Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Marilia Aisenstein
(Parigi) Membro Ordinario con Funzioni di Training della Société Psychanalytyque de Paris (SPP); Membro della Società Psicoanalitica Ellenica (EΨE) e della British Psychoanalytical Society (BPS). Istituto di Psicosomatica di Parigi, cofondatrice e redattrice della Revue française de psychosomatique.
Per iniziare, partirei dall’ultimo paragrafo della Messa a punto dell’argomento in cui si ricorda che per far fronte allo sconosciuto collocato tra corpo biologico e funzionamento psichico, secondo Freud, non possiamo che ricorrere a costruzioni ausiliarie. Personalmente, credo che questo sia valido ancora oggi.
In effetti Freud ha sempre tentato di mappare “questo misterioso salto dallo psichico al somatico” proponendo le sue rappresentazioni topiche. Egli scrive che questo “non è potuto avvenire senza la formulazione di nuove ipotesi e la creazione di nuovi concetti […] Tali ipotesi e concetti possono rivendicare infatti lo stesso valore di approssimazione alla verità di analoghe costruzioni ausiliarie in altri campi delle scienze naturali, e sono in attesa di modifiche, rettifiche e determinazioni più rigorose grazie all’accumulo e alla selezione delle esperienze” (1938, 585-6).
Eppure, nonostante i notevoli progressi delle scienze cosiddette “dure”, tra cui le neuroscienze, non sono convinta che la psicoanalisi o il dialogo con queste ultime abbiano fatto grandi progressi dal XIX secolo ad oggi.
Dal mio punto di vista invece, la psicoanalisi si è particolarmente arricchita nell’ambito delle conoscenze relative alla clinica psicoanalitica delle psicosi e della psicosomatica psicoanalitica.
Dopo un secolo, assistiamo anche ad alcuni cambiamenti del cadre[1] e della tecnica. Nessuno di noi vede pazienti sei volte alla settimana né tanto meno porta a termine un trattamento in meno di due anni; penso ad esempio all’analisi dell’Uomo dei topi (Freud, 1909). È innegabile che esista una psicoanalisi post-freudiana con Melanie Klein, Winnicott, Bion, Kohut, Garma, André Green, Laplanche, e altri che non nomino. Ciononostante, io credo che tutti questi approcci siano basati sull’opera di Freud e radicati nel corpus freudiano.
La nostra tecnica si è sviluppata per adattarsi alla psicosi ed ai pazienti psicosomatici ma questi sviluppi non rappresentano che delle varianti rispetto alla cura-tipo contraddistinta da “regola fondamentale”, “associazione libera” e “attenzione ugualmente fluttuante”.
Quando giovani psicoanalisti chiedono di lavorare presso l’Istituto di Psicosomatica (IPSO-Parigi), noi li accettiamo solo al termine della loro formazione psicoanalitica affinché abbiano acquisito come riferimento di ogni lavoro quello della cura classica con un paziente nevrotico. Spiego loro sempre che, quando la nostra tecnica diverge, è indispensabile sapere esattamente in cosa stia la differenza e il motivo per il quale si diverge. Decidere di non fare un’interpretazione edipica implica che essa sia stata prima pensata, ma che poi ci si astenga in relazione al funzionamento psichico del paziente. Senza questo presupposto si rischia di fare cose prive di senso.
Su questo punto sono inflessibile, e infatti sono stupita quando ascolto psicoanalisti Kleiniani che non leggono Freud ma leggono solo M. Klein, o quando ascolto alcuni membri della Scuola di Psicosomatica di Parigi per i quali la cultura psicoanalitica inizia con M. de M’Uzan e P. Marty. Questo significa che imparano rinnegando le fondamenta di questi approcci.
Vorrei ora tornare al “misterioso salto dallo psichico all’innervazione somatica” come scrive Freud (1908, 8).
Ricordo qui che la questione relativa al sapere se l’anima e il corpo siano o meno costituti da una stessa sostanza ha impegnato l’intera filosofia occidentale a partire da Aristotele.
Dopo Spinoza, il monismo materialistico sostituisce il dualismo psiche-corpo e prepara il terreno per la risposta fornita da Freud: non si affrontano da un lato il corpo ed i suoi desideri, e dall’altro la psiche e le sue ragioni, bensì nei medesimi siti del corpo, possono opporsi forze antagoniste…
La nascita della psicoanalisi, infatti, è indissolubilmente legata allo studio dell’isteria di conversione. È interessante notare che Freud non ha mai parlato in termini di psicogenesi ed ha invece preso in considerazione l’idea di un organo costretto a servire due padroni contemporaneamente, fornendo così il proprio significato al sintomo di conversione. Mi riferisco all’articolo del 1910: I disturbi visivi psicogeni nell’interpretazione psicoanalitica.
