La resistenza delle donne

di Benedetta Tobagi (Einaudi,2022).

Recensione di Laura Ravaioli

La resistenza delle donne

Benedetta Tobagi

2022, Einaudi, Torino

pagg. 376

Sebben che siamo donne

paura non abbiamo

[…] abbiam delle belle buone lingue

e ben ci difendiamo.

Canto “La Lega” (delle lavoratrici socialiste)

Questo canto nasce tra il 1890 e il 1914 in val Padana e “ben presto diventa un classico del repertorio delle mondine. Segna una rottura netta rispetto ai precedenti canti di filanda e di risaia, che si limitavano alla lamentazione o alla denuncia delle condizioni assai dure e dei magri compensi- ma sempre in modo alquanto modesto” (Tobagi, 2022, p.31).

Con un’ampissima documentazione attraverso biografie, saggi storici e soprattutto fotografie Benedetta Tobagi narra la vita di molte donne che hanno contribuito in differenti modi alla Resistenza in Italia che si oppose al nazifascismo durante la seconda guerra mondiale. Vince il Premio Campiello 2023 che dedicherà “a tutte le donne che resistono, che non hanno voce e che spero possano trovarla nei libri. A tutte quelle persone che non si girano dall’altra parte e trovano una risposta alle situazioni di disperazione, accolgono e si occupano di contrastare la ferocia delle disuguaglianze”.

Tra le donne citate in questo libro anche la nostra collega Luciana Nissim, immortalata sui monti in completo da sci, nel capitolo “Millenovecentotrentotto” che segna l’anno di rottura con i giorni felici prima della promulgazione delle leggi razziali e della guerra.

Il capitolo “La scelta” introduce alle modalità e alle motivazioni che spingono le donne a coinvolgersi nel movimento: attraverso le loro madri, i padri, oppure fratelli, amici, che “fanno da tramite, sono fonte d’ispirazione o magari oggetto d’invidia, rivelandole a se stesse come ribelli, in un misto d’affetto, ammirazione, emulazione e competizione” (p.55).

Capovolgendo il concetto winnicottiano, compaiono anche quelle “madri sufficientemente cattive (…) che innescano nelle figlie, a caro prezzo, l’urgenza di essere altrimenti; quelle che – se sopravvivi al loro latte nero d’infelicità, frustrazione ed invidia- dopo hai una forza da spaccare il mondo” (p.60).

 

“La grande guerra di Liberazione s’intreccia così con una miriade di minuscole- ma per loro gigantesche- lotte di liberazione personale (dai limiti imposti dalla famiglia, dalle condizioni sociali, dall’essere donna, dai propri demoni personali) che, tutte insieme, danno vita a una grande, inedita guerra di liberazione delle donne” (p.65).

Le brevi biografie raccontate nel libro ci portano a conoscere le staffette e il loro catalogo semiserio su come ingannare il nemico (p.91) ma anche le donne che si sono unite agli uomini in banda, la diffidenza con cui sono guardate anche dai loro stessi compagni e chiamate “morose dei soldà” (p.127), per squalificare il loro contributo alla lotta armata.  Conosciamo anche quelle donne che la lotta armata l’hanno rifiutata, perché più a loro agio in compiti di assistenza infermieristica, logistica o per pacifismo, e quelle che hanno avuto cura dei morti (p.265) seguendo i corpi dei partigiani al cimitero per sapere dove li avrebbero sotterrati, in fosse senza nome, per comunicarlo ai parenti.

 

Il libro parla anche d’amore passionale: “Non serve aver letto il Saggio sulla negazione di Freud per sentire che il modo in cui insistono sull’assoluta castità dei loro rapporti è davvero eccessivo, come un alibi concordato che suona posticcio perché ripetuto con parole troppo uguali” (p.183) ma “di amori saffici, ovviamente, non si fa mai parola. Era il tabù dei tabù” (p.166).

 

E, inevitabilmente, il libro parla del trauma, della paura, “come quando si spezza un osso e il nervo non connette più, per un certo tempo non senti né arto né male, ma si è come fuori dalla vita” (p.204), parla del carcere e della tortura “che vuole demolire la vittima sul piano psicologico ancor prima di infierire sul corpo, per renderla fragile, spaventata, sottomessa, per fiaccare lo spirito e piegarlo (…) non mira solo a carpire informazioni a chi è interrogato, ma vuole spezzarlo” (p.213) come ci ha descritto anche Silvia Amati Sas (2020).

Per le donne, quella “educazione impartita loro all’epoca- nemmeno fascista, ma addirittura ottocentesca (che) le rendeva estremamente inibite” (p.184) porta quel pudore che “nelle mani dei torturatori diventa un’arma crudele. I carcerieri costringono infatti le donne a spogliarsi davanti a loro, e poi ridono, commentano, scherniscono” (p.215), e le portano talvolta a chiedersi “Perchè non mi picchiate? Datemi le scosse piuttosto” (p.216).

Arriveranno anche quelle, e gli stupri, che rimarranno spesso chiusi nel silenzio. “E’ quasi un miracolo riuscire ad aprire la porta delle lacrime, nel caso di traumi così atroci; per ricominciare a vivere, il sopravvissuto deve chiuderli a chiave da qualche parte, dentro di sé; il dolore, il terrore, l’umiliazione, la rabbia s’inabissano, scavando freddi cunicoli sotterranei nel corpo, per rimanervi sigillati (p.219), e “l’esperienza della tortura si traduce in una lingua asettica, specchio fedele della dissociazione indotta dal trauma, che separa le vittime da se stesse e dal mondo (…) «fa niente»” (p.218).

