei processi terziari… Per questo motivo io faccio riferimento al soggetto che gioca, al soggetto in grado di trasformare se stesso e le regole del gioco”[1]. “Il soggetto, continua, è questo gioco dell’attività creatrice in tanto che movimento inquadrato dalla struttura del simbolico, ma avente un margine d’azione”[2]. Potremmo pertanto ipotizzare che il principio speranza, nella cura analitica, è dato dalla possibilità di accedere alle funzioni di montaggio/smontaggio delle scene, dei ricordi, dei costrutti, delle teorie personali, in modo da riaprire il campo del possibile, l’area del gioco nel senza tempo del destino. Slegare per rilegare diversamente, detradurre per riaprire a nuove e più complesse traduzioni, nel senso di un Laplanche. Mentre il diniego realizza uno smontaggio del reale, bloccando però le successive, potenziali, operazioni di rimontaggio (è ciò che a mio avviso determina la differenza fra dimensioni funzionali e dimensioni patologiche del diniego in cui il processo si arresta irreversibilmente sul primo movimento), la processualità analitica è un operatore dinamico di queste oscillazioni. La ricchezza della vita psichica si istituisce proprio nella non assolutezza di un movimento e, da qui, sia la natura antiideologica dell’esperienza analitica, sia ovviamente la sua potenziale interminabilità. Queste operazioni trovano il loro massimo grado espressivo nella realtà delle costruzioni analitiche, che potremmo pensare come la realizzazione di una figurabilità, di un raccordo capace di unire elementi disparati, di un differente legame di tracce ed esperienze. Come già Freud osservava in Costruzioni in analisi, (Freud, 1937) questi elementi appartengono al passato e al presente, uniscono sensazioni e rappresentazioni le più varie, istituiscono un senso inghiottendo nell’urgenza del momento, dell’ora, ciò che era già là. Nei termini di Benjamin, le costruzioni sono delle costellazioni: la rappresentazione che lega ed unisce le varie stelle fra di loro, è il frutto di una convenzione, di una congettura, che necessita però del riconoscimento di fenomeni, l’esistenza delle stelle, che non appartengono al solo spazio- tempo della seduta. Ritroviamo qui, agevolmente, il senso del creato-trovato winnicottiano.