Il termine “psicosomatica” non appare quasi mai sotto la sua penna. La storia di questo termine merita di essere ripercorsa. Lo incontriamo per la prima volta nel XVIII secolo. J.C. Heinroth (1773-1843), alienista e psichiatra che fu un esponente del vitalismo inaugurato da F. X. Bichat, sembra averlo coniato per descrivere alcuni fattori somato-psichici o “psicosomatici” in una pubblicazione circa l’influenza delle passioni e della sessualità in casi affetti da tubercolosi ed epilessia.
Caduto successivamente in disuso per molto tempo, il termine è ripreso un secolo dopo da Felix Deutch (1894-1963), discepolo di Freud e primo psicoanalista che prova a prendere in considerazione il trattamento psicoanalitico del disturbo somatico. Deutch introduce tuttavia un trait d’union, “psicosomatico” diventa “psico-somatico”, dando così l’idea di restare all’interno di un dualismo alla ricerca di reciproche influenze.
Il rapporto di Freud con il fatto psicosomatico è complesso. Da una parte, sostituendo il dualismo psiche-soma con il dualismo delle pulsioni, egli inscrive sin dal principio la psicoanalisi all’interno di un monismo sostanziale e filosofico. Dall’altro, egli appare titubante ad intraprendere questa direzione di ricerca.
Infatti, è possibile rintracciare in lui una vera e propria indecisione. Dal punto di vista teorico, egli affermerà che solo la psicoanalisi consente di comprendere le “relazioni” tra il corpo e lo spirito.
Tuttavia, in diverse occasioni, sia con il suo silenzio nel 1913 in occasione della presentazione di un caso di asma da parte di Federn, sia con la sua reticenza nell’incoraggiare gli psicoanalisti a volgere lo sguardo ai problemi somatici, risulta chiaro che egli è esitante nel dare un vero e proprio impulso alla ricerca psicosomatica.
Freud si rivela monista nei suoi studi e nelle sue conclusioni teoriche ma si rivela dualista quando si confronta con la pratica clinica. Confiderà in una lettera che gli psicoanalisti non hanno ancora la formazione necessaria per affrontare questo tipo di problemi.
Tuttavia due brevi passaggi, l’uno di Introduzione al narcisismo (1914) in cui fa riferimento al necessario ritorno della libido narcisistica nell’Io del paziente, e l’altro in una nota di Al di là del principio di piacere (1920) in cui si interroga sulla remissione di sintomi mentali acuti in concomitanza col manifestarsi di una malattia organica rilevando per inciso che si tratta di modalità di ripartizione della libido, entrambi questi passaggi sembrano indicare la presenza nell’opera freudiana di una visione quasi anticipatrice della ricerca psicosomatica.
Attraverso queste “piccole” considerazioni, il fondatore del metodo psicoanalitico pone di fatto le basi dell’approccio psicosomatico che oggi è rappresentato della Scuola detta di Parigi.
Dal punto di vista storico, le fondamenta della psicosomatica come disciplina si basano sulle osservazioni cliniche di alcuni psicoanalisti: F. Deutsch, G. Groddeck, S. Ferenczi. I primi studi sistematici sono condotti negli Stati Uniti dove Franz Alexander fonda con Dunbar la Scuola di “Medicina psicosomatica di Chicago”. Non è di poco interesse sapere che sono due grandi compagnie di assicurazione ad aver fornito i finanziamenti per le prime ricerche di Alexander ed il suo gruppo.
Dal suo punto di vista, esiste un’identità evolutiva tra processo psichico e fattori fisiologici, e questo all’interno di una prospettiva psicodinamica.
Le manifestazioni psichiche sono sin dall’inizio inscritte all’interno della fisiologia delle funzioni organiche che corrispondono al soddisfacimento dei bisogni vitali.
Esse si traducono in attitudini tonico-posturali, fondate su una dinamica fatta di tensione e scarica.
Il neonato prima e il bambino dopo, riceve segnali ai quali risponde attraverso un’attività corporea. Le grandi funzioni organiche rispondono a tre schemi: incorporazione, ritenzione, eliminazione. Queste ultime costituiscono dei vettori che sottendono ogni attività umana e relazionale.
