Proprio come noi... ma loro erano i Beatles

di Massimo De Mari

get back the beatles

Titolo: THE BEATLES: GET BACK

Genere: Serie TV in 3 Puntate Disney +

Regista: Peter Jackson

Anno: 2021

Produzione: Apple Corps, polygram Entertainment, Walt Disney Pictures, Wingnut Films

Distribuzione: Disney +

 

Da dove viene la musica ? A che livello avviene quella comunicazione straordinaria e ineffabile che passa attraverso i suoni ? E’ una cosa “misteriosa” anche per lo stesso Freud che ha più volte contemplato la possibilità dell’esistenza di comunicazioni tra creature umane che avvengano a livello telepatico, ovvero senza bisogno dell’uso della parola. (De Mari, 2018).

Di Benedetto scrive che la musica può essere intesa come arte speculare ai sentimenti melanconici e creativi: “In quanto arte dei suoni, la musica è arte dell’invisibile. Tutte le arti lo sono in una certa misura ma quella musicale lo è per eccellenza. Segnala qualcosa che sfugge agli usuali processi

rappresentativi visivi. Svolge cioè una funzione pre-rappresentativa” (Di Benedetto, 2000, 2002).

I suoni hanno quindi una grande forza evocativa. E’ proprio dal dialogo interno fra il suono e l’esperienza con la madre e in seguito con le altre figure di accudimento, agli inizi della vita, che si formeranno successivamente parola e linguaggio.

“Il comporre, il suonare e l’ascoltare musica permette di vivere un’esperienza di grande indipendenza e al contempo di dipendenza, che solo un’opera creativa di gruppo permette si realizzi, un’esperienza di condivisione umana, nella musica come nella psicoanalisi, nella coppia come nel gruppo, pur rimanendo individui nella propria separatezza”. (Carnevali, Saponi, 2018).

Il processo creativo prende spunto, dunque, da una continua interazione tra conscio e preconscio: l’ispirazione non è altro che una scintilla che collega la traccia mnestica con l’emozione, il desiderio di comunicare un pensiero e i vissuti, sedimentati a livello inconscio, di tutte le rappresentazioni percettive sonore accumulate fin dalla vita intrauterina, che trovano finalmente uno sbocco rappresentativo in quella particolare linea melodica e in quella particolare combinazione di suoni che costituiscono il tappeto armonico.

Parlare dei Beatles vuol dire parlare di qualcosa che non si può ridurre al solo fenomeno musicale; vuol dire parlare di genio creativo, di dinamiche di gruppo e di cambiamenti del costume che hanno interessato intere generazioni, quindi di una vera e propria rivoluzione culturale.

Credo che tutti quelli che hanno potuto vivere da adolescenti gli anni ’60 e ’70 abbiano visto con stupore e adorazione “The Beatles: get back” un documentario di 8 ore, diviso in tre parti, che racconta quanto successo durante il mese di Gennaio 1969, quando i Beatles, che hanno già percorso la loro parabola artistica e sono sulla soglia della rottura definitiva, sono riniti in sala prove per programmare quel che resta della loro formidabile carriera.

 

Che emozione incredibile vedere Paul arrivare la mattina in sala prove e annunciare ai suoi distratti compagni della band, di aver buttato giù alcuni accordi di una canzone nuova.

Sì perché quando si siede al piano e inizia a suonare capiamo subito, perché l’abbiamo sentita milioni di volte ed è stata la colonna sonora di generazioni, che la canzone che “gli è venuta in mente” la sera prima è “Let it be”.

Sì perché Paul di cognome fa Mc Cartney e i suoi distratti compagni del gruppo, tra una sigaretta, una tazza di thé e una serie infinita di scherzi, si chiamano John Lennon, George Harrison e Ringo Starr, cioè i componenti di un gruppo che ha letteralmente rivoluzionato la storia della musica, traendo spunto dal rock and roll e dalla musica folk americana (innumerevoli le citazioni del loro idolo Elvis Presley), creando un genere musicale, che oggi definiremmo pop-rock, ricco di novità assolute sia sul piano compositivo che nella scrittura dei testi e dando, così, l’ispirazione ad un’infinità di epigoni, nei decenni successivi fino ai giorni nostri.

Il documentario è stato girato da Michael Lindsay-Hogg e comprendeva originariamente un materiale di 60 ore di riprese inedite e un totale di 150 ore di audio, quindi un patrimonio storico che solo parzialmente è stato inserito nel film “Let it be – un giorno con i Beatles”.

