La pulsione e l’Altro. André Green e gli analisti francesi in dialogo.

di Roberta Guarnieri

23/24 novembre 2002

Parigi (UNESCO)

Colloquio organizzato dalla SPP coordinato da André Green

“Il lavoro psicoanalitico”

 

Ho scelto come mio riferimento il libro uscito nel 2003, un decennio dopo quell’incontro ‘storico, dal titolo “Il lavoro psicoanalitico”.

Nel 2002 fu organizzato, dalla SPP, per iniziativa e sotto la direzione di André Green, un incontro, presso la sede dell’UNESCO, fatto di otto presentazioni, due analiste e un terzo che coordinava la discussione, significativamente chiamate, ‘dialoghi’, che coinvolgevano alcuni degli analisti più significativi delle società francesi, comprese alcune società lacaniane 1.

Questa occasione fu fortemente voluta da Green che immagino scelse gli invitati e i temi, con l’appoggio della sua Società e dell’allora Presidente, Alain Fine. La parte editoriale fu poi curata da Francoise Coblence.

Ho avuto l’opportunità, insieme ad altri analisti della SPI, di essere presente a quell’incontro, divenuto storico, e ne ho conservato negli anni un ricordo molto netto.

Le questioni che sentii discutere allora sono quelle che dovrebbero essere anche ora oggetto di riflessione e in parte lo sono. In parte invece sembra che le fratture in seno alla comunità analitica si siano accentuate.

Le scelte di Green nell’accostare i diversi analisti sembrano essere state il frutto di una ricerca di un confronto tra diversità e tra aree di conflittualità, concettuale e pratica ad un tempo, intraprese con lo scopo di trovare i punti comuni, le convergenze, le prospettive per il futuro.

Caratteristica di Green era la sua passione per un confronto diretto, franco, aspro se necessario, che mai andava disgiunto da uno sguardo rivolto al futuro della nostra disciplina: se c’è stato un analista continuamente preoccupato per il futuro della psicoanalisi, per come poter far transitare una ‘scienza’, nata alla fine del XIX secolo, che ha attraversato tutto il XX secolo fino alle soglie, per lui, del XXI, questo è stato lui, consapevole come era della difficoltà di tenere saldi i principi fondanti della psicoanalisi e di evitare posizioni che mi sento di definire, ‘assimilazioniste’. Per lui la pietra angolare su cui poggia tutto l’edificio psicoanalitico rimane, “la pratica psicoanalitica nella diversità che essa impone al giorno d’oggi” (op. cit., 15).

Vediamo dunque i temi degli otto dialoghi proposti: la “ricerca” era il primo, il “lavoro di cultura” l’ultimo, come a dare una cornice che includesse anche, in un certo modo, il mondo esterno: e poi, la ‘seduta analitica’, l’ “infanzia e l’età adulta” nella cura, lo “scarto tra teoria e prassi”, e poi ancora il “corpo’ erogeno e somatico”, le categorie del “Simbolico, Reale e Immaginario”.

Da questi temi e dagli scambi, che davano conto di decenni di lavoro clinico-teorico in area francofona, egli trasse le sue osservazioni finali, che si intitolano “Osservazioni per un tempo di pausa (verso una psicoanalisi del futuro)”.

La sua prima preoccupazione è stata di sottolineare che, anche se non possiamo che utilizzare la logica dei processi secondari, l’ “ ‘oggetto’ della psicoanalisi si trova altrove, dal lato della logica primaria, dell’inconscio ed anche al di là di questo” (242). Noi analisti, in primo luogo, dovremmo sentirci impegnati sempre a tradurre “la lingua della scrittura psicoanalitica in quella dei processi primari” e ciò in ragione del fatto che il quid dello psichico per la psicoanalisi sarebbe la sua qualità metaforizzante. Ciò ci permetterebbe di non scivolare verso un realismo ingenuo che vorrebbe collocare lo psichico psicoanalitico dal lato delle scienze naturali.

“La metafora è il luogo segreto, nel discorso, da cui tutto deriva e verso cui tutto converge” (244).

Centralità del linguaggio, a tutti i livelli, nella cura e del lavoro interpretativo da parte dell’analista: è l’incontro analitico che è fondante e che dà accesso allo psichico vero e proprio, all’inconscio: un incontro ‘parlato’ e ‘parlante’.