Appoggiati allo sviluppo dell’organismo, i processi mentali si differenziano e si integrano man mano che procede la sua maturazione.
Le ipotesi di Alexander e di Dunbar ambiscono a mettere in relazione i sintomi somatici, che loro chiamano psicosomatici, con specifici conflitti. Egli le definisce dunque “malattie psicosomatiche”. Questo accade, diversamente dalla Scuola di Parigi, per la quale invece è l’essere umano ad essere “psicosomatico” e il sintomo è privo di senso simbolico ma legato alle fragilità genetiche del soggetto.
È un peccato che l’odierna psicoanalisi americana sembri essersi disinteressata ai lavori della scuola di Chicago.
Nel corso degli anni 60, percorrendo strade diverse, P. Marty e M. de M’Uzan in Francia e Sifnéos e Namias negli Stati Uniti descrivono gli uni “il pensiero operatorio”, e gli altri “l’alessitimia”, per individuare una psicopatologia negativa, caratterizzata dall’apparente assenza di vita affettiva e fantasmatica spesso associata a disturbi somatici.
Lavorando presso l’Ospedale psichiatrico di Clermont nel 1942, in piena guerra, durante un inverno particolarmente rigido, Pierre Marty era stato colpito dalla scarsa ripercussione che, la mancanza di cibo ed il freddo avevano sortito nei pazienti psicotici cronici, e questo mentre il personale sanitario perdeva peso e si ammalava.
Ne aveva dedotto che l’intenso lavoro psichico della psicosi proteggeva il corpo.
Con M. de M’Uzan, M. Fain e C. David si mise a riflettere sull’apparente assenza di segnali psichici in pazienti gravemente malati e ricoverati.
Fondata da psicoanalisti, la “Scuola di Psicosomatica di Parigi”, nasce nel 1962. Per lungo tempo sarà considerata come una dissidenza da molti colleghi.
Eppure, la psicosomatica, applicazione della psicoanalisi ai disturbi del corpo, dovrebbe essere una vocazione primaria. Il sogno, infatti, oggetto privilegiato della scienza psicoanalitica, è concepibile solo come funzione fisiologica all’interno della clinica del sonno.
Il sogno testimonia così la dimensione corporea, somatica, presente a diversi livelli in qualsiasi approccio psicoanalitico.
Volendo definire un “ordine psicosomatico”, l’opera di P. Marty, così come l’ampia letteratura che dobbiamo agli psicosomatisti della prima generazione (P. Marty, M. de M’Uzan, M. Fain, C. David) è imprescindibile.
Il principale valore di questi lavori è quello di aver attirato l’attenzione di tutti gli psicoanalisti sull’economia, sulle modalità di ripartizione della libido, così come sull’importanza della qualità e della variabilità del funzionamento mentale.
Alla nozione di struttura o di organizzazione si sovrappone quella di cambiamenti e di differenze di regime. Questo importante aspetto sarà sviluppato più avanti nel testo.
In linea generale, una difficoltà della psicoanalisi riguarda l’impossibilità di far riferimento ad un’epistemologia psichiatrica o psicologica classica, dal momento che la semiologia psicoanalitica ha una propria specificità.
Il compito dei pionieri della Scuola di Parigi si è rivelato ancora più arduo, costretti com’erano a confrontarsi con una semiologia negativa, cioè senza evidenze patologiche, e dovendo fare i conti con una clinica particolarmente diversificata ma la cui caratteristica principale consisteva spesso nella manifestazione di una eccessiva normalità. La chiave di volta della costruzione teorica di Marty risiede nell’ipotesi secondo la quale il nostro apparato psichico ha come funzione quella di gestire i costanti eccitamenti traumatici della vita. Se l’apparato psichico presenta delle carenze o se viene sovraccaricato, l’eccitamento deve trovare nuove vie di scarica e le troverà nei comportamenti oppure nel corpo.
La via somatica è dunque una soluzione per lo psichismo.
Queste ipotesi hanno portato alla creazione di nuovi concetti, come quelli di “depressione essenziale”, “disorganizzazione progressiva”, “pensiero operatorio”, oggi utilizzati nella totalità della comunità psicoanalitica.
Allo stesso tempo, le esigenze sollevate dall’esperienza clinica e la sua fenomenologia hanno condotto all’utilizzo di categorie nosografiche diverse, peraltro talvolta discutibili, come quella di nevrosi detta “del comportamento”.