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Vale la pena di ricordare come, per Green, la clinica analitica può trovare una sua forma classificatoria-interpretativa proprio tenendo conto della possibilità o meno del dispiegarsi del principio-speranza. La logica dei processi primari, scrive ne La follia privata, è una logica della speranza. Questa è fondata su una coppia di opposti, il desiderio e la proibizione. “Riguardo all’oggetto del desiderio, non sembrava che il soggetto si interrogasse in modo significativo: si può supporre che, se la proibizione avesse potuto essere sospesa, nulla si sarebbe opposto a una felice unione con esso. In definitiva non era concepibile che l’oggetto potesse non amare il soggetto e a fortiori- che potesse odiarlo. Da questo punto di vista la logica dei processi primari è una logica della speranza, che fa trionfare il desiderio; le cose vanno in modo completamente diverso in quella che abbiamo chiamato la logica della disperazione. In questi casi non è la proibizione ad essere in primo piano, bensì l’oggetto. Qui il conflitto fra amore e odio è dominante, e la fissazione inoltra non riguarda più l’amore ma l’odio” (Green, 1991, 46). Ora, nel paragrafo successivo a queste considerazioni Green pone il tema della scissione dove il soggetto è nell’impossibilità di giudicare, dove il sì e il no coesistono senza influenzarsi, e dove non esiste comunicazione fra parti scisse, il che spiega l’impasse dell’analisi, la particolarità dell’ascolto del soggetto e, al medesimo tempo, la sua indifferenza per ciò che è detto o vissuto nella coppia. La logica della disperazione si accompagna così alla logica del rifiuto di giudicare. Nello scritto del 1925 sulla Negazione, (Freud, 1978), Freud scrive che ogni affermazione si accompagna ad una espulsione di qualcosa che viene lasciato da parte, respinto nella formulazione dell’Io, e a questa espulsione dà il nome di Ausstossung. Vi è dunque una negazione nell’atto stesso dell’affermazione, relativa al giudizio di attribuzione, alla differenza fra le qualità dell’oggetto che posso o meno incorporare, accogliere in me o respingere lontano da me. Questa operazione indica che ogni atto psichico lascia inevitabilmente dei resti da tradurre, resti da pensare, un negativo dell’operazione stessa di affermazione originaria. Possiamo ritenere così che l’esperienza analitica vada intesa come un lavoro incessante sui resti, come un’esperienza volta a rendere i resti psichici svincolati dalla dimensione della ripetizione e dalla sua evocazione di un tempo immobile, come questa pressione del resto sulla realtà psichica sia da una parte la traccia di una insistenza ripetitiva che respinge ogni possibile  nuova iscrizione e, dall’altra,  una spinta alla traduzione, motore di ritorno su di sé che si compie ad esempio nel lavoro notturno del sogno o nell’indirizzo transferale. Inoltre, mi pare importante rilevare la differenza fra la forma di negazione necessaria, (funzionale al processo di trascrizione-traduzione, la coesistenza originaria del sì e del no nel compiersi di ogni atto psichico), e il sì e il no tipico del processo di diniego[3]. Ora, è proprio da questa assunzione del valore onnipresente del sì e del no in ogni atto psichico che deriva un’osservazione di Green relativa al fatto che la coesistenza del sì e del no non basta per l’appunto a caratterizzare il lavoro del negativo in quell’operazione psichica particolare rappresentata dal diniego, e che trova la sua ben nota espressione nel feticismo mediante l’istituzione di due correnti psichiche, una in cui si riconosce la castrazione del fallo materno e l’altra che la nega. In effetti, continua Green, questa coesistenza dell’affermazione e della negazione può essere di due tipi, congiuntiva o disgiuntiva. Congiuntiva, “se avviene sotto il primato dell’Eros. É così per l’oggetto transizionale che è e non è il seno della madre. Quando la coesistenza è disgiuntiva il lavoro del negativo si compie sotto gli auspici delle pulsioni distruttive. Ed è allora il caso della scissione e del diniego che, per alcuni, è difficile distinguere dalla forclusione. La differenza è che anziché riunire, il lavoro del negativo separa, impedisce qualsiasi scelta e investimento positivi. Qui non si tratta di sì e di no, ma di né sì né no” (Green, 1996, 373). Possiamo concludere, da questa osservazione di Green, che il soggetto è bloccato in un’impasse che rende manifesta l’impossibilità di procedere ad un rilegame delle funzioni smontate e che il senso dell’impresa analitica consiste innanzitutto nell’istituire condizioni idonee per riattivare tale processualità.

Riprendiamo le fila del discorso fin qui posto: vi è una compresenza di accoglimento e di rifiuto della realtà, che è la precondizione per vivere, selezionare, soggettivare l’esperienza, iscrivendola, tralasciandone alcuni aspetti, rimuovendoli, negandoli, o lasciandoli in giacenza, in attesa di un loro eventuale ritorno sulla scena psichica. Al medesimo tempo, questa duplice operazione di accoglimento e di respingimento permette al soggetto che si fa storico di se stesso di riaprire il campo del possibile nel già dato, rileggendo diversamente, rimettendo al lavoro quei sì o quei no originari che ne hanno contrassegnato la traiettoria, riaprendo eventualmente i limiti di ciò che è stato cancellato, rimosso, negato nelle generazioni precedenti e che, come nei testi di Sebald, riappare a mo’ di ossessione, revenant, inquietudine, collasso in un individuo ignaro della storia che lo possiede. Ma cosa accade invece, quando, come osserva Green, il sì e il no non rappresentano una coesistenza congiuntiva, sotto il segno di Eros, ma disgiuntiva, sotto il primato delle forze di slegame? Accade, ci ricorda, che questa differenza impedisce scelte, investimenti positivi, impedisce dunque di rendere effettiva la coppia feconda delle operazioni di legame-slegame, di montaggio-smontaggio. A prevalere, se si vuole, è la sola dimensione dello smontaggio o la necessità di mantenere in piedi, costi quel che costi, la sola forma di montaggio che è stato possibile raggiungere, quel particolare diniego della realtà percettiva che costringe il soggetto a vivere in una costruzione amputata. Ma potrebbe “il diniego del diniego” di cui parlavo prima, il dire no dell’analista alla credenza in una unica realtà, riuscire a disattivare questa potenza distruttiva, questa dimensione disgiuntiva, la serie interminabile delle operazioni di smontaggio? Non sto forse esprimendo una paradossale sottovalutazione della distruttività all’opera nei processi di cui stiamo trattando? Oppure, nonostante tutto, a questa logica della disperazione, a questa funzione di slegamento, bisogna comunque riuscire ad opporre un’aspirazione al ri-legame, un tendenziale ritorno della mobilità psichica che si realizza innanzitutto nella capacità di sopravvivere dell’analista medesimo? Dove, infatti, se non nelle diverse proposte simbolizzanti offerte dall’analisi o nella resistenza a non sottoscrivere un nuovo patto a due denegante, si situerebbe la possibilità di una biforcazione, di una rottura del tempo immobile? Non occorre allora pensare ad una sorta di fertile follia dell’analista che lo mantiene, nonostante tutto, agganciato ad un tempo profetico, un tempo in cui a dispetto delle operazioni del negativo, qualcosa invece può, deve, potrebbe ancora accadere?[4]