 L’incontro analitico colloca perciò l’ ‘altro’, l’altro del discorso a cui la parola è rivolta, l’altro come il ‘simile’ che rimane sempre anche un estraneo, l’ ‘altro’ come l’alterità interna che la cura analitica permette di scoprire, in una posizione del tutto particolare, in una “modalità di scambio polarizzato che non è paragonabile a nessun’altra” (246). Modalità che, anche se può modularsi diversamente a seconda dei diversi funzionamenti psichici dei pazienti, più o meno vicini al terreno della nevrosi, non modifica la posta in gioco di ogni cura analitica: “estensione del dominio del Conscio-Preconscio, con i rimaneggiamenti topici, economici e dinamici che ne derivano” (ibid.). Un ritorno su di sé, dice Green, passando attraverso l’altro, il simile: una “alterazione del soggetto”.

La considerazione delle multiple temporalità nella cura, il “tempo in frantumi”, come Green lo chiama, va di pari passo con l’abbandono dell’idea di avere una presa diretta sull’origine che è, al contrario, definitivamente persa: un’ “origine ipostatizzabile, che ci è accessibile solo après-coup” (ibid.), ecco quello che la cura analitica può offrire. Proposizione che non so quanti analisti sottoscriverebbero, allettati dalle tecniche che permetterebbero di ‘vedere’ l’infans, invece che pensarlo a posteriori, nella cura, anche se il paziente stesso fosse, in questo caso, un bambino piccolo.

 E’ proprio attorno alla dialettica alienazione/identificazione che Green riprende in mano la questione dell’Altro, del desiderio dell’Altro e perciò le posizioni di Lacan, avendo poco prima fatto riferimento ad Aulagnier sulla questione del riconoscimento: significativa scelta che gli permette di introdurre quel tema, per molti aspetti scabroso, il grande Altro, rispetto al quale Aulagnier stessa aveva preso le distanze, senza mai smentire la sua filiazione lacaniana.

Con la sua molto caratteristica propensione a trovare delle sintesi efficaci per raccogliere i vari fili sottesi a tutte le questioni affrontate nei dialoghi, Green afferma: “Se cerco di raggruppare attorno a dei poli organizzatori l’insieme dei contributi – cosa che, forse, non rende giustizia alla loro diversità, ma tuttavia sottolinea bene la loro appartenenza ad uno o all’altro dei movimenti che animano la psicoanalisi francese – ne proporrei due: a un estremo, la pulsione; dalla parte opposta, qualcosa che è più difficile da definire, che ruota attorno all’Altro, al simbolico” (ibid., 249).

Ecco dunque i tratti riconoscibili e evidenziati del suo affresco psicoanalitico: e noi che lo abbiamo letto, conosciuto, seguito negli anni, riconosciamo tutte le pennellate  che compongo il quadro che Green ha composto e che ci ha lasciato, incompiuto e aperto, ricco di implicazioni e riconoscibile nei presupposti, radicato nel pensiero freudiano e perciò, grazie a ciò, alla “rivoluzione  psicoanalitica”, per citare il bel titolo del libro di Marthe Robert: pulsione e rappresentazione,  l’affetto, i processi di simbolizzazione, legame e slegamento, processi terziari, la riserva dell’increato, l’incompiutezza, il tempo in frantumi, la follia e la psicosi, il lavoro del negativo, la madre morta, l’allucinazione negativa, la diacronia, la causalità psichica… Senza grande sforzo questo elenco, improvvisato e mio personale, mi è venuto in mente e mi sono detta che André Green è presente dentro di me con tutta la forza del suo pensiero: non potrei pensarmi ed essere psicoanalista prescindendo da ciò.

 

 

Note

[1] M. Aisenstein, J-L Baldacci, Th. Bokanowski, C. Botella, S. Botella, C. Chabert, D. Clerc, J. Cournut, M. David-Menard, P. Denis, G.Diatkine, J-L Donnet, S. Dreyfus, A. Fine, P. Guyomard, C. Janin, P. Miller, M. de M’Uzan, M. Neyraut, M. Ody, J-C Rolland, R. Rousillon, D. Widlocher, N. Zaltzman.

 

Bibliografia

Green A. (2003). Le travail Psychanalytique. Paris, PUF.

Robert M. (1967). La rivoluzione psicoanalitica.  La vita e l’opera di Freud. Torino, Boringhieri, (prefazione C.L. Musatti).

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