“33 Giri Italian Master”

Commento di Cristiano Lombardo

Titolo: 33 Giri Italian Master

Piattaforma: Sky Arte, Stagioni 1 – 5

Regia: Pepsy Romanoff

Scritto da: Edoardo Rossi su un’idea di Stefano Senardi.

 

Da Sky Arte vengono buona parte dei contenuti documentaristici degli ultimi anni a cui vale la pena di rivolgere uno sguardo curioso. Generalmente realizzati con cura e un impiego di mezzi adeguato, spesso si contraddistinguono anche per alcune idee originali.

 A mio avviso appartiene a questa categoria il programma in questione che si prefigge lo scopo di far “vedere” la musica e di raccontarla. Un po’ come accade nello studio dell’analista dove attraverso i ricordi e le libere associazioni il paziente schiude le porte della propria memoria e rivive buona parte della sua vita passata e presente, anche nello studio di registrazione aprire le porte dei magazzini e dei caveaux dove sono conservati i nastri delle registrazioni permette di poter riascoltare questi master su cui è fissata buona parte della vita dei musicisti in studio e del processo creativo che alla fine ha portato alla realizzazione di un’opera musicale.

 

La prima stagione della serie è stata dedicata ad alcuni capolavori del cantautorato italiano (Dalla, Guccini, Graziani, De André, Gaber, Gaetano, Battiato). Le voluminose bobine di nastro magnetico (nella maggior parte degli studi di registrazione ancora in funzione sono ormai cadute in disuso con l’avvento del digitale) vengono riportate sul banco di missaggio e riascoltate.

In genere all’evento partecipano l’autore del disco insieme ad altri collaboratori come musicisti e produttori. Per chi ama la musica è un’occasione unica per rivivere i momenti che hanno scandito la registrazione di un disco attraverso gli aneddoti e i racconti dei protagonisti da un lato e l’ascolto dei brani dall’altro.

In studio a fare gli onori di casa troviamo una vecchia conoscenza: Maurizio Biancani alla consolle, un ingegnere del suono che ha lavorato a molte delle produzioni dei migliori artisti italiani da metà anni settanta in poi e che, in quanto addetto ai lavori, sa come scovare dettagli gustosi e inediti nascosti tra le pieghe di ogni singola traccia. Ogni master è in genere registrato su nastro magnetico da due pollici sul quale possono trovare spazio fino a 24 tracce, ogni traccia in genere è dedicata a un singolo strumento o a una parte di esso (ad esempio la batteria e altri strumenti possono essere registrate su più tracce da altrettanti microfoni) ed è un’esperienza del tutto unica poterla sentire suonare indipendentemente rispetto al resto.

Ad esempio ascoltare la linea del basso, o del pianoforte significa poter mettere in luce scelte artistiche e stilistiche che spesso non possono essere percepite direttamente all’ascolto “cosciente” del brano così come viene poi pubblicato, ma che in qualche modo l’orecchio, inconsciamente, sente. Altre volte si può sentire il cantato dell’autore completamente privo di base musicale, approfondendone il tono o scoprendone parti poi tagliate, o ancora ascoltarlo fare più voci, tra cui alcune in falsetto successivamente sovrapposte alla traccia di base.

 

Proprio come dentro allo studio dell’analista anche in quello di registrazione è emozionante ri-vivere, proprio nel senso di ri-cordare e ri-portare alla vita dettagli dimenticati in grado di evocare intere situazioni e scelte artistiche. Per gli antichi e non senza ragione, infatti, la sede della memoria era il cuore: “cor” “cordis” appunto, da cui “ri-cordo”, perché se è vero che ora sappiamo che sono mente e cervello a custodire i ricordi, come psicoanalisti sappiamo altrettanto bene quanto un ricordo sia legato alla vibrazione della “corda” emotiva.