Mi pare importante ricordare, di nuovo, come l’operazione di diniego non sia da pensare unicamente nel campo della psicosi, della perversione o del feticismo. Infatti, l’osservazione di Didi Huberman da cui sono partito, già indica come, per aprire il tempo, per aprirlo alle molteplici linee di sviluppo contenute in esso, occorre che questa realtà a cui aderiamo ciecamente, questo tempo in cui siamo immersi, sia in qualche modo sconfessato, smentito nella sua assolutezza (è questo, del resto, il senso più preciso del termine diniego), affinché qualcosa possa davvero nascere. Straordinario paradosso di un termine, quello di smentita che, se da un lato rimanda classicamente alla negazione di una realtà percepita, ad esempio la differenza dei sessi, dall’altra allude, in maniera euristica, ad una smentita soggettiva del potere totalitario di una credenza, di una immagine, di una realtà indiscutibile. Questo non ci ricorda qualcosa del nostro lavoro analitico, allorché cerchiamo di aiutare il paziente a disidentificarsi da credenze patogene, da teorie consolidate, da verdetti destinali, negandone lo statuto di verità ultima? E per compiere questo percorso non occorre che sia in primis l’analista, a sconfessare, (follemente?), la sua credenza ad una immagine totalitaria, all’unica realtà che si presenta ai suoi occhi?

