Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Anna Cordioli
“Quello che cerco di descrivere
è che è impossibile uscire dalla propria pelle per entrare in quella di qualcun altro…
la tragedia degli altri non è mai la stessa che provi tu.”
Diane Arbus
“Stricken with good fortune”
Diane Arbus, nata nel 1923 nella parte più ricca di New York, era quella che si sarebbe potuta dire una bambina nata con la camicia. “Sono stata colpita in pieno dalla buona sorte” diceva, ironizzando sul suo essere figlia di una famiglia dalle immense possibilità economiche. Diane era però anche figlia di due genitori narcisisti (Kavaler, 1988) assenti e allo stesso tempo eccitanti e venne cresciuta con amore della sua governante che le diede la tenerezza che la bimba cercava invano da mamma e papà. Tragicamente, quando Diane aveva 6 anni, la governante morì e la bimba perse l’unico oggetto dal quale si sentiva riconosciuta e amata.
Da piccola- raccontò-, andava a giocare a Central Park sempre accompagnata da una tata che la proteggeva dal rischio di essere rapita. Lontana dai genitori e lontana dagli altri bambini, cominciò presto a sentirsi intrappolata dalla ricchezza di famiglia. Guardava i suoi coetanei giocare liberi mentre lei si sentiva solo una spettatrice della vita che scorreva. Le veniva detto che quei bambini poveri, spesso ammalati, affamati dalla grande depressione, erano creature sfortunate, non certo come lei. La sua solitudine, il suo senso di essere esclusa da una comunità di pari, rimanevano un dolore solo suo, risibile in confronto con quello degli altri.
Come afferma Bartkowski (2007), fin da bimba la Arbus provava anche la vergogna che il suo dolore fosse ineffabile, invisibile, così come era intangibile il motivo che lo aveva procurato. In un suo diario è la Arbus stessa che dice: “Avevo tutto e me ne vergognavo”.
Più cresceva e più si faceva strada in lei un senso di rifiuto della propria condizione. Appena diciottenne sposò un commesso, rinunciò all’università e all’agiatezza. Per vivere, entrambi i giovani cominciarono a fare fotografie di moda per i grandi magazzini. È così che, nella vita di Diane entra la fotografia.
Dapprima i suoi soggetti furono modelle ritratte su fondali finti e con luci attentamente posizionate ma via via Diane cominciò a cercare frammenti di verità in ciò che immortalava: un momento privato in famiglia, un padre steso su un letto, un duro autoritratto di sé stessa incinta allo specchio. Il padre si compiacque molto del talento della figlia e prese la cosa quasi come fosse merito suo e della genetica che le aveva passato. La giovane donna, intanto, appuntava sul suo diario fantasie di incesto anche molto esplicite e sentiva a tratti di perdere il contatto con la realtà (Kavaler,1988).
“I work from awkwardness”
Negli anni 50 la Arbus lavorava con una Nikon 35mm. In fase di stampa apparivano immagini create da puntini a grana grossa che la Arbus amava molto “La pelle era come l’acqua e il cielo, si aveva più a che fare con la luce e l’ombra che con carne e sangue” (Arbus, 1972). Le ombre, quelle che si aggettano sul viso, che rendono crudeli le gote o perduti gli sguardi, erano la materia che in quegli anni affascinavano Diane. Cercare l’ombra e la luce dentro le persone cominciò a diventare la sua ricerca più assidua.
Alla fine di quel decennio tutto cambiò.
Il marito se ne era andato, preso da sé stesso e dal miraggio di fare cinema. Quello stesso giorno gli amici la trovarono con la macchina fotografica in mano a scattare foto sotto il tendone di un circo itinerante che si esibiva all’angolo tra la 42° e Broadway. Scattava voracemente, quasi succhiando la vita che le capitava davanti. Quell’ennesima perdita l’aveva dunque liberata ma anche scatenata. Cominciò a viaggiare da sola alla ricerca di qualcosa che non sempre sembrava un approdo.
In quegli stessi anni prese a fare fotografie agli avventori del Club 82 e tutta la schiera di out-cast della Lower Manhattan: homeless, uomini in abiti da donne, coppie di giovani in malaparata.
Li chiamava “gli eccentrici che credono in ciò di cui ciascuno dubita“. Avrebbero creduto che lei poteva capire quello che provavano? Che lei vedeva il loro dolore perché lei stessa ne aveva uno?
