Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Cristiano Lombardo
Quarant’anni fa tra il 20 e il 30 settembre 1982, a cavallo del suo trentatreesimo compleanno, senza alcuna campagna pubblicitaria e senza nemmeno essere preceduto da un annuncio della sua etichetta discografica, comparve nei negozi Nebraska, il sesto album della carriera di Bruce Springsteen, il primo da solista e completamente acustico. Otto anni dopo durante un concerto di beneficenza, al termine di un periodo insolitamente lungo di assenza dalle scene, dopo essere diventato padre racconterà:
«per lungo tempo ho avuto questa abitudine… ero solito salire in macchina e guidare fino al vecchio quartiere della cittadina dove sono cresciuto. Passavo sempre davanti alla casa in cui vivevo… a volte mi capitava anche di alzarmi in piena notte e viaggiare per ore pur di arrivare fin là. A un certo punto ricordo che ho iniziato a farlo regolarmente due, tre o anche quattro volte a settimana per anni e alla fine sono arrivato a chiedermi “ma cosa diavolo sto facendo?!?”. Allora sono andato da uno psichiatra… (si sentono delle risate imbarazzate tra il pubblico) dico davvero (ora è Springsteen a ridere nervosamente) mi sono seduto e ho raccontato tutto anche a lui chiedendogli “Doc ma cosa sto facendo?” e lui: “vorrei che fosse lei a dirmi per primo cosa pensa che stia facendo” (il pubblico ride, è la classica battuta sull’operato di uno psicoanalista) allora gli ho detto “ehi ma sono io che la pago per questo!” (il pubblico ride ancora, la gag è riuscita ma ora il tono si fa più serio) allora lui mi disse “io credo che sia accaduto qualcosa di brutto e che lei cerchi di tornare indietro pensando di poter sistemare le cose… che qualcosa sia andato storto e lei ritorni là per vedere se riesce a riparare”, io allora risposi “è vero, è quello che sto facendo” e lui “beh… non può”»[1].
Pronunciate le ultime parole, accompagnandosi con la chitarra e l’armonica suonerà una struggente versione di My Father’s House da Nebraska, pezzo nel quale ritroviamo narrato quanto appena descritto al proprio psichiatra-psicoanalista: il newyorkese Wayne Alan Myers con il quale Springsteen lavorerà per più di 25 anni nel tentativo di arginare un incipiente e pernicioso stato depressivo.
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[1] Introduzione parlata a My Father’s House, Shrine Auditorium, Los Angeles, CA, 16/11/1990
Nel testo della canzone il protagonista sogna di ritornare bambino negli stessi luoghi dove è cresciuto, là dopo avere guidato tutta la notte, vede in lontananza la casa del padre ergersi splendente e luminosa e decide di raggiungerla correndo a perdifiato attraverso un bosco popolato da demoni e fantasmi (i suoi) ferendosi con rovi e rami, finché una volta trovato, esausto e tremante può finalmente lasciarsi andare tra le sue braccia. A questo punto destatosi di soprassalto riflette su tutte le cose che li hanno sempre tenuti lontani e decide che questo non accadrà più, sale in auto e guida fino alla casa del padre. Le finestre sono illuminate, il portone d’ingresso chiuso si apre solo per lo spiraglio consentito dalla catenella, allora lui comincia a raccontare la sua storia (come in analisi) e quando finisce sente una voce di donna che non riconosce rispondergli che oramai nessuno con quel nome vive più là. La canzone termina con questi versi:
My father’s house shines hard and bright, | La casa di mio padre risplende altera, |
A questo punto parte un lancinante assolo di armonica a bocca, tagliente come un rasoio che squarcia la pace e il silenzio della notte: è la voce della casa del padre che lo chiama, anche se come gli aveva detto l’analista «ormai nessuno vive più là», il suo cuore e la sua mente continuano a ritornare nella speranza di raddrizzare qualcosa che invece è andato storto: un sogno ricorrente che diventa incubo.