È in tal senso che Didi Huberman, commentando il film di László Nemes, Il figlio di Saul, rende conto della follia di Saul nel lager in cui è richiuso, e in cui si occupa, facendo parte dei Sonderkommando, dei corpi di coloro che sono stati assassinati nella camera a gas. A dispetto dell’orrore di ciò che lo circonda, della morte anonima a cui tutti sono sottoposti, a dispetto della fine di ogni principio speranza in quell’inferno in cui si è caduti, Saul realizza una biforcazione nella disperazione, inventandosi un figlio morto da salvare nella sua morte, un figlio a cui dare sepoltura, costi quel che costi e, con essa, istituire un corpo che resiste alla cancellazione del fuoco, un figlio a cui agganciare la speranza di un ritorno, la possibilità medesima di un gesto di umanità in una realtà che non ammette speranza alcuna. In che cosa consiste infatti la follia di una speranza in un luogo disperato? “La follia, scrive Didi Huberman, di voler salvare un morto; la follia di voler prendere il tempo per un rituale funebre allorché tutto non è urgenza che intorno a sé; la follia di voler trovare una terra di inumazione all’interno di uno spazio talmente totalitario e onni-sorvegliato, uno spazio in cui tutti i morti, innumerevoli, sono integralmente ridotti in cenere e fumo” (Didi-Huberman, 2015, 39). La follia necessaria alla possibilità che la speranza si realizzi, ciò che permette alla disperazione di biforcarsi, si dà nel gesto di inventare un figlio (il figlio infatti è solo un ragazzo fra i tanti del campo, gettato nella camera a gas, a cui Saul assegna per nominazione disperante, delirante, umanizzante, lo statuto, il battesimo, la credenza personale che sia suo figlio, figlio morto ma per cui lottare, per ritrovare una singolarità nella cancellazione anonimizzante delle camere a gas, dei forni crematori). “Tutta l’autorità di Saul, scrive Didi Huberman, e, pertanto di questa storia, di questo film, è nel creare una situazione nella quale un bambino esiste, fosse anche già morto. E questo affinché noi stessi usciamo dal nero di questa atroce storia, da questo buco nero della storia” (Didi-Huberman, 2015, 55). Vi è così, con evidenza, un diniego del reale, un diniego della dimensione anonima e senza senso di tutti i morti dei campi che introduce ad un possibile, apre alla catena di una genealogia seppur inventata, apre al tempo che viene e che lotta contro la cancellazione del tempo dato dallo sterminio. Inventa un figlio, crea le condizioni di un ritorno all’umanità, quello della sepoltura, del rituale funebre, di una nominazione, di una singolarizzazione. Didi Huberman non sviluppa qui una dimensione, che invece io porrò più avanti, che è quella del ritorno, se non nella formulazione comunque per noi parlante, clinicamente, del ritorno sulla scena che dobbiamo comunque realizzare per accedere allo spazio del traumatico[5]. Così egli scrive: “Che cosa fare (dinanzi a questo buco nero della storia)? Lasciare il buco nero minarci dall’interno, silenziosamente, assolutamente? Oppure tentare di farvi ritorno, di guardarlo, cioè di metterlo in luce, di farlo uscire dal nero?” (Didi-Huberman, 2015, 13). Ebbene, uno dei sensi del film il figlio di Saul a mio avviso, è che anche qui, laddove non vi è che orrore, distruzione, morte del senso e di ogni speranza possibile, proprio grazie al diniego di questa realtà, al diniego opposto al diniego generalizzato della vita stessa, un delirio se si vuole, si realizza, come per miracolo, la reintroduzione della categoria del ritorno e dunque della speranza. Mi spiego meglio: la categoria della speranza è inscindibile da quella del ritorno, se si vuole da quella del ritrovamento dell’oggetto perduto della soddisfazione allucinatoria. Ovviamente, dobbiamo comprendere che non si tratta, in questo ritrovamento, di un’imago, quanto di “un movimento psichico che per tentare di ritrovare l’oggetto primario, produce degli effetti di speranza e permette la cancellazione della madre effettiva della nostra piccola infanzia, sopprimendo così la minaccia incestuosa che ne emana” (Lavallée, 2011, 1523). È insomma il movimento di ritorno verso qualcosa di vitale e al medesimo tempo di sconosciuto che è all’origine della creazione continua di sostituti, di forme differenti dall’identico della prima scena, di formulazioni artistiche, di feticci e di quant’altro possa servire per sopravvivere. È questo sconosciuto in noi che è all’origine dello spazio creativo, ci ricorda Green o, come scrive Paul Valery: “Lo sconosciuto è la speranza della speranza”. In un testo pubblicato su Psiche, (Balsamo, 2018), avevo già cercato di mostrare come la categoria del ritorno dello psichico fosse un elemento centrale nel pensiero freudiano. Prendiamo come asse paradigmatico l’espressione, negli Studi sull’Isteria, delle isteriche che soffrono di reminiscenze, e quella di Costruzioni in analisi, nel 37, secondo cui i pazienti soffrono di reminiscenze. All’inizio e alla fine del suo percorso, dunque, Freud pone il tema di una sofferenza psichica articolata intorno al tema del ritorno di qualcosa di inelaborato, di non tradotto, non metabolizzato, una memoria involontaria che si impossessa del soggetto. Faccio solo osservare però che quando parliamo di reminiscenza non intendiamo il semplice ritorno di un elemento passato, ma piuttosto l’evidenza della sua sopravvivenza, la sua riapparizione nel tempo presente, dunque modulata, trasformata in esso e da esso. Sempre in quel testo avevo così mostrato l’importanza del concetto di sopravvivenza in Freud, indicando l’errore prospettico derivante dalla cattiva traduzione italiana dei termini tedeschi relativi all’archeologia freudiana, termini tradotti con resti, vestigia, mentre essi rimandano per l’esattezza al concetto di survival, Nachleben, sopravvivenza. Dunque, qualcosa che non allude ad un tempo passato, ma ad un tempo che sopravvive nel tempo presente che lo piega, lo infetta.

