Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Elisabetta Marchiori
Titolo del film: “C’è ancora domani”
Dati sul film: regia di Paola Cortellesi, Italia, 2023, 118′.
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=dD8ru7mFXuo
Genere: drammatico
“E senza scudi per proteggermi né armi per difendermi
Né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi
Con solo questa lingua in bocca
E se mi tagli pure questa
Io non mi fermo, scusa
Canto pure a bocca chiusa
Guarda quanta gente c’è
Che sa rispondere dopo di me
A bocca chiusa”
(Daniele Silvestri, 2013)
Chi ha visto — e siamo tanti — il film campione d’incassi “C’è ancora domani” ha stampata in mente la scena in cui Delia, la protagonista impersonata dalla stessa regista Paola Cortellesi, insieme a tante altre donne, canta letteralmente “a bocca chiusa”.
Come donna, ricordandola provo di nuovo un forte sentimento di sollievo, di orgoglio e di vittoria, che ho creduto di condividere con lei, mentre ero al cinema.
Lei che non ha mai gridato, ma ha solo sussurrato e pianto in silenzio. Lei che si è guadagnata giorno dopo giorno la sua rivincita e, sempre “a bocca chiusa”, è riuscita a scegliere da che parte stare, in quel non poi così lontano 1946.
È una scena di grande impatto emotivo, dove la regista, al suo esordio, trasferisce in immagine filmica la determinazione a non fermarsi e traduce tre parole: partecipazione, libertà, resistenza. Si trovano anche queste, come quelle della strofa in esergo, nel testo della canzone di Daniele Silvestri[1] (2013), che fa parte della splendida colonna sonora e arrivano dritte al cuore dello spettatore.
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[1] https://www.la7.it/propagandalive/video/paola-cortellesi-e-daniele-silvestri-cantano-a-bocca-chiusa-10-11-2023-513085
Un ragazzo di vent’anni, che ha partecipato al primo corteo a Padova organizzato per dare voce al dramma di Giulia Cecchettin e a tutte le donne vittime di femminicidio, mi ha detto: “Solo se si svuota, si può riempire con qualcosa di diverso. Tutto è azione e reazione, funziona solo la pancia, è un loop da cui non si uscirà mai se non ci si ferma a pensare. La pandemia scalzata dalla guerra in Ucraina, scalzata dal conflitto tra Hamas e Israele e ora dalla morte di Giulia e dal dramma del femminicidio. Siamo travolti dalle parole e dalle immagini, che si stratificano in modo caotico. Si dovrebbe poter fare silenzio e vuoto dopo le proteste, altrimenti arriverà presto altro orrore a fare notizia, e Giulia sarà un’altra vittima dimenticata“.
Ecco cosa vuol dire “cantare a bocca chiusa”, continuare a far sentire la propria voce dopo avere urlato: dare spazio e tempo perché si formi il pensiero, si raggiunga una autentica consapevolezza e si inneschi una dinamica realmente evolutiva.
“Fatece largo che/ Passa il corteo e se riempiono le strade“: la canzone di Silvestri sembra descrivere quello che sta avvenendo in questi giorni.
La marea di persone, non solo donne, che si è riversata per le strade per la giornata contro la violenza di genere il 25 novembre, ha dimostrato che si può e si deve “rispondere” insieme. Gridare slogan, tenere alti cartelli e dispiegare striscioni, contare i secondi che compongono il minuto di silenzio e fare rumore sbattendo il proprio mazzo di chiavi.
Si può aggiungere poco alle tante recensioni entusiastiche sul film “C’è ancora domani”, uscito in sala con un tempismo perfetto e nello stesso tempo perturbante. Già prima dell’assassinio di Giulia si era insinuato nella stanza d’analisi portando associazioni, ricordi, vissuti, emozioni, mostrandosi capace di stimolare riflessioni significative.
Poi la storia di Delia si è intrecciata a quella di Giulia, e sono diventate due le donne la cui vita e il cui destino si sono intrecciati a quello di tante altre, quelle delle generazioni di oggi, di quelle passate, di quelle del futuro.
“C’è ancora domani” fa riemergere memorie e racconti d’altri tempi, ma rispecchia un drammatico presente e apre una speranza a un “domani” diverso. Cortellesi mostra di aver assimilato l’uso del bianco e nero dai maestri del cinema italiano, permettendole di usarlo per fare un film senza tempo, ha diretto gli attori in modo che dessero il meglio di loro stessi, ha tenuto un ritmo serrato e creato colpi di scena efficaci, mai scontati. Ha fatto un film intenso, intelligente e senza retorica, toccando tutti i tasti più problematici e dolorosi che riguardano la cultura del patriarcato, la discriminazione e la violenza di genere.
“Buongiorno Ivà“: a questo saluto mattutino, che Delia rivolge al marito (Valerio Mastandrea), la risposta è un sonoro ceffone. Delia indossa sempre la stessa camicetta rattoppata sotto il grembiule e non si siede mai a tavola.