Nel 1908 Freud analizzando il caso clinico del piccolo Hans ebbe a dire: «…ciò che è rimasto capito male ritorna sempre; come un’anima in pena, non ha pace finché non ottiene soluzione e liberazione.» (1908, 570) In Ricordare, ripetere e rielaborare del 1914 svilupperà ulteriormente questo pensiero: «possiamo dire che l’analizzato non ricorda assolutamente nulla degli elementi che ha dimenticato e rimosso, e che egli piuttosto li mette in atto. Egli riproduce quegli elementi non sotto forma di ricordi, ma sotto forma di azioni; li ripete, ovviamente senza rendersene conto.» (355) Introducendo per la prima volta il termine coazione a ripetere (356) Freud si riferisce all’incoercibile bisogno di reiterare un sintomo spesso doloroso o comunque disfunzionale, tuttavia: «Quel che più conta è che il paziente comincia la cura fin dal primo istante con una tale ripetizione.» (ibidem) Come a dire che non potrà esimersi dal ripetere, dall’agire i propri sintomi come ha sempre fatto fino ad allora anche nella relazione terapeutica con l’analista per mezzo del transfert, rendendo però così gli stessi passibili di interpretazione e maggior comprensione. Dopo Freud toccherà poi a un suo discepolo, Sándor Ferenczi teorizzare come anche il sogno, inteso come espressione primaria dello psichismo, possa diventare a sua volta teatro di ripetizione in caso di esposizione a condizioni traumatizzanti. Questo può ad esempio verificarsi nei sogni ricorrenti, attraverso i quali la mente prova a figurare, ri-presentare una scena traumatica per successive variazioni, nel tentativo di permetterne una sorta di elaborazione ed inclusione[1]. My Father’s House è uno spezzone filmico dal quale si possono estrapolare diversi fotogrammi salienti del rapporto che Springsteen visse con suo padre Douglas. Una sorta di reciproca negligenza superficiale che serviva invece a mascherare l’impossibilità di un incontro: il giovane Bruce era dovuto scappare, correre lontano da casa (Born To Run) per poter crescere, umanamente e musicalmente, raccogliendo infine ogni forma di successo possibile, passando da essere la promessa – il “futuro del rock & roll” – ad esserne l’incarnazione, il presente. Ora però dopo sei dischi, di cui almeno tre furono dei successi planetari (Born To Run, Darkness On The Edge Of Town e The River) si apprestava a fare i conti con i suoi spettri, reincontrando quel passato che nemmeno soldi e successo avevano potuto tenere a bada.
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[1] In letteratura ci si riferisce a questo come alla funzione traumatolitica del sogno.
La copertina di Nebraska è uno scatto in bianco e nero del fotografo David Michael Kennedy e ritrae una di quelle piatte lingue d’asfalto che attraversano gli Stati Uniti dando l’impressione di estendersi all’infinito verso il nulla. Molto diverso dalla mitologia di Born to Run che celebra la giungla d’asfalto come luogo epico dove vivono e si scontrano “eroi” moderni, Nebraska rappresenta invece soprattutto l’alienazione dell’altra faccia del Sogno Americano. Il cruscotto e il parabrezza fissati nella copertina sono sia il punto di vista personale dell’autore che quello dei personaggi nei quali egli si identifica e si riconosce. Per esempio in Used Cars dietro al volante c’è il padre, depresso e alcolizzato, che incapace di tenersi un lavoro, solo di rado poteva permettersi una nuova auto usata (un ossimoro molto più efficace nel testo originale: “a brand new used car”). Nel testo scorrono immagini felici come quelle della sorellina seduta sul sedile davanti con un grande cono gelato in mano e la madre tutta sola su quello posteriore, mentre il padre trionfante si accinge a provare l’auto per la prima volta, facendosi largo tra la gente accorsa da tutto il vicinato. Ma sono lampi, attimi fuggevoli che non fanno altro che accrescere la disperazione per un riscatto ed una redenzione che non arriveranno mai:
My dad, he sweats the same job from morning to morn,
| Mio padre suda sullo stesso lavoro da mattina a sera, |
A molti di questi derelitti che vivono come ombre ai margini della società la sorte non riserverà mai la gioia di vincere alla lotteria vedendo “estratto il proprio numero”, cosa che invece a lui tutto sommato era accaduta. Adesso però tutto questo non bastava più: «Già da tempo le difese che mi ero costruito per proteggermi e sopportare le tensioni dell’infanzia hanno perso il loro scopo originale, ma ormai ne sono diventato dipendente. Le sfrutto per isolarmi oltre il dovuto, sancire la mia alienazione, tagliarmi fuori dalla vita, controllare gli altri e tenere a bada le emozioni finché non fa male.» (2017, 324) Per la psicoanalisi le difese al servizio dell’Io sono adattive e svolgono spesso una importante funzione strutturante oltre che di salvaguardia del normale funzionamento psichico, ma arrivati ad un certo punto della nostra vita possono rivelarsi disfunzionali. Fu in quel periodo che Springsteen cominciò a limitare il suo notturno girovagare che lo portava ineluttabilmente sulle vecchie strade della sua infanzia e cominciò il viaggio psicoanalitico dentro di sé insieme al dr. Myers. Nebraska è il racconto di tutto questo attraverso i ricordi e le emozioni collegate ad esso: la paura, la gioia, la rabbia e tutto il resto.