 

 

Un ricordo non è mai un fatto nudo e crudo, è invece soprattutto un affetto e in quanto tale può essere ricordato o rimosso, ma non viene mai davvero completamente obliato. Così come analista e paziente non possono sottrarsi all’emozione del riaffiorare in seduta di un affetto legato a un ricordo che si pensava di-menticato (proprio nel senso etimologico di “fatto uscire dalla mente” e solo da quella) in qualche puntata di questa serie possiamo assistere emozionati anche noi al riemergere di dettagli perduti e dimenticati dagli autori stessi o da persone a loro vicine.

Chi ama la musica difficilmente resterà impassibile di fronte alla commozione di uno dei figli di Ivan Graziani, musicista anch’esso che ha perso il padre da giovane, quando sui nastri di “Pigro” viene scoperta un’out-take, cioè un brano completamente inedito ma scartato dalla scelta finale di quelli presenti sul disco e a lui totalmente sconosciuto. Un tempo questa era una prassi molto comune e visto che alcuni artisti potevano trascorrere anche mesi in sala di registrazione non era infrequente che i più prolifici registrassero decine di brani oltre a quelli poi effettivamente pubblicati.

Un esempio tra i tanti: Bruce Springsteen, che per “Darkness On The Edge Of Town” aveva registrato più di duecento pezzi, molti dei quali hanno visto la luce in seguito, ma la lista è davvero ben nutrita e va da Bob Dylan ai Beatles, ai Rolling Stones solo per citarne alcuni.

Un’altra chicca è rappresentata dalle alternate-take, ovvero versioni alternative di brani conosciuti perché pubblicati, ma magari qui registrate in versioni completamente stravolte nella tonalità, nel tempo di esecuzione e a volte persino nel testo.

Personalmente trovo interessante poter osservare come si snoda il processo creativo che ha portato alla nascita di un pezzo e come questo sia frutto di tutta una serie di scelte in parte volute fortemente e in parte apparentemente casuali, proprio come accade nella vita. In analisi si dice che nessuna seduta potrà mai essere uguale ad un’altra, nemmeno se paziente e analista sono gli stessi perché ogni momento è unico, hic et nunc, proprio come nel jazz dove ogni esecuzione resta estemporanea ed irripetibile.

Nella puntata dedicata al monumentale Crêuza de mä di Fabrizio De André, da molti considerato uno dei primi dischi di world music, si può ascoltare Mauro Pagani della mitica PFM suonare in diretta e poi raccontare la scelta degli strumenti a corda usati in molti dei brani dell’album. Strumenti che lui stesso aveva conosciuto dopo anni di ricerche spese nel bacino del Mediterraneo tra nord Africa, Balcani, Grecia e medio oriente e che poi aveva riportato con sé al ritorno in Italia.

È il primo e unico disco di Faber non in italiano perché l’autore avrebbe voluto fosse apolide e senza confini e per questo aveva pensato alla creazione di una sorta di esperanto, una specie di grammelot che gli permettesse di emanciparsi dalla riconoscibile nazionalità di una lingua già nota. Ben presto si accorse però insieme alla band, che lo strettissimo dialetto genovese, qua e là opportunamente modificato, serviva egregiamente allo scopo perché ricco di dittonghi, iati e parole tronche che «li puoi allungare e accorciare quasi come il grido di un gabbiano» [1].

Un eccellente esempio lo possiamo ascoltare fin dalle note di chiusura della title-track in cui alla musica e al cantato dialettale si sovrappone progressivamente il salmodiare ritmato di una donna insieme ad altre voci e rumori che poi i membri della PFM sveleranno essere registrati dal vivo al mercato del pesce di Genova: «e fortuna che la signora parlava e gridava in Re che è la stessa tonalità che avevamo scelto per la canzone!».