Il campo così inaugurato manteneva le porte aperte alla ricerca teorica sulla metapsicologia freudiana, così come alle variabili e alla frontiere – in particolare quella tra psicosi e somatosi, nonché quella relativa agli stati limite – ricerca cruciale dal mio punto di vista perché unica via capace di evitare la deleteria frammentazione dei diversi ambiti del sapere.
I contributi della Scuola Psicosomatica di Parigi
Diversamente dall’approccio medico che considera il malato a partire dalla sua malattia, l’approccio psicosomatico lo affronta a partire dall’individuazione, all’interno del suo funzionamento psichico, di un processo di somatizzazione. Di conseguenza, la clinica psicosomatica non può che emergere attraverso il filtro della relazione che lo psicoanalista instaura con il suo paziente malato.
Un processo di somatizzazione è una catena di eventi psichici che favoriscono lo sviluppo di un disturbo somatico. Solitamente distinguiamo due possibili modalità del processo di somatizzazione: il processo di somatizzazione per regressione e il processo di somatizzazione per slegamento pulsionale.
L’espressione “slegamento pulsionale” merita una spiegazione più dettagliata. Secondo la teoria di Freud l’apparto psichico è attivato dalle pulsioni: l’energia vitale, costituita da libido legata ma allo stesso tempo anche da una quota di slegamento, quindi di distruttività. Se le pulsioni si slegano, ciascuna pulsione evolve per conto proprio mettendo a rischio il funzionamento psichico.
Il concetto di mentalizzazione
Si tratta di una nozione utilizzata tradizionalmente dagli psicoanalisti psicosomatisti e che ricopre tutta l’area dell’elaborazione psichica. La mentalizzazione riguarda quindi principalmente l’“attività rappresentativa” dell’individuo. Nella misura in cui il lavoro di legamento delle rappresentazioni (che crea connessioni tra di esse) si mette all’opera nel sistema preconscio, la valutazione della qualità della mentalizzazione e quella della qualità del preconscio sono quasi equivalenti. Secondo Marty, la mentalizzazione si può valutare secondo tre assi: il suo spessore, la sua fluidità, e la sua permanenza.
Lo spessore riguarda il numero di strati di rappresentazioni accumulate e stratificate nel corso della storia individuale.
La fluidità riguarda la qualità delle rappresentazioni ed il loro movimento, sia attraverso epoche passate sia tra le attuali.
La permanenza riguarda la disponibilità, in qualsiasi momento, dell’insieme delle rappresentazioni sia sul piano quantitativo sia sul piano qualitativo.
Il processo di somatizzazione per regressione
Si tratta di un processo che solitamente conduce a crisi somatiche benigne e reversibili. È questo il caso, ad esempio, delle crisi di asma, delle crisi cefalalgiche o di rachialgia, delle crisi ulcerose, colitiche o ipertensive. Si tratta di somatizzazioni che si ripresentano spesso nella stessa forma in uno stesso individuo. Generalmente, queste somatizzazioni si manifestano in soggetti il cui funzionamento psichico è organizzato secondo una modalità nevrotico-normale. La loro mentalizzazione di norma è soddisfacente o poco alterata. In questi casi, le somatizzazioni sopraggiungono nel corso di variazioni del funzionamento psichico che Marty definiva irregolarità del funzionamento mentale.
I processi di somatizzazione per slegamento pulsionale
Questo significa che le pulsioni di autoconservazione non riescono più a legare la distruttività. Se ammettiamo come valido lo schema freudiano delle due pulsioni opposte ma legate, allora lo slegamento comporta sempre un pericolo.
Si tratta di un processo psichico che sfocia solitamente in malattie evolutive e gravi che possono condurre alla morte.
È il caso delle malattie autoimmuni e del cancro. Questo processo si sviluppa in generale nei pazienti che presentano un’organizzazione non nevrotica dell’Io ma soprattutto nei pazienti che hanno subito dei traumi psichici che hanno riattivato delle ferite narcisistiche profonde e precoci. In tutti i casi, la dimensione relativa alla perdita narcisistica è presente e crea i presupposti per un disordine della mentalizzazione, temporaneo o permanente. Questa perdita narcisistica genera uno stato di slegamento pulsionale che modifica l’intero equilibrio psicosomatico del soggetto.
Nel corso dell’evoluzione, assistiamo in un primo momento ad una serie di modificazioni psicopatologiche e, successivamente, a dei cambiamenti fisio-patologici.
Sul piano psichico, osserviamo una serie di sintomi che rientrano nella definizione di vita operatoria: una specifica qualità della depressione, la depressione essenziale, ed una specifica qualità del pensiero, il pensiero operatorio.