Dopo la fine del Tour per il disco precedente[1], Springsteen decise di prendere casa nel New Jersey non distante dai luoghi dove era nato e con l’aiuto di uno dei suoi roadie allestì un piccolo studio di registrazione in casa: un registratore semiprofessionale a cassette con 4 piste che gli permettevano di mixare voce e chitarra, ne rimanevano ancora due per l’armonica a bocca, un’altra chitarra e qualche percussione. L’idea, una volta tanto, era quella di non andare a registrare in sala d’incisione con gli altri membri della band ma di lavorare a questo nuovo materiale scavando in solitudine dentro di sé. Musicalmente Nebraska è un album minimalista, tanto negli arrangiamenti quanto nelle scarne linee melodiche che servono solo da contrappunto ai testi che sono i veri protagonisti. In meno di due mesi Springsteen riemerse da quelle sessions con una cassetta contenente 14 brani inediti, ma quando poi si riunì coi suoi musicisti per registrare professionalmente quelle canzoni le cose non funzionarono[2], anziché migliorare, qualcosa andava invece perduto. Non ci volle molto per capire che il disco c’era già e che quella registrazione casalinga non conteneva soltanto delle demo da fare ascoltare in giro, ma al contrario, come la foto che poi verrà scelta per la copertina, era riuscita a catturare un’istantanea irripetibile dell’atmosfera livida e onirica di quelle settimane di isolamento e solitudine. Soli e isolati sono infatti i protagonisti delle sue storie, a partire dalla stessa Nebraska passando per Johnny 99, State Trooper e Open All Night. La canzone che dà il titolo al disco parla della sanguinosa fuga d’amore del ventenne Charles Starkweather e della sua giovane compagna Caril Fugate, appena quattordicenne all’epoca dei fatti. I due amanti nel loro vagabondare tra il Nebraska e le badlands[3] del Wyoming lasciarono dietro sé una scia di dieci morti, la maggior parte dei quali come si direbbe “uccisi per futili motivi”. Springsteen racconta questa storia di ‘ordinaria alienazione’ in prima persona, come tutte le altre del disco, entrando nei pensieri dei protagonisti, vivendo quelle vite, quasi a voler ribadire che la distanza tra lui e loro dopotutto non è così grande. Fino a un certo punto la sua esistenza, racconterà, non è stata molto diversa da quella di molti personaggi delle sue canzoni, è stata la musica a salvarlo dall’emarginazione: «Il primo giorno che ricordo di essermi guardato nello specchio e di aver sopportato l’immagine di me stesso è stato il giorno in cui ho avuto in mano una chitarra[4]» (1983,39). Mentre si ascolta Highway Patrolman sotto i nostri occhi scorrono immagini tratte dalla vita di Joe Roberts, che serve lo Stato lavorando onestamente come poliziotto. Anni prima suo fratello Franky era stato arruolato per andare a combattere in Vietnam e Joe invece aveva ottenuto un rinvio per poter badare alla fattoria di famiglia. Joe e Franky sono fratelli, ma è come se fossero due facce della stessa medaglia: un onest’uomo e un poco di buono. Nessuna morale, nessuna facile ipotesi sociopolitica, lo stesso sangue che scorre nelle vene di entrambi, essi rappresentano l’uno il doppio dell’altro e secondo me, abbastanza evidentemente, due parti dello stesso Springsteen oltre che di ognuno di noi: Eros e Thanatos[5] in continua lotta tra loro. Dal testo di questa canzone Sean Penn ricavò l’intera sceneggiatura del primo film che firmò anche come regista: The Indian Runner[6].
