"Ruah. Il soffio dello spirito" di Elena Blancato

Recensione di Vlasta Polojaz

Ruah. Il soffio dello spirito

Elena Blancato

2014, Talos Edizioni, Cosenza.

Nicolò Cortese nasce il 7 marzo 1907 nella città di Cherso sull’omonima isola del Quarnero, che faceva parte dell’impero austro-ungarico. Frequenta una scuola cattolica privata di lingua croata, la conoscenza della quale lo faciliterà nei contatti con gli internati croati e sloveni. Molto presto scopre la sua vocazione sacerdotale: i a 13 anni entra nel seminario di Camposampiero vicino a Padova, tre anni dopo presso la Basilica del Santo a Padova inizia la sua formazione come novizio assumendo il nome di Placido. A Roma nel 1930 viene ordinato sacerdote. Dopo soste a Padova e Milano è richiamato definitivamente a Padova per dirigere la rivista e l’opera de “Il Messaggero di Sant’Antonio”.

A Chiesanuova, un sobborgo periferico di Padova, viene nel 1942 istituito dal regime fascista un campo di concentramento per sloveni e croati, provenienti dalle “terre redente” e da quelle occupate nel 1941. Padre Cortese vi assume un ruolo essenziale di sostegno e aiuto materiale per i detenuti, rischiando la propria incolumità. Con la caduta del fascismo il campo viene chiuso ma l’aiuto di padre Placido continua a favore di ebrei, militari alleati evasi dai campi di prigionia,  militari in fuga dall’esercito repubblichino e di molte altre persone in pericolo di vita. A tale scopo egli si avvale dell’aiuto di cittadini di diverse età -ognuno con il suo specifico compito- e di studenti universitari sloveni che accompagnano chi deve fuggire -spesso in treno per la Svizzera- creando se necessario qualche diversivo. Il centro operativo dell’attività clandestina è il confessionale di padre Placido nella basilica del Santo e la tipografia del “Messaggero”, che serve per preparare i falsi documenti necessari all’espatrio, sui quali vengono utilizzate le foto dei fedeli che ornano gli ex voto sul sepolcro di Sant’Antonio. E’ padre Cortese che si premura di trovare tra le foto quella più simile alla persona in fuga. Tutta questa delicata attività, che presuppone dei meccanismi ben oliati, non sfugge ai residenti della Basilica. Probabilmente non tutti apprezzano quanto viene fatto all’ombra del Santo,  gli abitanti del convento si sentono minacciati e temono per la loro integrità. La zona è però protetta essendo territorio del Vaticano, quindi preclusa agli interventi di agenti e poliziotti sia italiani che appartenenti alla forza di occupazione tedesca.

L’8 ottobre 1944 qualcosa si incrina in questa rete di protezione. Due agenti nazisti chiedono di incontrare padre Cortese, il quale accetta temendo forse per l’incolumità degli altri frati o di qualche altra persona. Probabilmente il ricatto che emerge nel corso del breve incontro sul sagrato della chiesa è troppo minaccioso, per cui i due agenti nazisti riescono a “convincere” padre Placido a salire su un’auto che parte velocemente alla volta di Trieste dove si trova la sede della Gestapo. Qui egli viene sottoposto a terribili sevizie, testimoniate da altri prigionieri, riuscendo a non rivelare nulla e soprattutto nessun nome (ne parla estesamente lo scrittore ateo Boris Pahor[1]).

Di padre Cortese non si sa più nulla dalla metà di novembre 1944, si presume che il corpo sia stato gettato nel forno crematorio della Risiera di San Sabba.

“Nel dopoguerra sono in pochi a ricordarlo”, scrive Ivo Jevnikar[2], un giornalista che ha ricostruito con attenzione l’eroica storia del frate. E’ solo nel 2001 che esce una documentata biografia scritta da A. Tottoli ampliata e riedita di recente[3] ed è ora in atto il processo di beatificazione.