All’epoca i “fab four” hanno rispettivamente 29 (John e Ringo) 27 (Paul) e 26 anni (George), hanno già vissuto le folgoranti tournèe in giro per il mondo assediati da fans adoranti nei teatri, negli alberghi e negli aeroporti, hanno già sperimentato qualche droga e hanno fatto la loro full immersion mistica  in India, alla corte del guru dei vip, Maharishi Mahesh Yogi (quello che arrivava sul luogo delle sue predicazioni in elicottero), da cui George e John non si ripresero più.

John aveva già incontrato la sua anima gemella, l’artista e musicista giapponese Yoko Ono che ebbe, a dire di tutti gli storici del gruppo, un’influenza nefasta su John, provocandone l’allontanamento dal gruppo che infatti in breve finì per sciogliersi.

Quanto ci sia di vero il documentario non lo spiega fino in fondo ma lo si può cogliere in qualche sprazzo; è emblematico comunque che mentre i quattro musicisti provano, raramente si vedano altri personaggi di famiglia girare nella sala prove.

Qualche volta si vede Linda (Eastman, l’adorata prima moglie di Paul, morta di cancro in giovane età) che fa qualche foto e ci può stare; essendo la figlia del fondatore della Kodak, magari qualche competenza per fare foto ce l’aveva.

Non più di un paio di volte compare Patty Boyd, moglie di George (che poi lo lascerà per sposare il suo migliore amico, il celebre chitarrista Eric Clapton) mentre forse solo una volta si vede Maureen Cox, prima moglie di Ringo, ambedue con l’atteggiamento di chi si trova da quelle parti solo casualmente e saltuariamente.

E’ invece onnipresente, in ogni momento del lungo resoconto, seduta di fianco a John, muta e  inquietante, occhiali neri e vestiti altrettanto scuri, l’ineffabile Yoko, come a sancire una proprietà assoluta del compagno, tollerata con una pazienza infinita dagli altri, salvo qualche sguardo o qualche battuta, che sfugge qua e là, anche se mai in tono malevolo.

Inizialmente ci troviamo all’interno di un hangar allestito apposta per permettere ai musicisti di mettere a punto la scaletta per un documentario della BBC.

E’ durante questa prima parte che ogni tanto la mattina, all’inizio di una giornata di prove, qualcuno dei quattro porta qualche spezzone di composizione da far sentire agli altri su cui poi sia gli altri musicisti che i produttori presenti alle sessioni di prova (tra cui il celebre “quinto Beatles” George Martin) mettono mano, suggerendo di aggiungere un accordo qui, o modificare il testo là, partecipando cioè al processo creativo.

Questo succede, ad esempio, in una lunga, mirabile sequenza, per “Get back” che vediamo prendere forma sotto i nostri occhi dalle mani di Paul o per “I me mine ” di George Harrison, o per un’altra composizione meno conosciuta di Ringo, in cui vediamo George che si mette al piano e gli suggerisce qualche accordo per migliorare il giro armonico del pezzo.

 

Quando poi il progetto del video della BBC viene disdetto per la poca convinzione soprattutto di George Harrison, il gruppo si trasferisce nei mitici studi di Abbey Road, per registrare le canzoni che andranno a costituire il loro ultimo album (“Let it be”, appunto) e allestire quello che sarà il loro ultimo concerto dal vivo, sul tetto del palazzo di Savile Road dove gli studi hanno la loro sede.

I Beatles arrivano in studio la mattina presto, a volte in auto con autista, ma altre volte a piedi, come tante altre persone che girano per il quartiere a quell’ora.

Sono del tutto egosintonici con il loro genio creativo; discutono, mangiano, fumano (a ciclo continuo), cazzeggiano, alternando i brani del loro repertorio che diventeranno immortali, con altri della tradizione del più puro rock and roll, solo così, per divertirsi.

Spesso riprendono i loro stessi brani storpiandoli, cantandoli in falsetto, scambiandosi gli strumenti, dimostrando di non essere affatto degli improvvisatori perché tutti, chi più chi meno, oltre al loro strumento, suonano anche il piano.

John e Paul hanno firmato più canzoni di tutti ma anche George gioca un importante ruolo nella composizione e si capisce, così come Ringo, spesso relegato alla batteria, dimostra di essere non solo impeccabile nel suo lavoro ritmico, ma altrettanto presente, seppur in modo più discreto e silenzioso, nell’equilibrio delle composizioni e nelle decisioni da prendere.