Deve servire tutti gli altri, ubbidiente, assoggettata, zitta e indaffarata. Deve lavorare prendendo un salario inferiore a quello degli uomini, deve consegnare i soldi al marito, deve essere a disposizione e non commettere errori. Altrimenti sono insulti e botte.
Ma può anche fare tutto bene senza protestare: è l’incarnazione della “donna malmenata”[1], non ha scampo, sono sempre insulti e botte.
La violenza fisica, nel film, si trasforma in una danza mortifera, che riesce a trasmettere l’angoscia che la vista di un pestaggio non avrebbe ottenuto. Siamo talmente invasi da immagini “pornografiche”, che stimolano la morbosità istintiva, ostentando azioni feroci e mostrando corpi straziati, da oscurare qualsiasi forma di pensiero.
Qui la coreografia, lenta e articolata, rende la scena abbastanza insatura per dare spazio a un sentire emotivo che stimola la riflessione.
Basta la violenza delle offese gratuite, dei comportamenti strategicamente messi in atto per umiliare, della dipendenza economica, della negazione della libertà di parola e di movimento, dei rapporti sessuali subiti.
Ecco il ben conosciuto “ciclo della violenza”, descritto da Lenore Walker nel 1979, quella “ruota del potere” attorno alla quale girano quattro fasi: quella della tensione, seguita da quella dall’attacco, stimolato da un qualunque comportamento interpretato come segno di autonomia, quindi dal pentimento e dalla breve “luna di miele”, la riappacificazione[2]. Ivano “ha fatto due guerre“, questa è la sua giustificazione.
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[1] Marchiori E., Rossi L., Colombo G. (2004). La sindrome della donna malmenata in Italia. Uno studio in prospettiva psicopatologica. Minerva Psichiatrica, 45, 43-53.
[2] https://scienzecriminologiche.com/2021/11/24/il-ciclo-della-violenza/
I figli, che Delia invita ad andare in camera loro quando sa che verrà “battuta”, sanno bene quello che sta succedendo, conoscono i comportamenti del padre, riconosceranno i segni nel viso e nel corpo della madre, ma sono “senza scudi per proteggersi”, a parte il corpo della loro madre.
Tutti loro ne portano le tracce: i maschi imitano il padre mentre la femmina, anche se disprezza la madre per il suo assoggettamento, non si rende conto che sta andando verso lo stesso destino, scambiando il possesso con l’amore.
Ecco l’abuso transgenerazionale, la catena della violenza ancora tanto difficile da rompere.
Gli uomini, i maschi, in questo film sono tutti violenti o stupidi. Magari innocui, ma comunque stupidi. Se ne salva forse uno, ma è un perdente, arriva troppo tardi. No, anzi, anche un altro, ma non è italiano.
Cortellesi mette in scena in modo impeccabile e convincente la condizione della donna nel dopoguerra in Italia e quella che era la normalità della condizione della donna.
Per gli studi, una ragazza poteva aspirare al massimo “all’avviamento professionale”, imparare un mestiere. Delia, che se le è andata bene ha fatto la terza elementare, sa che la libertà passa attraverso l’istruzione e la cultura.
Non può tollerare che la figlia abbia il suo stesso destino. Per questo “a bocca chiusa”, fa esplodere tutto, dopo essersi fumata la sigaretta proibita, quella che il geniale Edward Bernays, celebre teorico delle relazioni pubbliche che vantava una parentela con Sigmund Freud, nel 1929 portò le suffragette, le pioniere del femminismo, a trasformare in “torche of freedom”, fiaccola di libertà[1].
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Qualche volta, purtroppo, non c’è alternativa. Di strada da percorrere ce n’è ancora tanta, troppe donne non si sono svegliate e ancora non si sveglieranno una mattina, come canta Vinicio Capossela insieme a Margherita Vicario in “La cattiva educazione”, brano contenuto nel suo ultimo album “Tredici canzoni urgenti”[1].
A Padova, il 18 novembre scorso, durante il suo concerto, aveva le lacrime agli occhi mentre la cantava, come tutto il pubblico.
Il Cinema e la Musica sanno cosa è urgente: sono arrivati al posto giusto nel momento giusto, con immagini e parole che invitano a far parte di “tutta quella gente” che “sa rispondere”, anche a nome di chi non può più farlo, ma deve essere anche pronta ad assumersi le proprie responsabilità e a vigilare per creare le condizioni di un reale cambiamento.
Ciascuno con la sua umanità e le sue competenze, che vuol dire, con le parole di un altro grande artista, Alessandro Bergonzoni, “superare la linea ego-tica.
Il problema è oltre il torto o la ragione: ci vuole il ragionamento. Che vuol dire aprire, avere un delirio di intelligenza”[2].
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[1] https://www.youtube.com/watch?v=JyPLGFM2-6U
[2] La Repubblica, 22 ottobre 2023, Per cambiare urge superare la linea ego-tica, dialogo tra Vinicio Capossela e Alessandro Bergonzoni, di Luca Valtorta.
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