Su padre Cortese desidero segnalare un piccolo libro che è, a mio avviso, un “gioiellino di umanità”, molto prezioso e infrequente di questi tempi. L’autrice è Elena Blancato che ha una particolare capacità di identificarsi con questo frate, soffermandosi su quei momenti della sua vita affettivo-emotiva che lo hanno forgiato dandogli una riserva di vissuti dai quali attingere anche nei momenti più precari per rimanere sempre vicino agli esseri umani. E. Blancato lo fa con grande delicatezza, riuscendo a tratteggiare con poche frasi emozioni e sentimenti profondi. Basti ricordare che il suo testo è fatto di 25 pagine dense, nelle quali la scrittrice coniuga momenti della vita del frate con la sua forza vitale e la sua gioia di vivere. Vi riesce legando i primi sette giorni passati nell’orrore del bunker di Piazza Oberdan, dove ha sede la Gestapo e dove Placido è torturato con tutti i mezzi dei quali dispongono le SS, con ricordi significativi, che egli ricupera prima di essere in preda ad una totale agonia. Attraverso i ricordi egli attinge agli aspetti vitali, i quali non possono venir spazzati via dalla distruzione quotidiana. In questo scontro è fondamentale che egli riesca a non dire alcun nome, quindi difende e salva gli altri dalla morte, il che aumenta la ferocia degli aguzzini.

L’Autrice sceglie alcuni ricordi che sono presenti nelle lettere di Placido oppure si ritrovano negli scritti o ricordi di altre persone che l’hanno incontrato. Nel testo i giorni di tortura  si avvicendano con ricordi che ripescano anche momenti di gioia infantile, come quando Nicolò nuotava nel mare terso della sua isola con l’amata sorella. L’altro ricordo, che segue il secondo giorno di tortura, riguarda l’arrivo nella Basilica di Majda, una studentessa universitaria slovena. Ella l’implora ad aiutare i prigionieri croati e sloveni del campo di concentramento di Chiesanuova che vivono in situazione di grande precarietà, esposti a fame, freddo e a malattie ed il cui “crimine” è la loro determinazione a restare fedeli alla loro identità nazionale. La richiesta di Majda viene esaurita, anche se si tratta di aiutare “comunisti e senzadio”, come ricorda padre Placido. Egli diventa padre spirituale del campo, dove si reca in bicicletta, ma soprattutto è corriere di posta, viveri, vestiti e medicinali provenienti dai familiari che egli nasconde sotto il saio. I ricordi di Placido continuano a scorrere ripercorrendo i diversi momenti della sua presenza nel campo fino alla chiusura di questo. Majda  riesce a laurearsi in medicina alla fine di novembre 1943, qualche giorno dopo la probabile morte di padre Cortese. 

I ricordi nel testo riescono, a mio avviso, a circoscrivere la morte nel bunker, che così resta morte e non si trasforma in annientamento totale (malgrado la dissoluzione nell’inceneritore), in quanto viene salvato l’investimento affettivo negli uomini. Ciò è sottolineato dalla scrittura sintetica e contemporaneamente poetica di E. Blancato, che così avvicina la morte alla vita attraverso la continuità data dalla tensione dialettica sempre presente tra questi due periodi, come sottolinea la  psicoanalisi. La distruzione imperante nei totalitarismi annulla invece sia la vita che la morte.

 

 

NOTE

[1] Pahor B. (2010) “Piazza Oberdan”. Nuovadimensione, Portogruaro (VE)

[2] Jevnikar I. (2014) “Un martire della carità”. In Blancato E. “Ruah. Il soffio dello spirito”. Talos Edizioni. Cosenza. (11-15)

[3] Tottoli A. (2020) “Padre Placido Cortese. Vittima del nazismo”. Messaggero di Sant’Antonio Editrice. Padova (terza edizione).

Vlasta Polojaz , Padova e Trieste

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vlastapolojaz@gmail.com.

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