 

Nel suo lavoro “Psicoanalisi della Guerra” (1966) Fornari, affiancando alle sue elaborazioni personali le ricerche di Geza Roheim e le teorie di Theodor Reik, descrive le società primitive e i loro riti di iniziazione che portavano alla separazione dalla madre e all’entrata nella società adulta maschile, dove il gruppo prendeva il posto affettivo prima riservato alla madre. Durante il periodo della guerra la funzione materna è recuperata a livello gruppale da quelle donne che hanno aiutato i partigiani a nascondersi, procurando loro cibo e vestiti, cucendoli per loro e offrendo loro riparo, in quello che è stato chiamato  «maternage» di massa: “Nell’emergenza, mentre la guerra arriva alla soglia di casa, le donne aprono la porta. L’istinto protettivo e l’abitudine alla cura travalica i legami di sangue, deborda dall’ambito domestico e si allarga ad abbracciare, accogliere ed assistere chiunque abbia bisogno” (p.16)

 

Ma il paradigma materno non equivale al “femminile”. Durante la Resistenza si fa strada il pensiero per cui “non serve essere madre nel corpo per esserlo in un senso più ampio e profondo” e si inizia a parlare di una “generatività (che) non è solo una faccenda biologica, ma può esprimersi nel lavoro creativo, intellettuale, politico”, in parte anche rivendicando che “è possibile anche non voler essere madri”; “la donna si scopre non solo libera, ma piena di risorse e capace di farsi valere. Può sentirsi, finalmente, un individuo” (p.66). Tobagi inoltre non dimentica che nelle quattro giornate di Napoli si distinsero “i leggendari «femminielli» , ovvero i travestiti. Sebbene nella tradizione popolare locale fossero oggetto di simpatia (si usava invitarli a matrimoni e compleanni) e persino di una sorta di venerazione superstiziosa, come divinità arcaiche, l’ipocrisia del fascismo li aveva confinati a vivere in dei poveri «bassi». La Liberazione, per loro, non ha cambiato le cose. Il moralismo sessuofobico è sopravvissuto intatto nella cultura dominante e ha rimosso la loro presenza e il coraggio che mostrarono” (p.23).

 

Non mancano anche i racconti delle polemiche intorno al movimento, a partire dall’imposizione del nome ai “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà” (p.72) che conferma un’immagine di debolezza delle donne e un loro compito meramente assistenziale e che anticipa quella che sarà la cocente delusione di un povero riconoscimento a guerra finita, in cui “l’epurazione delle donne dalla memoria pubblica della guerra partigiana comincia proprio con le sfilate della Liberazione” (p.295); “sono diciannove le donne decorate con la medaglia d’oro per il loro contributo alla Resistenza, di cui solo quattro viventi. Per le istituzioni, insomma, la partigiana migliore è quella morta” (p.307).

“Alla vigilia del primo voto delle donne, il 2 giugno ‘46, che renderà l’Italia una Repubblica, la presenza femminile nella Resistenza (armata e non) – che tanta parte ha avuto nel conquistare alle donne quel diritto- è già stata opportunamente allontanata dallo spazio pubblico, mentre le immagini di un femminile materno e rassicurante tornano a dilatarsi a dismisura. Torna, trionfante, la mater dolorosa” (p.312) e il fantasma dell’Angelo del Focolare così difficile da uccidere, anche per Virginia Woolf (p.135 e p.301). Il capitolo “Zitte e buone” riprende bene la canzone di Daniele Silvestri “A bocca chiusa” che ha fatto da colonna sonora al premiatissimo film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”.

 

“La resistenza delle donne” è un libro di storie in cui Benedetta Tobagi riporta nomi, cognomi e nomi di battaglia: una scelta consapevole di riconoscimento e riconoscenza.

Il nome fittizio è necessario in tutti quei casi in cui l’uso del nome anagrafico esporrebbe a rischi e il nome di battaglia ai tempi della Resistenza serviva a celare la propria identità ed evitare eventuali ritorsioni dei nazifascisti contro familiari e conoscenti.

Le storie qui narrate mi hanno fatto ripensare a quando, riferendo dell’attività clinica in contesti scientifici, nella modifica dei dati sensibili e nella scelta dello pseudonimo per protezione e riservatezza, mi hanno condizionato le sfide che i pazienti stavano attraversando, con un procedimento che richiama l’attribuzione di un nome di battaglia. Spesso ciò è avvenuto con le mie pazienti donne, credo per la molteplicità di battaglie, interne, familiari, lavorative, e i pregiudizi culturali e sociali che devono affrontare. D’altronde “essere donna è avere la guerra dentro, sempre, da sempre” (p.3).

 

Bibliografia

Amati Sas. (2020). Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale. Milano, Franco Angeli.

Fornari F. (1966). Psicoanalisi della Guerra. Milano, Feltrinelli.

Tobagi B. (2022). La resistenza delle donne. Torino, Einaudi.

 

Laura Ravaioli, Forlì

Centro Adriatico di Psicoanalisi

laura.ravaioli@spiweb.it 

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