Nell’incontro con queste persone veniva colpita da qualcosa di perturbante che non esauriva il suo magnetismo con lo scatto fotografico: Diane parlava a lungo con loro, tornava più volte a trovarli, con molti divenne amica. Scattava la foto solo quando era abbastanza in intimità da poter catturare una qualche profonda e non retorica verità. Non le interessava creare immagini belle ma immortalare ciò che si vede quando due persone si comprendevano profondamente.
“Lavoro a partire dalla stranezza. E con questo intendo che non mi piace predisporre le cose. Se mi trovo di fronte a qualcosa, invece di sistemarla, sistemo me stessa.”, diceva.
“Una fotografia è un segreto circa un segreto. Più ti parla, meno sai”
Nel suo adattarsi all’altro per capirlo, la Arbus sentiva di avere accesso a qualcosa di proprio. Ciò che ne esitava erano immagini potenti, che rivelavano moltissimo dei soggetti ma anche della relazione con la fotografa. “Essere fotografati ti ferisce” diceva, preoccupata di compensare almeno in parte questo “quasi-furto” con un quantum di sé stessa. I suoi scatti, anche i più controversi non sono mai, infatti, irrispettosi. Viene anzi da chiedersi cosa fosse accaduto nella stanza perché la persona ritratta potesse esprimersi con tanta verità.
La Arbus penetrava gli spazi intimi delle camere da letto, i boudoir, trasformando i luoghi fisici nell’astrazione della personalità di chi veniva ritratto (Adams, 2001). Era anche molto grata alla fotografia perché era una scusa perfetta per poter entrare nelle stanze più intime e private di coloro che la incuriosivano. Nei suoi ritratti veniamo sempre risucchiati oltre il buco della serratura.
La Arbus fu liquidata da certi delatori come la fotografa dei freaks. Quando le serie fotografiche “the vertical journey” e “the full circle” apparvero sul Esquire (1960) e su Harper Bazar (1961), i giornali furono aspramente criticati dai lettori. Quelle foto offendevano la pubblica opinione, erano scandalose e per qualcuno pure brutte.
Come scrisse Susan Sontag, le foto di Diane Arbus riguardano l’essere diversi e il più delle volte impongono allo spettatore di “sopprimere o almeno ridurre” gli impulsi moraleggianti e talvolta anche un certo senso di nausea (1977).
“Credo davvero che ci siano cose che nessuno vedrebbe se io non le fotografassi”.
Guardando le foto della Arbus si nota una forte contrapposizione: mentre le immagini ci svelano aspetti anche laceranti della società (prostituzione, abnormità dei corpi, nudismo, transgenderismo, povertà malattie mentali) i soggetti sono sempre ritratti in momenti di calma, quasi fossero attenti a fissare lo spettatore. Non di rado i ritratti sembrano guardarci dritti.
Ricordo una mostra che vidi a Berlino nel 2012. L’immagine scelta per la locandina era uno splendido primo piano di una persona che oggi diremmo non binary, quasi struccata e coi bigodini. Lo sguardo era vuoto eppure te lo sentivi puntato addosso, come quando si parla a lungo con qualcuno che per un attimo si assenta tra i suoi pensieri, attonito. Uscii da quella mostra molto affaticata. Mi pareva che tutte le persone ritratte fossero state sul punto di tacere una verità inconfessabile e che fossero pronte a scambiarsi di posto con chi le guardava intensamente.
“Il potere della buona arte è di illuminare il processo che costituisce la ricerca del soggetto e, più di ogni altro, il lavoro della Arbus riflette esattamente l’urgenza di questa ricerca” (Bassin, 2007) Nel vedere le sue opere si coglie in pieno il processo di rispecchiamento che l’autrice metteva in atto.
Nei soggetti che fotografava, la Arbus, andava cercando e trovando le parti di sé che a lungo erano state espulse perché sconvenienti. Le ritrovava incarnate lì, in quegli stessi newyorkesi dei bassifondi che erano il naturale contraltare alla bambina “colpita in pieno” dalla fortuna.
È, ad esempio, struggente la fotografia “Bambino con una granata giocattolo a Central Park“, in cui Diane pare incontrare per caso una transustanziazione o forse un fantasma della propria infanzia solitaria.
“Scelgo un soggetto e poi quello che provo, ciò che significa, comincia a manifestarsi”
Posando per lei, parlando con lei, le persone che la Arbus fotografa, le restituivano un pezzo “strano” del suo sé, rivelato e incarnato nell’altro.