Ascoltando singole tracce, come dicevo, si riescono a cogliere particolari precedentemente nascosti, come il suono del barattolo di fagioli secchi che il batterista Walter Calloni aveva trovato poco prima nella cucina al piano di sopra. De André e la PFM stavano registrando in piena notte nella taverna della casa di Mauro Pagani quando il batterista, provato dai morsi della fame (proprio come nella stanza d’analisi anche nello studio di registrazione il tempo spesso scorre diversamente dal mondo reale) e dai rimproveri di Faber che non voleva “costose maracas” e soluzioni raffinate per quel progetto, si era spinto fino in cucina dove aveva trovato i suddetti fagioli secchi e prima di mangiarseli aveva pensato bene di usarli come strumento a percussione, ma dal suono più popolare.

È solo un esempio tra i tanti e visto che le stagioni di questo format alla fine sono diventate cinque, ce n’è davvero per tutti i gusti: da Lucio Battisti a Pino Daniele, passando per Ivano Fossati e Paolo Conte e altri ancora, con un punto di vista più vicino al cantautorato nelle prime stagioni, per poi spingersi fino alle band e ad altri progetti nelle serie più recenti, come “Tabula Rasa Elettrificata” del CSI o “BMS” l’album omonimo del Banco Del Mutuo Soccorso, o anche “Arbeit Macht Frei” degli AREA, tutti lavori sperimentali e innovativi.

Se infatti David Byrne in un’intervista a Rolling Stone aveva messo “Crêuza de mä” tra i dischi più importanti degli anni ottanta e primo esperimento in assoluto di World Music, perché giunto due anni prima di “Graceland” di Paul Simon e quattro anni prima di “Passion” di Peter Gabriel, è un piacere constatare anche attraverso le testimonianze dirette di queste band quanto la musica italiana fosse di avanguardia anche in settori apparentemente meno frequentati come il progressive-rock.

Trentacinque episodi trasmessi lungo l’arco di cinque stagioni con la possibilità di spaziare tra generi e interpreti diversissimi rendono inevitabilmente alcune puntate più interessanti di altre a seconda dell’interesse o dei gusti personali. Un format abbastanza agile della durata di quarantacinque minuti circa, curiosamente la durata di una seduta, non permetterà mai di scendere troppo nei dettagli né di analizzare ogni brano del disco scelto, ma in compenso nemmeno di annoiarsi o di restare incastrati in tecnicismi per addetti ai lavori.

Un’ultima considerazione: la recente pandemia ci ha condotto verso una pericolosa rarefazione dei contatti e degli scambi umani e sociali, divenuti molto più “liquidi”, spesso surrogati da interfacce informatiche e digitali. In quei momenti credo che queste ultime abbiano svolto la loro funzione e siano state fondamentali per lenire un senso di alienazione che altrimenti sarebbe stato persino più pesante. Il mio pensiero non può non andare al fatto che è anche attraverso questi mezzi che è stato possibile non rescindere completamente i legami con i nostri pazienti in attesa di tempi migliori.

Sempre durante la pandemia altri analisti (finanziari questa volta) avevano profetizzato il tramonto definitivo dei dischi e dei CD, cioè dei supporti fisici da cui gli amanti della musica amano ascoltarla, teorizzando l’avvento ormai imminente della musica “liquida”, quella cioè che si può scaricare dai vari servizi di streaming a pagamento senza dover uscire di casa E invece no. E invece, proprio come per la terapia e la psicoanalisi ciò che la gente ha manifestato è il piacere e anche il bisogno di un contatto reale, di avere “tra le mani” qualcosa, di poter andare in un luogo e scambiare due parole con altri avventori, di guardare la copertina di un disco, toccarlo, stringerlo, magari un 33 giri invece di un CD, di poter leggerne le note prima di mettere la puntina sui suoi solchi e sentirlo suonare. Un incontro più umano, mi verrebbe da dire più analogico e meno digitale.

Come ad un concerto. Come nella stanza d’analisi.

 

 

NOTE

[1] Intervista a Mixer, Rai Due, 1 Marzo 1984.

 

Cristiano Lombardo, Padova e Conegliano (TV)

Centro veneto di Psicoanalisi

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