La depressione essenziale
Si tratta di una modalità depressiva caratterizzata dall’assenza di espressioni sintomatiche. Essa è stata descritta da P. Marty nel 1966 ed è caratterizzata da un abbassamento generale del tono di vita, in assenza di motivazioni economiche. Non ritroviamo infatti nel vissuto del depressivo essenziale alcuna tristezza né alcun vissuto di colpa, né alcuna autocolpevolizzazione melanconica.
La depressione essenziale si rivela così attraverso la sua sintomatologia negativa e attraverso una particolare stanchezza. I pazienti non si descrivono tristi bensì stanchi. Non provano alcun desiderio, sono “anedonici”: senza piacere.
Dal punto di vista metapsicologico, la depressione essenziale riflette una perdita libidica sia narcisistica che oggettuale.
La depressione essenziale è alla base del pensiero operatorio. Quest’ultimo è una modalità di pensiero attuale, fattuale, e senza alcun legame con un’attività fantasmatica o di simbolizzazione. Essa accompagna i fatti più di quanto non li rappresenti.
La vita, o pensiero operatorio
In realtà si tratta di un non pensiero, nella misura in cui ha perso i suoi legami con la fonte pulsionale. Il pensiero operatorio va distinto da un pensiero ossessivo. Dal punto di vista metapsicologico, il sovrainvestimento della percezione, su cui esso poggia, mira a difendere il soggetto dagli effetti dell’impotenza traumatica.
Il pensiero operatorio è una difesa drastica contro un traumatismo recente o un traumatismo passato ma improvvisamente riattivato.
La vita operatoria può insediarsi in modo cronico o assumere la forma di uno stato di crisi, temporaneo e reversibile. Rappresenta di solito una modalità fragile ed instabile dell’equilibrio psicosomatico. Nelle forme più gravi di vita operatoria, osserviamo spesso un deterioramento della qualità del Super-io e la sua sostituzione attraverso un potente sistema idealizzante che Marty definiva Io ideale.
L’Io ideale basato su un narcisismo onnipotente, secondo la definizione di Marty, è una caratteristica del comportamento che si manifesta attraverso la mancanza di misura. Esso poggia su richieste inesauribili del soggetto verso sé stesso e verso gli altri.
L’attenzione per l’Io ideale in un paziente va rivolta all’assenza di capacità regressiva e alla passività psichica che esso comporta. Tutto ciò, infatti, costituisce un rischio di crollo tanto psichico quanto somatico.
Una volta costituitasi, la vita operatoria del paziente dipende dalla qualità dell’ambiente che lo circonda e in particolare dalla creazione di un dispositivo di cura psicoanalitico adattato.
Tenendo conto delle ridotte capacità mentali di integrazione, essa rappresenta sempre un rischio di disorganizzazione.
Due brevi vignette cliniche che illustrano il lavoro con questi pazienti:
Signor A.
Il signor A. è un uomo di 30 anni, il suo cardiologo è preoccupato e teme che il paziente non assuma regolarmente i farmaci beta-bloccanti.
Si trattava di un paziente gravemente iperteso il cui funzionamento operatorio era palese ed emblematico. Egli era solito raccontarmi i fatti e gli eventi della settimana seguendo un ordine cronologico.
Io mi limitavo ad ascoltarlo pazientemente e con empatia cercando di farlo riflettere sui suoi comportamenti. Ad esempio: “Si è chiesto perché dice questa cosa?”. Nel corso dei primi anni, non era riuscito a raccontarmi alcunché della sua storia. Viveva nel presente. Nessun ricordo e mai erano comparsi affetti o angosce.
Mi accorgo, dopo qualche mese, che ha delle esplosioni di rabbia clastiche che lo conducono spesso al commissariato per atti di rilevanza penale. La diagnosi differenziale sarebbe indubbiamente di psicopatia. E tuttavia non si tratta di questo, ma di uno stato operatorio che fa collassare la topica psichica e porta ad una regressione totale del Super-io. Incapace di qualsiasi lavoro psichico di pensiero quest’uomo aveva solo due soluzioni: la via somatica e quindi l’ipertensione, o il comportamento, per cui la violenza.
Un giorno mi racconta che, mentre dava calci ad un’auto, era stato fermato da un poliziotto in borghese che lo aveva portato ancora una volta al commissariato.