Giocando con le parole, Duarte (2010), sostiene che le sue fotografie esprimono una poetica che va dall’occhio (eye) all’io (I). Questo movimento non riguarda solo la fotografa ma anche lo spettatore che viene chiamato ad entrare in intimità con i soggetti delle immagini.
Emblematico, in questo senso è il ritratto che Diane fece a Lauro Morales, un circense affetto da nanismo che viene ritratto a torso nudo, con un atteggiamento quasi da dandy ed in una posa di intesa dai toni sensuali. Ciò che ne esita è una foto potente come uno statement, pare dire “anche io ho una sessualità e non c’è nulla di imbarazzante in questo”.
Oggi non ci sarebbe nulla di bizzarro in questo ma nel 1960 lo stigma su quelle che si chiamavano deformità fisiche, privava queste persone di parte delle loro caratteristiche di umanità.
Sempre Sontag sostiene che nelle sue fotografie la Arbus mostrava con naturalezza che “l’umanità non è UNA”. I suoi scatti atomizzano la realtà, separando ogni elemento fino a mostrarci che, nelle nostre infinite differenze, siamo tutti uguali (Duarte 2010).
In fondo la condizione umana è vulnerabile, mutevole, fragile e in fin dei conti sempre mostruosa. Arbus credeva che fare una fotografia portasse con sé il rischio e anche il pericolo di vedere noi stessi per come gli altri ci vedono fino a scambiare di posto “la bizzarria della normalità e la normalità della bizzarria”.
La Arbus divenne molto nota e fu invitata a fare delle lezioni di fotografia tra il 1970 e il 1971: non parlava solo di tecnica ma soprattutto del suo rapporto con i soggetti, con la propria curiosità e con la capacità di attendere, col fiato quasi sospeso. L’audio di quegli incontri, così toccanti e così personali, sono contenuti in un documentario uscito postumo, nel 1972.
“Fotografa ciò che ti fa paura”
Questa però non è una storia che finisce bene. “Ogni ritratto non è altro che l’autoritratto dell’autore, il modello è solo un’occasione, l’accidente” (Wilde, 1890).
La ricerca del bizzarro divenne ricerca del mostruoso e poi dell’irrimediabile. Il dolore smise di cercare una rappresentazione nell’incontro con l’altro e divenne auto-persecuzione.
Diane Arbus fu trovata morta a soli 48 anni, a giorni dal decesso. Era immersa nell’acqua.
Stanley Kubrick, suo amico, metterà in “Shining” due riferimenti diretti alla Arbus: le due gemelline ricopiate dalla fotografia “identical twins” e, appunto, la donna suicida in vasca da bagno, ritrovata già in stato di decomposizione. L’ossessione per i dettagli di Kubrick lo portarono a ricostruire il più possibile la scena del ritrovamento del corpo.
Nel 2006 uscì uno strano biopic “Fur- un ritratto immaginario di Diane Arbus”, che ispirandosi al “vertical journey “di “Alice nel paese delle meraviglie”, trasfigura la biografia della Arbus in una strana favola oscura. Nel film, Diane non muore ma lo fa il suo alter ego – l’uomo ricoperto di pelliccia che le chiede di aiutarla a restare senza peli. Lionel si suicida immergendosi in acqua, anche lui.
Muore lasciandosi andare, senza fare più la fatica di cercare di respirare, senza più nulla a proteggere la sua nuda, fragilissima, pelle.
Bibliografia
Adams Rachel (2001) “Sideshow USA: Freaks and the american Cultural Imagination.”, Chicago University Press
Bartkowski Fran, (2007), “Stricken with good fortune” Studies in gender and sexuality (8)(4):349-352
Bassin Donna (2007) “Picturing herself: on Diane Arbus’s revelations”, Studies in gender and sexuality (8)(4):337-339
Bosworth Patricia (1984) “Diane Arbus: una biografia”, Rizzoli
Duarte José, (2010) “Diane Arbus. The wonderful wizard of odds or the poetics of the I (eye)”, Polissema 10
Kavaler Susanna (1988) “Diane Arbus and the demon lover”, The american journal of psychoanalysis, (48)(4):366_370
Sontag Susan (1977) “On Photography”, Penguin Books
Wilde Oscar (1890) “Il ritratto Dorian Gray”
Filmografia
“Fur – Un ritratto immaginario di Diane Arbus” (2006) Film
“Masters of photography – Diane Arbus” (1972) Documentario
“Shining” (1980) Film
Le fotografie contenute nell'articolo sono state prese dal web in formato a bassa risoluzione.
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