C’è un leader riconosciuto all’interno del gruppo ?

Si è sempre parlato di un’egemonia di John ma in realtà l’anima e la spinta creativa sembra essere prevalente nel ruolo che gioca Paul, almeno in questa fase della loro storia.

John appare spesso distaccato, quasi assente, spesso arriva per ultimo alle prove, si siede quasi senza salutare e comincia a suonare un po’ per conto suo, sempre accompagnato dall’insostituibile Yoko Ono.

Harrison dimostra di avere il suo caratterino quando molla tutto e se ne torna a casa, per esprimere la sua contrarietà al progetto del video per la BBC e per protestare contro l’esuberanza compositiva di Paul e John che mettono sempre in secondo piano i suoi progetti.

Dopo la scissione del gruppo, che segue di poco l’uscita del loro ultimo album “Let it be”, George tirerà fuori dal cassetto una mole impressionante di composizioni sempre scartate dai Beatles, che troveranno posto in uno storico album triplo, “All things must pass”, che segnerà l’avvio della sua brillante carriera solista.

 

Nell’ultima parte del documentario assistiamo alla messa a punto del progetto “rooftop concert”, che nasce quasi per caso, durante le sessioni di registrazione di “Let it be”.

I Beatles hanno voglia di suonare dal vivo e sono frustrati dalle difficoltà che stanno incontrando ad organizzare concerti.

In più si percepisce una tendenza ormai evidente, anche se non dichiarata apertamente, a prendere ciascuno altre strade.

I problemi pratici, le autorizzazioni, il rischio di proteste da parte dei vicini per il troppo rumore, l’allestimento dell’amplificazione sul tetto, vengono affrontati e risolti con una sensazione quasi ineluttabile che quella potrebbe essere l’ultima volta per i quattro di suonare insieme.

Quando infine il celeberrimo concerto prende corpo rimaniamo ancora una volta letteralmente annichiliti dall’energia che il gruppo riesce a produrre.

L’atteggiamento rilassato, a volte quasi annoiato o giocoso delle prove lascia il posto ad un amalgama di suoni e di impasti vocali compatto e trascinante.

Nonostante il freddo (John si lamenta spesso di avere le dita congelate) i quattro eseguono tutti i pezzi di quella indimenticabile scaletta, con una grinta e una sintonia da far saltare sulla sedia.

A quel punto, quando su quelle note scorrono i titoli di coda, capiamo cosa sono stati i Beatles.

 

Per chi, come chi scrive, ha preso una chitarra in mano a 14 anni e ha cominciato a strimpellare “The long and winding road” o “Here comes the sun” insieme ad altri quattro amici, non c’è niente di nuovo a vedere cosa succede in una sala prove.

Anche noi, tra le migliaia di epigoni dei Beatles, abbiamo vissuto quella sensazione di inventare un giro di accordi, di scrivere dei testi mettendoci dentro i nostri sogni di adolescenti, scimmiottando John e Paul, comprandoci chitarre e amplificatori, organizzando le prime serate con gli amici e poi i concertini in parrocchia.

Crescendo, anche noi siamo andati in sala di registrazione, emozionati, a registrare le nostre composizioni e abbiamo visto la nostra creatività concretizzarsi in un CD da fare vedere con orgoglio a parenti e amici.

Anche noi abbiamo litigato e riso, tenendo i capelli lunghi e un broncio esistenziale in casa, facendo temere ai nostri genitori di vivere di droga e sesso libero mentre, in realtà, trovavamo nella musica solo un sollievo ai nostri turbamenti e alle ansie che la vita che stavamo affrontando ci metteva di fronte.

Anche noi, come loro.

Ma loro erano i Beatles.

 

 

 

Bibliografia

Anzieu D. (1976) L’enveloppe sonore du soi. Nouvelle revue de psychoanalyse, 13 (161-170)

Carnevali C., Saponi S. Introduzione. In De Mari M., Carnevali C., Saponi S. (2018) Tra psicoanalisi e musica. Alpes. Roma

De Mari M. (2018) Trasformazioni emotive in musica e psicoanalisi. In De Mari M., Carnevali C., Saponi S. (2018) Tra psicoanalisi e musica. Alpes. Roma

Di Benedetto A. (2000) Prima della parola. L’ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell’arte. Franco Angeli. Milano

 

Massimo De Mari, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

massimodemari@gmail.com

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