Questo poliziotto gli aveva riservato una correzione fisica e lo aveva tenuto a lungo nel suo ufficio per dirgli che, se avesse ancora agito in quel modo, “se la sarebbe vista con lui”. “Non ti mollo”, gli aveva detto. Durante questo racconto noto che il signor A. ha l’aria radiosa; osservazione che gli comunico.
Il paziente è dapprima stupito, poi risponde: “può darsi; ha stile questo poliziotto”.
Io gli faccio notare che forse ha incontrato un padre che non lo molla come invece aveva fatto il suo di padre sparendo alla sua nascita. Un padre che corregge ma che c’è sempre.
Per la prima volta da quando lo conosco è commosso e mi dice: “Si, non l’ho incontrato neanche una sola volta”.
Da quel momento il signor A. comincia di tanto in tanto a parlarmi della sua infanzia. Non sa che dire di sua madre o di suo padre. Noto che spesso parla con odio di colleghe donne che “lo umiliano” e un giorno gli domando se anche sua madre lo umiliava. Mi riferisce di scene orribili in cui si bagnava di notte e lei lo portava a scuola con le mutande sudice in testa.
Io stessa sono improvvisamente commossa e gli dico che dev’essere difficile ricordare dei momenti così terribili. Direi che in quella seduta c’è stato tra di noi un’“autentica condivisione di affetto”.
Trascorrono diversi mesi poi una mattina si siede, mi guarda e resta silenzioso. Si contorce come un bambino terrorizzato. Gli chiedo cosa stia succedendo: “Ho paura” mi dice; gli chiedo: “Paura adesso, qui?”. Non risponde. Insisto: “Ha paura di me?” “Sì”, mi dice il paziente, “sento che Lei non è come al solito, è arrabbiata”. Ebbene, ero preoccupata quella mattina ed effettivamente mi ero arrabbiata per una procedura amministrativa da rifare. Sono molto colpita dalla percezione inconscia del mio paziente rispetto al mio stato psichico, nonostante lo avessi messo da parte in quel momento.
Sperimento quanto il piccolo bambino doveva essere in allerta circa gli “umori” della madre probabilmente immatura e pazza.
Condivido con lui questa osservazione, viene colto da irrefrenabili singulti di pianto.
Dopo questi due momenti, è stato possibile iniziare un lavoro di psicoterapia psicoanalitica più classica durata poi diversi anni.
Signora B.
La signora B. è una donna di quarant’anni, con una forma di asma molto grave; la sua malattia le impedisce di lavorare, non ha un compagno e non ha figli. La sua organizzazione psichica è tipicamente borderline ma con dei lunghi momenti operatori.
Da diversi mesi si aggrappa al mio sguardo e si lancia o in descrizioni di fatti quotidiani, o in diatribe piene di odio e furiose contro il tempo, il governo, la sicurezza sociale, i suoi medici…
Il suo discorso al contempo fattuale, ripetitivo, pieno di odio e aggressivo, è difficile da interrompere e da tollerare. So di doverla ascoltare pazientemente ma mi sento alquanto disperata.
Un giorno, dopo essersi lamentata con violenza del suo allergologo, della segretaria, del mio silenzio, inizia a descrivermi dettagliatamente un recente dolore intercostale, violento, comparso lo scorso fine settimana. Le hanno diagnosticato una micro-frattura di una costola a causa delle sue crisi di tosse e a causa delle elevate dosi di cortisone. Parla da ormai quasi venti minuti con rabbia. Io mi sento preoccupata e mi distraggo, e a quel punto, penso ad una mia cara amica morta per un’embolia: non si era rivolta a nessuno per quel dolore che lei stessa, in quanto medico, credeva fosse una frattura intercostale.
Sono invasa da un intenso senso di tristezza. Dopo qualche secondo, la paziente si muove, respira rumorosamente, mi sembra stia per iniziare una crisi di asma. Si alza come per andare via e urla contro di me: “Ecco è colpa sua…ho un’altra crisi…mi ha mollata!”. Le chiedo di risedersi e le parlo a lungo: le dico che ha ragione, ho pensato a qualcun altro a cui lei mi ha fatto pensare, ma le dico che dobbiamo interrogarci insieme circa la sua intolleranza se non può controllare il pensiero dell’altro nella sua totalità.
A quel punto la paziente respira meglio, ed io le propongo una costruzione dicendole che forse mi fa vivere un’invasione ed un controllo del pensiero che deve aver subito lei stessa in un lontano passato… Piange per la prima volta.
Mi parlerà a lungo e per mesi interi di una madre intrusiva che pensava al suo posto, sapeva lei se aveva freddo o fame: sapeva meglio di lei ciò che lei provava. Ma soprattutto questa madre la tormentava: “A cosa pensi? Non fantasticare, resta presente, ascoltami!”.