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[1] The River
[2] Di fatto la maggior parte del materiale registrato con la E Street Band in studio finì nel disco successivo, cioè Born In The USA.
[3] Springsteen dichiarò in seguito di essere stato molto influenzato dal film Badlands di Terence Malick (1973).
[4] Nato per correre. Dave Marsh, Gammalibri, 1983.
[5] Freud introdusse il concetto di Pulsione di Morte in Al di là del principio di piacere (1920).
[6] Lupo solitario (1991).
Nebraska è un lavoro fondamentale nella discografia di Springsteen perché in esso l’autore è riuscito a mettere a nudo le parti più oscure di sé e del Grande Romanzo Americano. Per farlo io credo che abbia attinto al materiale emerso in quegli anni durante il proprio lavoro analitico, in particolare al doloroso e controverso rispecchiamento con il padre amato/odiato, da sempre ri-cercato, ma proprio come nella canzone a lui dedicata, mai davvero trovato. Avevo questa convinzione anche prima che Springsteen nel 2016, nella propria autobiografia appena pubblicata, affermasse: «il risultato del mio lavoro con il dottor Myers, ciò di cui gli sono debitore, è il cuore di questo libro». (2017, 329) L’anno successivo metterà in scena al Walter Kerr Theatre di New York uno spettacolo per lui inusuale, un monologo basato sulla sua biografia e accompagnato da pezzi acustici significativi. Di fatto una lunga seduta di psicoanalisi che sarebbe dovuta andare in scena solo per alcune settimane e che invece restò in programma per oltre un anno. In scaletta una versione di My Father’s House con un inserto parlato in cui Springsteen racconterà di un sogno fatto alla morte del padre:
Talvolta le persone con cui ci identifichiamo sono quelle di cui non siamo riusciti a conquistare l’amore. È pericoloso, ma ci fa sentire vicini a loro ed è l’unico modo per riprenderci quanto ci spettava di diritto e ci è stato negato. Quando da giovane cercavo una voce che insieme alla mia potesse servire a raccontare le mie storie sceglievo quella di mio padre. Quando cercavo un posto dove rifugiarmi dal mondo, sceglievo la fabbrica di mio padre, vestendomi come lui. Quando mio padre morì feci un sogno: ero sul palco davanti a migliaia di persone e stavo suonando. Mio padre era seduto tra il pubblico, improvvisamente sono accanto a lui ed entrambi guardiamo il tizio scatenato sul palco. Io gli tocco il braccio e dico a mio padre, che per anni era stato seduto al tavolo della cucina, irraggiungibile, ma io ero troppo giovane e stupido per capire cosa fosse la depressione: «Guarda, papà lo vedi il tizio sul palco? sei tu… è così che io ti vedo»[1].
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[1] Inserto parlato prima dell’ultimo verso di My Father’s House, Walter Kerr Theatre, New York City, NY, 17/07/2018
Può anche darsi che musicalmente parlando Nebraska non sia il disco migliore di Springsteen ma è sicuramente quello nel quale l’autore “Nato per Correre” è riuscito per la prima volta a fermarsi e ad intraprendere IL viaggio dentro di sé, e come tutti i viaggi – compreso quello psicoanalitico – alla fine la cosa ancor più importante della destinazione, è il viaggio stesso.
BIBLIOGRAFIA
Ferenczi S. (1934). Riflessioni sul trauma. Opere, vol. IV. Raffaello Cortina Editore
Freud S. (1908). Analisi della fobia di un bambino di cinque anni. OSF, vol. 5.
Freud S. (1914). Ricordare, ripetere e rielaborare. OSF, vol. 7.
Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere. OSF, vol.
Marsh D. (1983). Nato per correre. Gammalibri.
Springsteen B. (2017). Born to run. Mondadori
Springsteen B. Introduzione parlata a My Father’s House, Shrine Auditorium, Los Angeles, CA, 16/11/1990 disponibile su https://www.youtube.com/watch?v=3v9tzRSSPPM
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