Ora, osservo che in Costruzioni in analisi la metafora archeologica freudiana assume un altro valore, è completamente diversa dagli usi che ne fa Freud altrove, perché essa è organizzata intorno al problema clinico e teorico del non ritorno: il campo dei fenomeni psichici presi in esame è infatti diverso da quello caratterizzato dai concetti di sopravvivenza, di riapparizione, di ripetizione, cioè articolati, come dicevo, all’esistenza del principio-speranza.

Però Freud in tutta la sua opera sostiene che il passato è nel presente, è qui, fa ritorno nella realtà quotidiana del nostro vivere, l’ossessiona, l’infiltra, l’interroga, la scompone nella sua presenzialità. Nei casi esplorati da Costruzioni in analisi invece, il passato sembra non fare ritorno, come nel ritorno del rimosso, nelle forme di ripetizione, o in generale nella sopravvivenza rappresentata dalle forme archeologiche, cioè nella ricezione-trasformazione di vissuti preesistenti, mostrando dunque che siamo, come nell’esperienza dei campi di sterminio, sia oltre la dimensione puramente nevrotica del sintomo, sia oltre quella delle porzioni di realtà psichiche non rimosse che tornano in luce attraverso l’agire. Eppure, Freud non abbandona la sua ipotesi di fondo, quella secondo cui il passato deve essere comunque presente perché nulla nello psichico viene davvero mai distrutto. Può darsi allora che non sia vero che esso non fa ritorno, ma forse ciò accade secondo modi diversi da quelli conosciuti. Ed infatti, aggiunge, esso riappare tramite la dimensione allucinatoria, o il delirio: il delirio contiene una parte di verità storica, l’allucinazione fa tornare dal di fuori qualcosa che è stato espulso in illo tempore. E non è forse tramite il delirio di Saul che l’umanità sembra far ritorno nell’orrore del lager? Non è grazie alla sua follia, quella in cui “riconosce” suo figlio in un ragazzo qualunque, inventa una filiazione in cui un senza nome riesce a sfuggire all’anonimato della morte in massa per divenire un corpo da seppellire, che si realizza la possibilità di una sua memoria, di una sua preservazione, garantendo il ritorno della dimensione umana, del suo ricordo nella mente di coloro che potranno recitare un kaddish? Non è grazie a questa operazione di diniego della realtà terrificante della cancellazione di ogni singolarità che lo psichico, e con esso la salvezza del principio speranza, quella di una terra sottratta all’annientamento, può allora realizzarsi? E questa possibilità non ci aiuta a capire meglio la differenza fra un diniego funzionale ed uno patologico, dove il primo non è slegato da una sua possibile articolazione al principio-speranza? Non pone in tal senso una torsione al concetto di dinego, utilizzato questa volta nella sua dimensione vitale e non distruttiva? Certo, e non è sbagliato pensarlo, vi è una differenza sostanziale fra il dire di no (ad una credenza totalizzante per esempio), e la dimensione del diniego che scotomizza, rendendo inesistente la realtà denegata. Non sarebbe più corretto allora invocare la dimensione del rifiuto (del diniego), più che il diniego del diniego, nella dimensione trasformativa dell’analista? Ma possiamo escludere, altra ipotesi, che occorre invece situarsi in quello stesso operatore funzionale per poterlo trasformare, come se non fosse sufficiente la dimensione affettiva del rifiuto, della non sottoscrizione di un patto, e fosse necessario situarsi in una sorta di corrispondenza psichica fra i due soggetti dell’analisi, come a replicare un doppio diniego originario giocato però ora, e con diverse prospettive, nella scena analitica? O, ancora: e se “il diniego del diniego” fosse l’equivalente di un’allucinazione negativa, da parte dell’analista, per liberare la scena da una dimensione colonizzante, quella determinata dalla desertificazione della vita psichica, creando così le condizioni di uno spazio di lavoro, aprendo il tempo ad un altro tempo?

