Reflection

un film sulla resistenza della mente nella linea del fuoco

di Elisabetta Marchiori

Questo lavoro è stato presentato al 53° Congresso Internazionale dell’International Psychoanalytical Association (IPA) svoltosi a Cartagena delle Indie  dal 26 al 29 Luglio 2023

Contributo al 53° Congresso IPA
Reflection: un film sulla resistenza della mente nella linea del fuoco

Introduzione

Dal 26 al 29 luglio 2023 si è tenuto a Cartagena, meravigliosa città colombiana piena di vita, canti e colori, il 53esimo Congresso della International Psychoanlytical Association (IPA) “Mind in the Line of Fire”.

Durante la mattinata del sabato ho partecipato al panel organizzato dall‘IPA in Culture Commettee, la cui chair è Cordelia Schmidt-Hellerau (Società Svizzera di Psicoanalisi) Resistance in the Face of Fire. Insieme ai colleghi Andreas Mittermayr (Vienna Psychoanalytic Society,) Claudia Antonelli (Brazilian Psychoanalytic Society of Campinas), Valeria Ricchieri (Argentine Psychoanalytic Association), Barbara Stimmel (American Psychoanalytic Association) e Johanna Velt (Paris Psychoanalytic Society) abbiamo avuto la possibilità di mostrare come la creatività con cui artisti, scrittori, musicisti e registi rispondono al pericolo, al dolore e agli eventi drammatici della vita possa diventare una forma di resistenza, trasformando l’esperienza della morte e della distruzione nei diversi linguaggi della cultura e dell’arte.

Il mio contributo si è focalizzato sul cinema e su un film in particolare, ed è la sintesi di un lavoro pubblicato nel libro bilingue Mind in the Line of Fire / Mente en la Línea de Fuego: Psychoanalytic voices to the challenges of our times / Voces psicoanalíticas ante los retos de nuestro tiempo, edito dall’IPA in occasione del Congresso e curato da Cordelia Schmidt-Hellerau, & Mira Erlich-Ginor.

Reflection: un film sulla resistenza della mente nella linea del fuoco

 

La missione del cinema è quella di volgere il nostro sguardo

verso gli aspetti del mondo che non abbiamo ancora visto“.

(Eric Rohmer)

 

Voglio sottolineare che non è certo il ruolo del cinema di guerra quello di far “comprendere” agli spettatori le ragioni della guerra, né di sanare l’ignoranza rispetto alla Storia. Tuttavia, il potere delle immagini che scorrono sullo schermo nel buio della sala ci impedisce di chiudere gli occhi di fronte al “dolore degli altri” (Sontag, 2003).

Il cinema può diventare una forma di resistenza della mente, rafforzando la capacità di pensare di fronte agli orrori della guerra, rispetto al flusso incessante di immagini di atrocità trasmesse senza sosta dalle televisioni e diffuse viralmente dai social network.

A prescindere dal valore etico di tali immagini, esse rischiano di creare assuefazione, distacco e apatia, desensibilizzandoci e facendoci perdere il senso della compassione verso le persone che soffrono.

Nel film Reflection (2021) del regista ucraino Valentyn Vasyanovych (presentato alla 78ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia), lo scenario è la guerra nel Donbass, iniziata nel 2014 e preludio della cosiddetta “operazione speciale”, la guerra di invasione dell’Ucraina da parte della Russia, iniziata nel febbraio 2022.

Reflection

Siamo alla fine dell’estate del 2023 e questa guerra non solo non è cessata, ma sembra aver contagiato il mondo, rinnovando conflitti da tempo sopiti: la guerra torna a essere un elemento di unificazione della società che produce consenso.

Il titolo del film è già molto evocativo: da un lato si riferisce ai “riflessi” della guerra sulla vita e sulla psiche delle persone, dall’altro propone al pubblico domande difficili e scomode, traumatiche, sollecitando aperture di pensiero e “riflessioni” su ciò che è disumano e ciò che è profondamente umano nella guerra.