A partire dall’introduzione di un terzo e della sua storia, è stato allora possibile iniziare un lavoro psicoanalitico. La signora B. ha finalmente potuto ripensare a se stessa come bambina e successivamente a sé come soggetto. Queste riformulazioni erano state per lei una vera e propria occasione di trasformazione.
Per concludere
Desidero tornare qui su quanto André Green chiamava “la svolta del 1920” ovvero Al di là del principio di piacere, scritto rivoluzionario che introduce la seconda teoria delle pulsioni, oppone la libido alla pulsione di morte e determina la nascita di due testi fondamentali nell’opera freudiana: L’Io e l’Es (1922) e poi, due anni dopo, Il problema economico del masochismo (1924). Come evidenzia la Messa a punto dell’argomento di questo Numero tutte le tesi sostenute in questi tre scritti sono ancora confermate da Freud nel 1938, nel Compendio di psicoanalisi.
Quanto a me, sono colpita dalla coerenza della successione dei tre lavori.
Credo che la rivisitazione della prima teoria delle pulsioni sia stata inevitabile sin dal 1914 con l‘Introduzione al narcisismo.
Sono stati i fallimenti clinici di Freud alle prese con la reazione terapeutica negativa, il trauma, il narcisismo patologico, il masochismo clinico che lo hanno costretto ad unire autoconservazione e sessualità nella libido e ad immaginare una “pulsione di morte” che non aveva niente a che vedere con la morte ma che è una spinta separante.
Entrambe sono al servizio della vita, quest’ultima ha bisogno di ampliare, agglomerare delle entità sempre maggiori ma ha anche bisogno di separare, di porre una distanza, di inserire un tempo.
Per pensare, ad esempio, queste due azioni sono indispensabili. Mi sembra importante tenere a mente che la pulsione di morte non è un movimento di distruzione; la distruttività è il risultato di un disimpasto, di una disunione delle due pulsioni.
Ho già menzionato in passato la rappresentazione di un traino in cui due cavalli sono costretti a camminare insieme nella stessa direzione. Nel caso di una disunione ciascuna delle pulsioni non legata, evolve secondo la propria direzione, la libido verso l’agglomerazione, la collusione e la pulsione di morte nella direzione delle separazioni che tagliano i nessi e distruggono così il significato.
Dal mio punto di vista, la seconda teoria delle pulsioni è stata indispensabile per approfondire l’ambito clinico della psicosi così come la somatosi. Io ne sono convinta nonostante P. Marty e M. de M’Uzan collocavano entrambi il proprio pensiero all’interno della prima topica, cosa che mi ha sempre stupito. La seconda topica: Io/Es/Super-Io è una conseguenza diretta della seconda teoria delle pulsioni. E’ ne L’Io e l’Es che ci vengono fornite delle risposte formidabilmente complesse ed interessanti che io sintetizzerò di seguito in modo lapidario benché esse meriterebbero uno studio dedicato loro in modo specifico, talmente le loro implicazioni sono cruciali.
La seconda topica ci fornisce la visione antropomorfica e psicodrammatica di un Io privo di confini, diventato qualità psichica, che è anche istanza che rimuove, le cui operazioni difensive sono in maggioranza inconsce. Esso è alle prese con un Es “caotico, carico di energia proveniente dalle pulsioni, privo di organizzazione e di volontà generale e aperto ad un’estremità verso il somatico[2]” (Freud, 1932).[3]
Il soggetto è un Es psichico sconosciuto ed inconscio sulla superficie del quale prende forma un Io che rappresenta la parte dell’Es modificata dalle influenze del mondo esterno, ovvero le percezioni sensoriali provenienti da fuori.
Molto diversa dalla prima, la seconda topica passa dal qualitativo allo strutturale e privilegia la forza, le spinte pulsionali a scapito dei contenuti delle rappresentazioni. Questo sembra attestare un cambiamento correlato all’introduzione della seconda teoria delle pulsioni, pensato per rendere conto di una distruttività fin lì ignorata.
Si tratta della principale differenza tra inconscio e Es. Mentre l’inconscio della prima topica resta nel registro del piacere, l’Es è invece abitato da spinte pulsionali antagoniste tra cui quelle di distruzione, esso è descritto da Freud come un caos. Qui si pone la questione della rappresentazione. Essa è inclusa nella spinta pulsionale?