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Fin qui, la dimensione del ritorno ci è apparsa legata ad un aspetto, quello del delirio come differente montaggio della scena storico-psichica, o del diniego capace però di ritagliare diversamente una realtà indiscutibile ed opporle, nonostante tutto, una via d’uscita dal buco nero della storia, come ricordava Didi Huberman. Osservo tuttavia, e per terminare, che in Freud il diniego non è mai un atto come dire, isolato, coglibile nella sua unicità, ma è un atto che per esistere, per realizzarsi, deve esso stesso piegarsi alla sua ripetizione. In tal modo all’origine di un diniego vi è già, da sempre, un altro diniego. È ciò che Freud scrive nel celebre disturbo di memoria sull’Acropoli, allorché osserva che l’apparizione del diniego nella realtà dell’Acropoli nel 1904 è in effetti l’apparizione di un diniego più antico, avvenuto in illo tempore, al tempo della scuola, nel tempo in cui l’inconscio aveva detto no ad una credenza possibile alla parola dell’Altro, al racconto dell’esistenza dell’Acropoli. Si situa qui l’ipotesi di un diniego all’origine di ogni diniego, dove ogni diniego è sostanzialmente correlato ad un diniego più antico, nella ripresentificazione di una scena similare che ne permette la riattivazione.  In altri termini Freud osserva che, quando un soggetto nega nella sua storia un elemento (ad esempio l’Acropoli), è perché all’origine vi è già stata una smentita, un altro diniego, e per l’appunto, come egli osserverà in Costruzioni in analisi, il compito dell’analisi è di mettere in correlazione questo secondo rinnegamento col primo. Imponendo la presa in carico di una dimensione storica, di ritorno dello stesso meccanismo di diniego nella vita psichica del soggetto. Qui, come ho già anticipato, troviamo un esempio del valore assolutamente generale del fenomeno di ritorno della vita psichica postulato da Freud: per Freud la vita psichica tenta disperatamente, in tutte le possibilità ad essa consentite, di fare ritorno, di reintegrare, di riunire, di ritrovare ciò che è stato accantonato, traccia evidente del lavoro di Eros qualunque sia la dimensione clinica, la realtà psichica in cui esso può operare. Eros, è dunque, essenzialmente, nella sua dimensione legante, un operatore di montaggi, ciò che cerchiamo ad ogni costo di istituire anche là dove ci sembra che lo slegamento sia totale, là dove il rigetto appare senza via d’uscita, garantendo la speranza di un ritorno. Questa dimensione, come nel figlio di Saul, può a sua volta farsi gioco del diniego, utilizzare il diniego per realizzare la sua sfida, la sua promessa di vita. Che cosa fa dunque ritorno nel diniego di Saul, se sottoscriviamo l’ipotesi freudiana che dietro ogni diniego deve esserci un diniego più antico? Ce lo fa notare lo stesso Didi Huberman quando scrive: “Saul sostituisce (all’opposto di chi vuole per esempio far saltare la camera a gas), une resistenza orientata verso il passato (inumare il corpo del bambino come vuole la tradizione… Ai rapporti di forza preferire l’autorità del rituale, il rabbino, il kaddish)”. In altre parole, possiamo ipotizzare che grazie al diniego religioso della morte, ad una speranza di una “non fine” che accompagna l’essere umano fin dalla sua comparsa sulla Terra, diniego transindividuale iscritto culturalmente in ciascun individuo, si attua o si rende possibile ciò che permette il diniego dell’orrore attuale, fondando lo spazio di una singolarità salvata dal suo annientamento. Seppellire un figlio equivale allora alla folle illusione che un figlio possa esistere anche se morto, esistere dopo o nonostante la sua morte, fare ritorno tramite un luogo, una traccia del suo passaggio, una memoria della sua inumazione che diventa, in tal modo, memoria del futuro. In tali termini ci accorgiamo, forse stupiti, che il diniego può utilizzare una sua precedente evenienza non tanto per ripetersi, (come nel ricordo dell’Acropoli), ma per salvare, se non la vita, almeno la speranza. Al fondo, potremmo dire, è ciò che permetterà a Pontalis stesso, poco prima di morire, di scrivere nel suo ultimo testo, Alta marea, bassa marea, (Pontalis, 2003) questa ultima ed enigmatica frase: “La vita si allontana, ma ritorna”.