Questo film mostra la forza della creatività e della capacità di riparazione, che si pongono come fronte di resistenza alla forza della distruttività e dell’alienazione, indagando la possibilità di dare un senso a ciò che sembra privo di significato, in una sorta di elaborazione psicoanalitica.

I protagonisti sono una bambina di dieci anni e i suoi due padri, amici fraterni, partiti entrambi per il fronte: il padre biologico, che sopravvive, e il patrigno, che perde la vita.

Inquadratura dopo inquadratura, “riflessione” dopo “riflessione”, ogni personaggio e ogni oggetto interrogato dalla macchina da presa sprigiona un significato; ogni immagine riflette qualcos’altro, e ci fa chiedere quali atrocità, quali morti, quali sofferenze non ci vengono mostrate.

Questo film congela il tempo della guerra in un presente infinito ed estenuante, che condiziona, fino a cancellarla, la vita delle persone, e lo colloca nella profondità dell’essere umano, proprio dove la disumanità prende il posto dell’umanità.

Le sequenze in cui ci sono grandi finestre ricorrono in tutto il film, sia come simbolo della distanza tra l’osservatore e l’osservato, sia come simbolo della resistenza psichica della “mente in linea di fuoco”, in senso protettivo e creativo. E poi ci sono i vetri rotti, che rimandano al rischio che l’individuo, di fronte all’orrore, attivi non solo la negazione o il diniego, ma anche meccanismi di difesa più arcaici, come la dissociazione e la frammentazione.

La prima parte del film è una rappresentazione della guerra: le scene si susseguono con un ritmo lento ma inesorabilmente incalzante, pieno di silenzi e rumori, suoni, grida e poche parole; non c’è musica. Le inquadrature sono fisse, le immagini si fissano in quadri dai colori freddi e scuri, per esporre corpi flagellati; gli spazi sono quelli claustrofobici delle celle di detenzione e di tortura o all’aperto, in desolati “non luoghi” agorafobici (Augè, 1992).

La narrazione, nella seconda parte del film, è più fluida; la guerra non viene mostrata, ma se ne vedono le conseguenze, nei corpi dei protagonisti irrigiditi dal dolore e nella tristezza dei loro sguardi, che si rivitalizzano nel contatto reciproco.

I vetri in frantumi scompaiono, ma non i “riflessi”: la storia si sviluppa intorno all’impronta del corpo di un piccione che si è schiantato violentemente contro una finestra — ingannato dal riflesso del cielo — della casa del padre sopravvissuto, in presenza della figlia.

Quella forma alata “bella e terrificante”[1], come la definisce il regista stesso, è il “riflesso” del trauma.

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[1] [1] https://www.labiennale.org/en/cinema/2021/lineup/venezia-78-competition/vidblysk-reflection

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La morte del piccione, che rimanda a quella del patrigno della bambina, trasforma il film in una storia sul rapporto tra padre e figlia, coinvolti insieme nel superare il lutto della perdita di una persona cara.

Alla fine ci sono ancora altri “riflessi”, quelli del suono dei passi delle persone amate — quelle presenti e vive, così come quelle assenti e morte —. Si possono riconoscere attraverso un ascolto emotivo attento e autentico di relazioni “sufficientemente buone” (Winnicott, 1971), consolidate nel dolore, che permettono alla vita psichica di resistere ed evolvere.

Un paio di minuti di montaggio, costruito ad hoc, di alcune scene del film possono far capire meglio ciò di cui sto parlando.

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Estratto video dal film “Reflection” di Valentyn Vasjanovyč, Ucraina, 2021, 125 min, a cura di Tomaso Semenzato

Bibliografia

Augé M. (1992). Non-places: introduction to an anthropology of supermodernity. Le Verso Books, Le Seuil.

Sontag S. (2003) Regarding the Pain of Others. Farrar, Straus & Giroux, New York.

 

Elisabetta Marchiori, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

lisbeth.marchiori@gmail.com

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