Mi pare che si possa vedere quest’ultima come contenente la rappresentazione di cosa o come traccia mnestica investita di energia.
L’energia proviene dal corpo, la rappresentazione, invece, viene dalla percezione; serve dunque l’incontro e il legame tra questi due elementi. Eppure questa risposta non risolve l’ambiguità fondamentale dell’origine della rappresentazione.
Se la richiesta proviene dal corpo che la impone allo psichico, come personalmente avrei la tendenza a pensare nella mia prospettiva psicosomatica, sarebbe la tensione pulsionale che nella sua ricerca darebbe origine alla rappresentazione dell’oggetto.
L’origine sarebbe dunque un imperativo economico. Ma allora dove avviene il passaggio qualitativo? In Il discorso vivente, capitolo V “L’affetto e le due topiche”, A. Green pone molto chiaramente l’alternativa: origine economica oppure “origine simbolica”, ovvero – lo cito – l’”origine” delle rappresentazioni sarebbe da ricercare in un ordine simbolico, come equivalenti endopsichici, delle percezioni esterne, fantasmi di percezioni, cioè ‘tracce fantasmatiche’. Freud non sceglie nettamente nessuna di queste due concezioni” (Green, 1974, 186).
Personalmente, a me sembra che serva considerare una combinazione che riformulerei nel modo seguente: origine economica e ricerca nell’ordine simbolico.
Possiamo immaginare una serie di operazioni mutative, di “decodifica o traduzione” che vanno dal versante più organico al versante più psichico, quest’ultimo essendo la rappresentazione di parola. Io metterei questo in relazione con quanto P. Marty ha definito “qualità della mentalizzazione”. Questa qualità deve essere valutata secondo tre assi: il suo spessore, la sua fluidità e la sua permanenza.
Il cambiamento di topica nel 1922 pone dunque nei confronti della rappresentazione una questione cruciale: noi assistiamo infatti ad un declino del concetto di rappresentazione a favore della nozione di spinta pulsionale. Ora questo viraggio verso il versante economico implica una valorizzazione, nuova nel pensiero dei Freud, nei confronti dell’affetto.
Questo cambiamento dell’enfasi che si sposta dalla rappresentazione all’affetto è rilevante e le sue implicazioni cliniche sono immense. In effetti con alcuni pazienti, tra cui i pazienti somatici ma non solo, tutto il lavoro dell’analisi si concentrerà sull’accesso agli affetti e sulla possibilità di metabolizzarli più che sull’interpretazione dei contenuti inconsci.
Per tutti questi motivi io penso ancor oggi che sia la ricerca che la clinica dei pazienti casi limite, psicotici e psicosomatici, non possano privarsi di pensare in termini di seconda teoria delle pulsioni e seconda topica.
Io direi dunque che è con Freud stesso che inizia l’estensione della psicoanalisi ai pazienti non nevrotici, ambito che ci interroga ancora oggi e che resta da lavorare nel 2023.
[Traduzione di Ilenia Emma Caldarelli]
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[1] [Cadre: usato per indicare una serie di procedure che fanno parte della situazione analitica ma che non la esauriscono (Bleger, 1967). Il cadre è l’insieme delle condizioni formali e contrattuali che fanno da cornice al lavoro analitico, rendendolo possibile in un ambito spazio-temporale, vicino al concetto di encuadre degli argentini (Ferraro F., Genovese, C. (1986) Setting. Rivista di Psicoanalisi 32: 95-109). N.d.T.]
[2] Corsivo mio.
[3] [In O.F.S.: “All’Es ci avviciniamo con paragoni: lo chiamiamo un caos, un crogiuolo di eccitamenti ribollenti […] si riempie di energia, ma non possiede un’organizzazione, non esprime una volontà unitaria.” E “ce lo rappresentiamo come aperto all’estremità verso il somatico” (Freud,1932, 185). (N.d.T)].
Bibliografia
Freud S. (1909). Osservazione su di un caso di nevrosi ossessiva (Caso clinico dell’uomo dei topi). O.S.F., 6.
Freud S. (1910). I disturbi visivi psicogeni nell’interpretazione psicoanalitica. O.S.F.,6.
Freud S. (1914). Introduzione al narcisismo. O.S.F., 7.
Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere. O.S.F., 9.
Freud S. (1922). L’Io e l’Es. O.S.F., 9.
Freud S. (1924). Il problema economico del masochismo. O.S.F., 10.
Green A. (1973). Il discorso vivente. La concezione psicoanalitica dell’affetto. Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1974.
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