 

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[1] F. Urribarri, Dialoguer avec Green. Paris, Ithaque, 2013, pag. 35.

[2] Ibidem.

[3] La stessa costituzione della rimozione originaria può esser intesa, d’altra parte, come il risultato di una doppia linea di forze – il controinvestimento e l’attrazione gravitazionale che il rimosso istituisce sulle successive assunzioni psichiche –, che pone una dialettica fondativa del soggetto umano, articolata fra il respingimento e l’assunzione di rappresentanti ideativi.

[4] D’altra parte, proseguendo lungo le osservazioni di Green, per sperare occorre certo poter accogliere un desiderio che l’Altro, nello spazio di una illusione condivisa, renderà vivibile, pensabile, accettabile. Al medesimo tempo si tratta, per ciascuno di noi, di poter rendere silente ciò che impediva al desiderio di parlare, di espandersi, – situazione classica potremmo dire, che rimanda in qualche modo al campo nevrotico-normale, quello delle peripezie del desiderio, con i suoi ostacoli, i suoi ritardi, le sue traversie, i suoi miraggi o i suoi imbrogli. Questa dimensione è forse quella più prossima ad un movimento che si realizza da sé, una volta rimossi gli ostacoli, una volta assunti i diritti al desiderio, una volta compreso come quel desiderio possa essere articolato ad un Altro a cui si affida la possibilità originaria, l’illusione, il mandato, di accogliere e rendere possibile, nel tempo a venire, una speranza di soddisfacimento. Tuttavia, bisogna includere nel principio -speranza una dimensione più complessa, che non si gioca più solo nel rapporto con l’Altro che accoglie il movimento futurante, l’illusione che il campo del desiderio sarà potenzialmente almeno, eternamente soddisfatto, che ogni nuova volta sarà come una prima volta, e che quella prima volta sarà seguita da un ancora una volta. Continuità dell’essere, desiderio, illusione, speranza, riconoscimento, sono qui un tutt’uno. Questa seconda dimensione del principio-speranza a cui alludo, se parte dal rapporto con l’Altro, dalla sua fondatezza, dalla sua riuscita, necessita, in un tempo successivo, la negativizzazione dell’Altro medesimo, la possibilità, cioè, di metterlo sullo sfondo, così come si esprime Green a proposito dell’allucinazione negativa del materno, intesa come la creazione di uno spazio per il soggetto. La negativizzazione permetterà allora uno scavo nel rapporto originario, un’operazione di respingimento, un taglio che istituisce un contenitore in cui poter aggiungere nuovi contenuti. Questi due movimenti sono ciò che istituiscono il campo soggettivo nella sua condizione di salute psichica, ed è questo campo medesimo, amputato allora del principio speranza che ritroviamo in molteplici situazioni cliniche, in cui o l’allucinazione negativa dell’oggetto originario è impossibile, con il risultato di una colonizzazione, oppure il soggetto è costretto ad amputare il campo del pensabile, dello sperimentabile, del percepibile, attraverso operazioni di diniego.

[5] Si pensi, solo per esemplificare, al timore del crollo di Winnicott e alla questione della difesa del paziente dal ritorno delle tracce angosciose, da cui si protegge proiettando questo ritorno nella figura di un qualcosa che dovrà sorgere nel futuro e che si attende spasmodicamente.

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Maurizio Balsamo, Roma

Centro Psicoanalitico di Roma

m.balsamo@mclink.it

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